Conflitto in Siria: interessi e limiti dei players regionali

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 [Traduzione di Franco D’Eugenio da: Conflict in Syria: Regional Players’ Motives and Limits| Stratfor

In breve

Un’iniziativa egiziana per la gestione della transizione della Siria post-al Assad è stata lanciata il 17 settembre con un incontro ad alto livello al Cairo. I ministri degli esteri di Egitto, Turchia e Iran hanno discusso su una possibile via d’uscita per il presidente siriano Bashar al Assad e, cosa più importante, su ciò che verrà dopo di lui. L’Arabia Saudita, anch’essa parte del gruppo di contatto, non ha mandato un inviato e non ha fornito alcuna spiegazione per la sua assenza.

Le quattro potenze probabilmente non saranno in grado di raggiungere un accordo sostanziale sulla transizione siriana. Ma il gruppo di contatto offre un comodo prisma attraverso il quale visualizzare i vari motivi e i vincoli delle quattro potenze regionali: l’Iran sciita e gli attori sunniti Turchia, Egitto e Arabia Saudita.

Analisi

L’Iran si trova ad affrontare una battuta d’arresto geopolitica in Siria con la perdita del suo stretto alleato, il regime di al Assad. Il regime alawita potrebbe crollare da un momento all’altro; in effetti, recenti dichiarazioni fatte al di fuori di Teheran, confermano i sospetti che l’Iran stia inviando corpi della Guardia Rivoluzionaria Islamica a sostegno delle forze siriane. Ma i pilastri fondamentali del regime si stanno indebolendo, e Damasco sta essenzialmente combattendo una guerra di logoramento contro una forza ribelle divisa e disorganizzata, ma determinata.

Teheran vuole salvare quanto è possibile del potere alawita. Ha degli strumenti a sua disposizione, compresa la minaccia di un’insorgenza a guida alawita post-transizione simile a quella post-Saddam Hussein nel vicino Iraq. Nessuno dei vicini della Siria, i players regionali o le potenze straniere che hanno un interesse in Siria – inclusi gli Stati Uniti – vuole vedere svilupparsi una rivolta. Vorrebbero vedere una continuità dell’apparato statale e delle forze di sicurezza, che richiederebbe un accordo di condivisione del potere e quindi una possibilità per l’Iran. Allo stesso tempo, la Siria è solo un pezzo – seppur critico – in una più ampia partita a scacchi tra Iran e Stati Uniti. Washington, insieme alle potenze locali Israele, Arabia Saudita e Turchia, vuole vedere l’influenza iraniana nel Levante ridotta, ma vuole anche contenere le ambizioni nucleari dell’Iran e qualsiasi minaccia per lo strategico Stretto di Hormuz.

Il gruppo di contatto egiziano fornisce l’accesso a qualcosa che l’Iran si è visto finora negare: un posto al tavolo. Il rientro dell’Egitto nella geopolitica regionale e le sue aperture all’Iran sono un’opportunità per gli iraniani, dal momento che Il Cairo sta dimostrando che il leader storico del mondo arabo è disposto a lavorare con loro e mediare con il resto degli Stati sunniti. Il gruppo di contatto egiziano mette il più stretto alleato della Siria, l’Iran, al tavolo con i sostenitori principali dei ribelli siriani, l’Arabia Saudita e la Turchia.

L’Iran non è ancora pronto ad impegnarsi in qualsiasi discussione di merito. La prima richiesta fatta da Teheran, prima ancora che i colloqui iniziassero, è stato di aggiungere Iraq e Venezuela al gruppo. La richiesta, fallita, ha probabilmente contribuito alla decisione di Riyadh di non mandare un inviato alla riunione del gruppo di contatto, anche se Riyadh ha inviato il suo vice ministro degli Esteri al Cairo la scorsa settimana per la riunione preparatoria. Teheran vuole dimostrare che non è disperata e che non ha bisogno del gruppo, ma ha inviato il ministro degli Esteri iraniano Ali Akbar Salehi alla riunione. Teheran ha bisogno di accedere ai colloqui di transizione e, finora, il gruppo egiziano è l’unica discussione alla quale è invitato l’Iran.

Il ruolo della Turchia

La Turchia ha anch’essa mandato un inviato al Cairo, benché la posizione di Ankara sarà ridotta, piuttosto che rafforzata, dall’intervento egiziano. La Turchia ha assunto il maggior rischio nel sostenere i ribelli. La posizione della Turchia è simile a quello dell’Iraq o del Libano. Ankara affronta le reali conseguenze che minacciano la propria sicurezza interna e la stabilità — nel caso della Turchia, la minaccia viene dai movimenti separatisti curdi in Turchia, Iraq e Siria settentrionale.

Mentre l’Arabia Saudita ed il Qatar hanno fornito armi e sostegno finanziario e gli Stati Uniti hanno schierato alcuni agenti della CIA e offerto intelligence e assistenza, la Turchia ha ospitato decine di migliaia di rifugiati siriani e ha fornito copertura, armi, supporto logistico e probabilmente addestramento ai ribelli siriani. Ankara ha rischiato di sconvolgere i suoi delicati rapporti con l’Iran, una potenza rivale, ma anche un fornitore chiave di energia.

La Turchia è stata il punto di contatto principale, insieme con l’Arabia Saudita, per gli Stati Uniti e ha lavorato per rafforzare la coesione e le capacità dell’opposizione siriana e del Consiglio nazionale siriano. Ankara ha anche costruito forti legami con la leadership dell’Esercito Libero Siriano.

Se il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu non avesse scelto di partecipare all’incontro del 17 settembre al Cairo, il gruppo di contatto si sarebbe praticamente sciolto, diventando nulla di più che un colloquio bilaterale tra l’Egitto e l’Iran. Che la Turchia fosse presente è un importante indicatore della pressione cui è sottoposta. Essa ha bisogno di mantenere, per lo meno, un rapporto operoso con l’Iran, in particolare perché cresce la pressione politica interna sul ruolo della Turchia in Siria e aumenta l’ondata di attacchi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan e Ankara accusa Teheran di sostenere i militanti curdi. La Turchia, inoltre, non vuole alienarsi il presidente egiziano Mohammed Morsi o la Fratellanza Musulmana egiziana, in particolare con la Siria e la Fratellanza Musulmana siriana – il più grande ed il più organizzato gruppo sunnita del Paese  – ancora in gioco.

L’Egitto riafferma il proprio potere

Le ragioni dell’improvviso interesse dell’Egitto nel sostenere la transizione in Siria sono molte. In primo luogo, il gruppo di contatto è un piccolo ma importante passo negli sforzi dell’Egitto di riprendere il suo ruolo regionale. Il Cairo spera di posizionarsi come mediatore tra mondo arabo soprattutto sunnita e Iran sciita. Questo aiuterà l’Egitto a controbilanciare i vincoli posti su di esso dalla schiacciante influenza dell’Arabia Saudita. Inserirsi nei colloqui sulla transizione siriana crea anche un’occasione per l’Egitto di costruire una certa influenza nella Siria post-al Assad. Il Cairo ha già ospitato le riunioni dei leader dell’opposizione, anche se varie fazioni ribelli sono uscite e le trattative sono quasi fallite. Dalla creazione della Repubblica Araba Unita nel 1958 l’Egitto non ha avuto l’opportunità di plasmare direttamente il governo di Damasco. Ma ora, Morsi vuole probabilmente lavorare con la Fratellanza Musulmana siriana, che ha conservato gran parte della sua legittimità agli occhi della popolazione della Siria a maggioranza sunnita.

La Siria è stata a lungo un campo di battaglia tra Iran e Arabia Saudita e lo rimarrà per qualche tempo. Ma nel lungo periodo, i ruoli di Teheran e Riyadh saranno ridotti anche se manterranno un peso a Damasco.

La competizione in Siria si sposterà verso una tra Egitto e Turchia in quanto entrambi fanno a gara per sostenere la loro particolare fazione della leadership sunnita. Tuttavia, qualsiasi influenza egiziana sarà limitata nel breve periodo poiché Il Cairo concentra gran parte della sua energia sulle questioni interne.

La divisione iraniano-saudita

Gli obiettivi dell’Arabia Saudita in Siria si concentrano su l’Iran. Riyadh vede la rivolta siriana come un’opportunità storica per ribaltare i vantaggi iraniani nella regione. Temendo una mezzaluna iraniana che si estenda dai Monti Zagros fino alle coste del Mediterraneo orientale lungo il suo confine settentrionale, l’Arabia ha favorito a lungo – direttamente o indirettamente – i ribelli sunniti nel nord dell’Iraq. Essa ha inoltre sostenuto i ribelli in Siria, a quanto pare fornendo armi e finanziando e probabilmente incoraggiando i jihadisti a combattere al fianco delle forze ribelli.

I combattenti salafiti stranieri sono ancora solo una piccola, ma crescente, percentuale di forze ribelli. Anche se essi convertissero ampi segmenti della popolazione siriana sunnita, ci vorrebbero anni prima che essi siano in grado di sfidare la radicata Fratellanza Musulmana siriana. Riyadh è consapevole che un governo a guida salafita non è in grado di emergere a Damasco nel medio termine e ha collaborato con Ankara, in gran parte rafforzando il tentativo della Turchia di gestire la transizione.

L’Arabia Saudita può gestire le relazioni con l’Egitto, che è finanziariamente vincolato, e con la Turchia, che non è ancora pronta ad affermarsi aggressivamente nella regione. Ciò che Riyadh vuole sono i modi per ridurre l’influenza iraniana nel lungo termine, e per Riyadh ciò significa limitare l’influenza iraniana in Siria e in Iraq.

Qualsiasi impegno saudita con l’Iran sulla Siria sarà limitato, dal momento che le posizioni geopolitiche di Riyadh e Teheran sono in contrasto. Riyadh ha partecipato al gruppo di lavoro una settimana prima della riunione dei ministri degli Esteri e, secondo Davutoglu, sarà presente ai futuri colloqui. Arabia Saudita e Iran hanno entrambi già mostrato una disponibilità a negoziare, con l’invito di Riyadh al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad al summit d’emergenza dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica alla Mecca a metà agosto e ospitando l’Iran il vice ministro degli Esteri saudita, Principe Abdulaziz bin Abdullah, il figlio del re e probabile successore dell’ammalato ministro degli Esteri saudita Saud al-Faisal.

Ma, come l’Iran, l’Arabia Saudita è tutt’altro che impegnata e sarà in attesa di vedere qualche serio segnale di impegno da parte dell’Iran. Se qualche sforzo regionale per risolvere il conflitto siriano e gestire una transizione deve avvenire, la chiave sarà ciò che accade tra Arabia Saudita e Iran. La partecipazione completa di tutti e quattro i players al prossimo incontro, in programma a New York City nel corso del prossimo meeting dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, o qualsiasi colloquio bilaterale tra Riyadh e Teheran saranno importanti indicatori di progresso nei negoziati. La mancanza di partecipazione comporterà non solo la morte dell’iniziativa egiziana, ma anche il fallimento di Arabia Saudita e Iran nel raggiungere qualsiasi compromesso.