CONTRO LE “QUATTRO IDEOLOGIE”

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Andrò di brutto, con l’accetta, sul tema proposto nel titolo (e che si chiarirà strada facendo) cercando di evitare l’economicismo e il filosofismo, le due facce di un marxismo ormai sconfitto; che non è tuttavia il semplice pensiero di Marx e nemmeno quello di Lenin, ma solo una sua derivazione molto degradata e “guasta”. Dico subito che le “quattro ideologie” – si aspetti di leggere tutto per capire perché pongo così la questione – sono: neoliberismo (destra), “keynesismo” statal-“sociale” (sinistra), trasformazione rivoluzionaria dentro il capitale (i cosiddetti “bruni”), trasformazione rivoluzionaria contro il capitale (i cosiddetti “rossi”). Proporrò di rigettarle tutte, nel senso di superarle; ma il modo del superamento (proposto in sintesi tramite indicazione del perno attorno a cui esso deve ruotare) risulterà chiaro solo alla fine.
Il fascismo – o, se si preferisce, il nazifascismo – è stato un movimento politico, con forti venature antiborghesi (non consapevoli della differenza tra capitalismo e borghesia; ma non lo era nemmeno il marxismo e quindi il comunismo), affermatosi con ideologie razziste oltre che nazionaliste (pur se con tinte più o meno forti a seconda dei diversi spezzoni nazionali di tali ideologie), seguite da pratiche autoritarie ed estremamente violente, accompagnate a fenomeni diffusi di autentica disumanità e ferocia. Esso, inoltre, per vincere si identificò alla fine con la semplice politica di potenza (nello scontro policentrico, cioè imperialistico, dell’epoca) e quindi divenne forza d’appoggio del grande capitale monopolistico (sia pure con netto orientamento, e rafforzamento, da parte della sfera politica), eliminando, sempre violentemente, le sue ali antiborghesi e “istintivamente” nemiche di tale grande capitale, che infatti se ne servì in definitiva per i suoi scopi, liquidandolo quando fu evidente che esso aveva ormai condotto alla sconfitta di determinati suoi comparti nazionali in lotta, egemonica, con gli altri sul piano mondiale.
Oggi tale corrente non ha possibilità di rimonta in Europa, a meno che non vi siano in futuro settori capitalistici capaci di affrancarsi dalla dipendenza dalla potenza centrale del capitalismo “occidentale” (gli USA), in un’epoca che si sta gradualmente riavviando verso il policentrismo. Comunque, la corrente in oggetto avrà nette difficoltà a risalire la china se non rinnega apertamente le sue ideologie razziste e di semplice potenza in funzione del riavvio di uno scontro tra aree capitalistiche a livello globale (non è un caso che la “geopolitica” sia un ramo inizialmente sviluppatosi ad opera di pensatori “di destra”).
Diverso il caso del comunismo di stampo marxista-leninista. Malgrado la generale critica alla sua presunta ferocia e disumanità – dai nemici paragonata a quella del nazifascismo – tale corrente ebbe sempre un pretta impronta ideologica umanistica, e si rivolse senza mezzi termini alle grandi masse dei dominati incitandole alla rivolta – non meramente caotica e anarchica – contro l’oppressione (e lo “sfruttamento”) dei grandi poteri capitalistici ed imperialistici.
Il comunismo si fondò prevalentemente – e questa fu in definitiva la sua forza e la sua capacità d’attrazione rispetto ai compromessi socialdemocratici con il grande capitale, in specie finanziario (perché la socialdemocrazia privilegi la finanza rispetto al resto del capitale è questione interessantissima, direi quasi decisiva, ma che non posso qui affrontare) – su di un’analisi di classe della società a modo di produzione capitalistico e cercò quindi di individuarne l’intima struttura, nonché la dinamica che Marx suppose diretta oggettivamente al superamento di detto modo di produzione in direzione di uno comunistico; per cui, com’è noto, la “rivoluzione proletaria” sarebbe dovuta essere la semplice levatrice di un parto ormai maturo nelle viscere del capitalismo in sviluppo e trasformazione.
Lenin si accorse, nella prassi e nella “intuizione”, di dati limiti del “marxismo di Marx” (molto deteriorato poi da Kautsky; ma su questo ho già scritto molto e non mi ripeto in questa sede), limiti dovuti precisamente al fatto di trattare il capitalismo in generale, come formazione tendenzialmente (Marx pensava in tempi non troppo lunghi) omogeneizzantesi e strutturatentesi a livello globale nel-
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le due classi fondamentali: quella capitalistica (detentrice della proprietà dei mezzi di produzione in fase di accelerata centralizzazione) e quella operaia (salariata, venditrice della merce forza lavoro). Lenin apportò modifiche sostanziali alla visione marxista tradizionale – che aveva ormai condotto alla formazione della “sinistra” opportunista e complice della classe “avversa” nelle sue avventure imperialistiche – su punti decisivi della teoria e della prassi della “lotta di classe”, senza però arrivare a riformulazioni teoriche generali e di netto superamento di quei limiti.
In particolare egli individuò, nella concreta pratica rivoluzionaria, i seguenti punti deboli. Innanzitutto, la classe operaia (in senso stretto, le “tute blu”) non ha capacità rivoluzionarie. Potremmo precisare che non è in grado di esercitare egemonia nella società, mancando ormai del possesso delle “potenze mentali della produzione”, che avevano invece permesso ai primi capitalisti – non soltanto proprietari dei mezzi produttivi, ma anche dirigenti dei processi in cui questi venivano utilizzati – di conquistarla e di conquistare così anche il controllo delle altre sfere sociali: politica e ideologico-culturale. Gli operai, non più classe in senso proprio, diventano dunque dei meri venditori di merce forza lavoro e contrattano (mediante l’associazionismo sindacale e partitico, soltanto “riformista” e integrato nel capitalismo) tale vendita e una migliore posizione (ruolo, status, ecc.) nell’ambito di una società che non pensano affatto di trasformare comunisticamente.
Inoltre, lo sviluppo capitalistico non avviene con estensione a macchia d’olio del modo di produzione corrispondente (trattato solo in generale nella sua divisione tra proprietà capitalistica e lavoro salariato), bensì con lo sviluppo ineguale di diversi capitalismi, che sono anche potenze fra loro in conflitto sul piano mondiale per l’egemonia (politico-militare, dunque legata alla forza e non soltanto all’influenza dominante in campo sociale e culturale, che ne è solo una parte, e non quella decisiva, quella che “taglia i nodi gordiani” di precedenti equilibri egemonici usando “la spada”). In questo modo, viene riportato all’attenzione il problema della nazione, o comunque di determinate aree socio-economico-culturali, che il tema della divisione in classi (tendenzialmente dicotomica) del capitalismo in generale dimenticava completamente (e volutamente). In un contesto del genere, la lotta tra dominanti e dominati non era più soltanto, e nemmeno principalmente, lo scontro tra capitale e lavoro nelle formazioni particolari che – in quella data fase storica – avevano conseguito il maggiore sviluppo. Il proletariato non era costituito dalla sola classe operaia (in realtà dagli operai solo tradunionisti dei punti alti del capitalismo, ma alti in quella determinata epoca o congiuntura), bensì dall’insieme di operai e contadini (in specie poveri) nei paesi non ancora pienamente evolutisi capitalisticamente (non però in aree arretrate e precapitalistiche, ma in quelle, pur sempre investite dal capitale e dalle sue dinamiche, restate indietro a causa del processo legato allo sviluppo ineguale).
Tuttavia, Lenin non si spinse fino in fondo nella revisione; anzi il tradimento e rinnegamento (non dei soli “principi” ma della semplice lotta di emancipazione degli oppressi) da parte delle socialdemocrazie “occidentali” lo spinse a rivendicare una ortodossia teorica, che in realtà spettava più a Kautsky che a lui. Soprattutto, non mise sufficientemente in causa la rivoluzionarietà (rimase impregiudicata quella almeno in sé) della presunta classe operaia né l’internazionalismo proletario (praticato da settori minoritari dei dominati nell’occidente capitalistico avanzato, malgrado tante ideologiche esaltazioni di qualche episodio sporadico; “eroico” ma ineffettuale). I comunisti rimasero in attesa che la “rivoluzione” dall’URSS (considerata mero avamposto della stessa) si espandesse in qualche paese cruciale del capitalismo avanzato. Quando, con enorme ritardo, ci si accorse che il tradunionismo della “Classe” era in avanzata generale man mano che i paesi capitalistici si sviluppavano (fino ad interessare ogni paese del capitalismo “occidentale”, ivi compreso il Giappone), ci si buttò completamente ad immaginare la rivoluzionarietà dei soli “contadini”, cioè del “proletariato” di paesi ancora quasi del tutto precapitalistici, che di tali “rivoluzioni” hanno fatto alla fin fine la molla per sviluppi capitalistici di tipo nuovo; e in certi casi, vedi Cina, per lanciarsi nel mondo come assai prossime nuove grandi potenze.
Lenin non aveva teorizzato “rivoluzioni contro Il Capitale” (quello di Marx); aveva parlato di anello debole dello sviluppo capitalistico nell’era dell’imperialismo (dello scontro policentrico tra
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potenze). L’anello debole non era un paese sostanzialmente precapitalistico, ma uno già in fondo capitalistico e tuttavia il più fragile nella “gara” tra capitalismi in lotta imperialistica; un paese in cui la borghesia capitalistica in ascesa era ancora molto debole mentre il potere – di carattere pressoché semifeudale – dell’apparato politico (e sociale) zarista era ormai in disfacimento; soprattutto dopo la partecipazione ad una guerra mondiale cruenta, mai vista prima di allora, in cui la Russia si dimostrò il classico “vaso di coccio”. Lenin, concreto com’era, capì presto (a differenza di un fortemente ideologico Trotsky, ad es.) che insistere nel voler fare della Russia il semplice avamposto di una rivoluzione nell’occidente capitalistico avanzato (i comunisti in Germania furono schiacciati con relativa facilità) era del tutto avventuristico. Egli ripiegò sulla Nep (vera “ritirata strategica”) che, credo sia inutile negarlo, fu l’antecedente della “costruzione del socialismo in un paese solo”, apertamente dichiarata da Stalin ma già sostanzialmente implicita nelle scelte di Lenin.
Solo che non fu ammessa fino in fondo la ritirata e non si rinunciò più esplicitamente a certi miti marxisti e comunisti – sia l’internazionalismo proletario, sia la funzione della classe operaia come avanguardia (in sé) delle classi oppresse, che si voleva supporre avessero preso il potere tramite l’“avanguardia dell’avanguardia”, il Partito – per cui il risultato fu la crescita, storicamente positiva, di una grande potenza, antagonista di quelle occidentali, considerata tuttavia in un suo presunto ruolo di garante (e ulteriore “avanguardia”) della rivoluzione proletaria mondiale. Lasciatemelo dire in termini poco teorici: un grande casino, un pasticcio (ideologico) che ha condotto necessariamente al fallimento totale del movimento detto ancora comunista quando aveva ormai abbandonato la sostanza del marxismo e anche del leninismo; evidentemente inapplicabili nella loro concreta forma di espressione al fine di “costruire il socialismo”.
Lo sbocco finale “der pasticciaccio brutto” del “comunismo” ha seguito strade fallimentari che lo hanno ridotto: o a imbroglio elettoralistico di politicanti che sfruttano ancora le speranze e la nostalgia di minimi residui dei seguaci di un tempo (le ideologie sono molto vischiose e se ne vanno nel corso di più generazioni; si ricordi il senza dubbio generoso anarchismo ottocentesco, ancor oggi non del tutto sparito); o a piccoli gruppi, anch’essi generosi (ma temo miopi), che si aggrappano tuttora alla netta dicotomia tra oppressori e oppressi a livello mondiale – trascurando la nuova crescita di tendenze policentriche (lotta tra potenze, prossima ventura, per la nuova egemonia mondiale, affidata alla forza quale decisivo fattore coercitivo per l’espansione economica e politico-ideologica) – formulando nuove varianti del terzomondismo, sempre più pallide e scolorite, e credo senza possibilità di una minima crescita nell’“occidente” capitalistico avanzato; o a tentativi, piuttosto “accademici”, di ripresa della tematica del conflitto tra capitale e lavoro, enfatizzata nei paesi capitalistici avanzati (ma anche sul piano internazionale) dalle correnti dette operaiste, che si presentano in sempre nuove forme (e con nuovi “soggetti rivoluzionari” inventati di sana pianta), avendo talvolta qualche seguito sindacale (il “tradunionismo”, attaccato da Lenin), ma scarse possibilità di sbocco politico che non sia in torbidi movimenti tendenzialmente caotici, al massimo in grado di aprire la strada a qualcosa di molto diverso da ciò che viene predicato (anche in buona fede, non è qui il caso di dubitarne).
Il meglio che ho letto ultimamente (almeno ad una “prima occhiata”) – mi riferisco in particolare al recente libro di Bidet-Duménil, l’illustrazione delle cui tesi si trova nell’ultimo Le Monde diplomatique – è la “complicazione” della divisione in “classi” nel capitalismo (avanzato): non più soltanto capitale e lavoro (classe dei capitalisti e quella dei lavoratori salariati), ma anche il gruppo dei “quadri-e-competenti” (organizzatori e amministratori privati e pubblici) messo fra le classi dominanti; per cui la “lotta moderna di classi” è un gioco a tre e non più a due. Lo schema tradizionale non mi sembra però alterato sostanzialmente, perché gli occhi degli autori appaiono puntati essenzialmente sul (mondo del) lavoro (della produzione). Questo atteggiamento è in linea con la tradizione (quindi, in definitiva, con l’ortodossia) marxista. Diciamo al massimo che sembra di assistere ad un tentativo di “ampliare” Marx (proprietari capitalisti) con Burnham (i quadri e competenti non sono proprio la stessa cosa, ma nemmeno troppo dissimili dai manager di cui parlava quest’ultimo).
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Il marxismo, come anche l’ideologia dominante (quella neoclassica, liberale), non ha mai voluto vedere la fondamentale separazione esistente nel capitalismo – esattamente come in tutte le formazioni sociali che lo hanno preceduto (e nell’unica che pretendeva di superarlo) – tra saperi strategici (implicanti, nelle società divise “in classi” ma soprattutto in vari gruppi sociali, l’ineluttabilità del conflitto per il predominio) e quelli strumentali, legati alla razionalità del minimo mezzo o massimo risultato che conduce all’efficienza economica. L’unica differenza del capitalismo rispetto alle altre società – differenza che gli ha consentito finora di essere il vincitore di “ogni gara” (conflitto spazio-temporale) – è l’introduzione, la estesa applicazione, della razionalità strategica all’interno della sfera economico-produttiva.
Anche i più grandi tra i teorici dei dominanti – penso ad es. a Weber o a Schumpeter con i suoi imprenditori innovatori – pensano il capitalismo quale società fondata, per l’essenziale, sull’efficienza economica, dipendente appunto dalla razionalità strumentale. Del resto, lo stesso marxismo (Marx in testa), enfatizzando il massimo profitto (in quanto connesso all’estrazione del massimo pluslavoro/plusvalore possibile) come fine primario del capitalista (mero proprietario dei mezzi produttivi), è in fondo entro quest’ottica. In realtà, la razionalità in questione, e dunque i sa-peri (sempre più specialistici) dei “quadri e competenti”, è la parte più superficiale, la “scorza” dell’attività dei dominanti capitalistici; il “nocciolo profondo”, ciò che forse non appare in “superficie” – ma soprattutto per l’azione obnubilante dell’ideologia propalata dalla scienza e tecnica subordinate al capitale – è il possesso di saperi strategici che caratterizza gli strati superiori dei dominanti e che sono da essi utilizzati nel conflitto per la supremazia.
Da qui discendono numerose conseguenze che per il momento scorro a volo d’uccello (ma ne ho parlato spesso negli ultimi anni e continuerò in questa direzione d’analisi anche in futuro). Intanto, il conflitto per la supremazia impone di considerare i dominanti come struttura a grappolo di molti gruppi in reciproco conflitto. Niente semplice competizione tra individui “liberi” e “alla pari”, ma nemmeno il predominio di una “classe”, considerata nel suo complesso, la cui unità (nello Stato erroneamente pensato quale suo “strumento”) è puramente fittizia, dipende (in certe circostanze e in certi periodi storici) dalla predominanza schiacciante di un dato gruppo di agenti strategici sugli altri, predominanza sempre temporanea, pur quando i tempi possano talvolta apparire lunghi in rapporto alla nostra singola vita personale. Il conflitto è in realtà permanente e dura anche sotto la coltre dell’unità apparente procurata dall’appena ricordata predominanza di un gruppo; in tale permanenza del conflitto, mascherata dall’ideologia che affida la preminenza al sapere strumentale, si innesta lo sviluppo ineguale del capitalismo, concernente sia sistemi o paesi nell’agone internazionale sia vari gruppi strategici entro ogni sistema.
In secondo luogo, la strategia che regge il conflitto per la supremazia è sempre una politica in qualsiasi sfera sociale venga applicata. Nel capitalismo essa pervade completamente quella economica e spezza l’unità della produzione in tanti organismi separati, in competizione nel luogo denominato mercato, duplicando il prodotto in merce e denaro (quindi moneta), da cui deriva la scissione dell’economico nel settore produttivo e in quello finanziario, scissione che tanta importanza ha nella nostra società, ma che ha anche rilevanti effetti di “annebbiamento” dei connotati “reali” di quest’ultima e delle sue strutture e dinamiche. A differenza di ciò che ha sempre pensato ogni marxista (ivi compreso il sottoscritto per troppo tempo), e come pensano anche Bidet e Duménil (e pure Arrighi), la finanza non è mai predominante da sola. Lo è di fatto in contingenze temporali, e in dati spazi (in genere paesi, nella configurazione tipica delle epoche monocentriche, in cui uno di essi è predominante mentre gli altri sono subordinati o non autonomi), quando esiste una particolare strutturazione dei rapporti fra gruppi in conflitto strategico, tale da assegnare compiti specifici, e rilevanti, agli agenti dominanti della sfera politica; di conseguenza, il gruppo o gruppi che assumono la preminenza appartengono al complesso politico-finanziario, nel paese predominante in tale epoca monocentrica, o finanziario -politico (qui soltanto si verifica la relativa prevalenza della finanza, come effetto della dipendenza o non autonomia) nei paesi a quest’ultimo subordinati (discorso in parte già fatto in precedenti scritti, ma da riprendere alla grande).
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Infine, per quanto la caratteristica storicamente peculiare della formazione capitalistica sia la pervasività delle strategie nella sfera economica, la politicità di queste ultime implica una correlazione stretta – ma non sempre una unità di intenti, anzi spesso un intreccio contraddittorio e instabile – tra gli agenti strategici (gli effettivi dominanti) delle diverse sfere, suddivise per comodità e praticità in economica, politica e ideologica. Impossibile stabilire con certezza, salvo una attenta “analisi concreta della situazione concreta” (Lenin), quale gruppo di strateghi, in quale sfera sociale, è quello che predomina (o si avvia a predominare) nelle diverse congiunture o fasi storiche; l’affermazione di una predominanza, valida in generale per una formazione a modo di produzione capitalistico a-temporale e a-spaziale, è un non senso, un vuoto categorizzare il “reale”. Si può solo affermare che, nelle fasi in cui il predominio “di classe” appare unitario e (apparentemente) monolitico, la compattezza del comando è assicurata dagli agenti politici (e, in subordine, da quelli ideologici), di cui un gruppo prende il sopravvento (con forme dette democratiche o invece con quelle dette dittatoriali) sugli altri.
Da qui credo possa derivare l’affermazione gramsciana relativa alla “egemonia corazzata di coercizione”: egemonia ideologico-culturale, cioè, rafforzata (e protetta) dallo scudo rappresentato dall’uso (non sempre in atto, ma sempre possibile) della forza, il che implica il controllo degli apparati formati dai “distaccamenti speciali di uomini in armi”, che tanti “marxisti” e “comunisti” (piciisti) hanno bellamente dimenticato tra gli anni ’50 e ’70, credendo nello Stato “sociale” (come presunta conquista dei lavoratori, quando invece fu opera primaria dei gruppi dominanti fra loro in conflitto secondo le forme di quella particolare fase storica attraversata dal sistema capitalistico, una fase non a caso di accelerata riaccumulazione del capitale, foriera della futura vittoria sul “socialismo”) in base ad una particolare interpretazione, a mio avviso sbagliata, del “keynesismo”; ritrovandosi così spiazzati di fronte alla reazione neoliberista, che essi hanno pensato come vera (e unica) rappresentante dei dominanti, così da continuare a riproporre (ancor oggi) lo Stato “sociale”, essendo erroneamente convinti che il “keynesismo” (nella versione più statalista) sia l’antagonista del liberismo. Prevedo (non profetizzo) che questa miopia dei piciisti e “marxisti”, trasformatisi in “sinistra” (cioè in semplice opportunismo), sarà la causa di un sconfitta definitiva (forse tragica) del sedicente movimento operaio (o delle “masse lavoratrici”).
L’incomprensione della preminenza dei saperi strategici nella formazione capitalistica (basta parlare di modo di produzione) – la cui unica differenza, però fondamentale, rispetto alle altre formazioni sociali è l’allargamento della sfera d’azione di tali saperi in economia – ha tuttavia un effetto ben più grave e vasto di quelli appena segnalati (che già non scherzano quanto ad importanza). A questo effetto deleterio ha contribuito, per la sua parte, proprio il marxismo, anche quello di Marx stesso (ma non gli attribuisco alcuna colpa, che spetta solo a chi ha continuato a ripeterlo pedissequamente per 150 anni).
Se il sapere strategico è quello predominante (cioè dei dominanti in ogni epoca storica), se esso è finora stato nella storia dell’umanità utilizzato per scontrarsi al fine di assicurarsi la supremazia, se di conseguenza non esiste una “classe” dominante compatta, ma una serie di gruppi di agenti dominanti (strategici) in lotta reciproca (la “compattezza” della presunta “classe” essendo data dalla temporanea preminenza di uno di essi), se “di riflesso” anche i dominati (o non dominanti) sono suddivisi in tanti raggruppamenti non omogenei (e nel cui ambito, anzi, non tende a prevalere nessuno di essi, almeno non nei capitalismi avanzati dove la sedicente “lotta di classe” assume connotati eminentemente tradunionistici, sindacali, cioè distributivi, quand’anche condotta da partiti nel mero ambito elettoralistico e parlamentare della “democrazia” capitalistica); se questo è “vero” (non il Vero), la lotta per la supremazia coinvolge, nel capitalismo, l’economico, il politico, l’ideologicoculturale a pari titolo, nel senso che la preminenza di questo o quel gruppo, in questa o quella sfera sociale, non è, come già detto, prevedibile e declinabile in generale, prescindendo dalla fase storica (temporale) e dall’articolazione spaziale della formazione capitalistica globale.
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A questo punto, diventa monco, e dunque ingannevole (non “vero”), qualsiasi discorso teorico (categoriale) che prescinda dal duplice compito di rendere conto: a) dell’articolazione spaziale dei gruppi dominanti nelle varie formazioni particolari fra loro interrelate secondo “storicamente specifiche” strutture di rapporti (di scontro tra “pari” potenze o di predominio, più o meno temporaneo e più o meno robusto o di “debole intensità”, di una di esse); b) dell’articolazione dei vari gruppi dominanti (e di quelli dominati o non dominanti che si oppongono loro) all’interno di ogni formazione particolare (in genere ancora un paese).
E qui torniamo a quanto detto all’inizio. Certe correnti teoriche hanno dimenticato o trascurato il punto sub b), concentrandosi solo sull’analisi dello scontro e rapporti di predominio tra paesi o gruppi degli stessi. Questa mi è sembrata essere l’unilateralità della geopolitica, molto spesso utilizzata da gruppi in definitiva rivoluzionari che tuttavia, alla fine, hanno eliminato le loro frange in qualche modo “popolari”, alleandosi con dati gruppi capitalistici, pur se spesso quelli più “avanzati” in termini tecnico-produttivi e politico-finanziari, nell’ambito di formazioni particolari interessate all’ascesa (o alla rivincita) nell’acquisizione di potenza (e di “pari dignità” di tipo imperialistico). Altre correnti, e mi riferisco in specie a quelle comuniste – divenute poi piciiste e la cui teoria di riferimento, la marxista, ha subito deviazioni (e degenerazioni) di ascendenza lassalliana sul piano del forsennato statalismo autoritario, o di stampo simil-keynesiano sul piano del presunto “statalriformismo” di carattere “sociale”, nascondendo ideologicamente il problema dei “corpi speciali in armi” e dunque dedicandosi all’opportunismo politico in senso filocapitalistico (quanto meno oggettivamente, al di là delle solite “buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno”) – hanno totalmente dimenticato l’analisi della struttura interrelazionale delle formazioni particolari nell’ambito dello spazio di quella globale o mondiale; e si sono dedicate solo ad ossessive rimeditazioni sul capitalismo in generale, tentando di capire la sua struttura in raggruppamenti sociali, sempre in funzione di una presunta rivolta dei dominati guidata da un soggetto rivoluzionario di massa.
Queste due correnti – che ho definito dei rivoluzionari dentro il capitale (malgrado non tutte le sue frazioni volessero questo esito; ma queste ultime sono sempre state spazzate via) e di quelli contro il capitale – si sono ferocemente combattute, ma alla fine (una prima e una poi; ma il prima e il poi, in tempi storici, sono spesso quasi coincidenti) sono state sconfitte ed esistono attualmente solo piccoli gruppi di resistenza assai poco efficaci (a me sembra almeno). Il campo è stato così lasciato libero, in specie in questa Europa in pieno declino (con l’Italia quale “avanguardia” dello stesso), alla “destra” e alla “sinistra”, sempre più frammischiate fra loro. La prima è alfiere del neoliberismo e predica dunque una decisa riduzione dell’intervento dello Stato in economia con un mercato sempre più affidato alla “libera” concorrenza tra “virtuosi” imprenditori, che si sostiene siano solo dediti al conseguimento dell’efficienza economica (riduzione di costi e di prezzi); la seconda propugna una sorta di “keynesismo sociale” e quindi preme affinché lo Stato riproponga con forza i suoi obiettivi di Welfare.
I neoliberisti appaiono più consci dei compiti repressivi e coercitivi assegnati ai più decisivi e caratterizzanti apparati dello Stato, sia in funzione interna che sul piano internazionale, pur se raccontano “al popolo” le solite menzogne sulle meraviglie della smithiana “mano invisibile” e della ricardiana “teoria dei costi comparati” nel commercio internazionale. I pretesi “keynesiani sociali” non sono nemmeno consapevoli di nascondere i suddetti compiti precipui dello Stato (e dunque partecipano allegramente e irresponsabilmente ai governi di “sinistra”); hanno il loro cervello fissato soltanto sulle funzioni dette sociali, senza nemmeno rendersi conto che queste ultime avevano spazio di intervento nell’epoca monocentrica del capitalismo “occidentale”, di fronte al quale si ergeva un “socialismo” imballato in cui era in gestazione una formazione capitalistica di tipo nuovo, sbocciata infatti dopo il crollo dell’ “involucro” statalista.
Oggi la fase storica sta mutando rapidamente. Il “socialismo” imballato è scomparso; la Cina “comunista” è una di quelle formazioni di tipo nuovo appena nominate, in forte crescita mercantile e imprenditoriale. Inoltre, ci si sta ormai avviando – e credo proprio che vi saremo in pieno tra due-tre decenni al massimo – verso una situazione di policentrismo; enfatizzare lo scontro tradunionisti-
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co (finto “di classe”), senza tener conto dell’altro aspetto strutturale (e geopolitico) del capitalismo, non può che condurre al disastro, come lo condusse nell’epoca delle due guerre mondiali, della grande crisi, del nazifascismo, ecc. Credere di essere in rinascita perché si portano in piazza alcune centinaia di migliaia di zombies (ballanti e cantanti come sul Titanic) è il colmo della superficialità e dell’incoscienza. Prima o poi, come ne La notte dei morti viventi, arriveranno le squadre degli “eliminatori”. Non manca molto perché la “misura sia colma”.
In definitiva, abbiamo quindi oggi in campo due grandi ideologie di “destra” (neoliberismo) e di “sinistra” (“keynesismo sociale”, per quello che vale simile definizione); entrambe “morti che caminano”, ma che ci stanno “mordendo” e trascinando nel baratro con loro. A fronte si trovano due altre ideologie, ormai in stato di asfissia. La prima insiste sulla vecchia divisione in classi del capitalismo in generale, complicandola appena un po’ (come visto sopra, si aggiunge magari una terza classe) e ostinandosi a voler ignorare gli agenti in possesso dei saperi strategici. Si pongono in evidenza solo quelli che Lenin molto più appropriatamente definiva specialisti borghesi (cioè del capitale) e che egli voleva utilizzare con i “fucili” del proletariato (operai e contadini poveri) “puntati alla schiena”. Sbagliava anche lui nell’analisi “di classe” del capitalismo (protrattosi, e poi trasformatosi, sotto la copertura del “socialismo”), ma almeno era per quei tempi assai più concreto del “marxismo della cattedra” odierno. Questa ideologia, ormai sclerotizzata, è quella dei cosiddetti “rossi”.
La seconda ideologia, di piccole minoranze e anch’essa in sclerosi, è quella che vorrebbe risuscitare, senza più cadere nelle vecchie deviazioni razziste, disumane e feroci, la visione di uno scontro tra potenze, talvolta accentuando il carattere culturale delle differenti aree della formazione globale e indebolendo però così le sue tesi; perché tale formazione è di carattere mercantile e imprenditoriale (dunque capitalistico), e il suddetto scontro non può perciò prescindere dalla messa in luce dei saperi strategici utilizzati nel conflitto (che intercorre pure tra gruppi sociali e non soltanto tra formazioni particolari); alla fine, per rafforzarsi e mettersi in condizione di vincere, tali tesi dovrebbero potersi rialleare con determinati gruppi di agenti strategici dei dominanti capitalistici (in particolare con quelli eventualmente in gestazione nella sfera politica). O spariscono o si rialleano; non c’è altra scelta. Sto parlando evidentemente delle formulazioni ideologiche di quelli che gli “avversari” (i “rossi”) definiscono “i bruni” (o “neri”, a seconda delle preferenze).
E allora, concludendo, è necessario che le nuove generazioni, con la testa più libera di noi vecchiotti tuttora dentro queste vetuste ideologie, mandino al diavolo e destra (neoliberista) e sinistra (neokeynesiana e statal-“sociale”); e altrettanto facciano con i “bruni” e con i “rossi” ormai senza fiato. Non pretendo di aver indicato tutto il necessario per una svolta effettivamente nuova; anch’io sono figlio dei miei tempi e non posso saltare in una “nuova epoca”. Tuttavia, credo che uno dei nodi cruciali, al fine di indagare con nuove categorie teoriche la società attuale, sia l’individuazione del nucleo centrale del predominio esercitato dagli agenti capitalistici, nucleo rappresentato dall’agire strategico, che ha senza dubbio bisogno di quello orientato dalla razionalità strumentale (vedi anche l’appendice), ma trattato per quello che è: una funzione di servizio del primo, quello dei dominanti nella società capitalistica (e pure in quelle che l’hanno preceduta, situandosi però in queste ultime prevalentemente nella sfera politica e in quella ideologica). Con tutte le conclusioni che vanno tratte da questa centralità e cui ho accennato, credo con sufficiente chiarezza, in questo scritto.
Non si tratta ovviamente di pretendere l’eliminazione dell’ideologia (come sostiene l’intellettuale imbroglione nell’interesse dei dominanti, propagandando così la peggiore di tutte le ideologie), bensì solo di superare le vecchie ideologie: della destra, della sinistra, dei “rossi” e dei “bruni”. Saremo ancora entro nuove ideologie, adatte ai nuovi tempi, di imminente policentrismo e di mutamenti interni alle formazioni particolari che complicano, moltiplicano, i gruppi sociali e non creano per nulla “soggetti” unitari e compatti in nessun comparto sociale; la compattezza e l’unione delle forze in campo essendo un portato dell’azione politica in condizioni date (ma mutevoli in tem-
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pi e spazi diversi della formazione sociale) e non di oggettive ed intrinseche dinamiche di quest’ultima (considerata per di più in generale, senza spazio né tempo).
Le nuove generazioni debbono dunque liberarsi, a mio avviso, delle “quattro ideologie” sopra indicate e accedere a nuovi “angoli di visuale”, a nuove impostazioni che consentano di indagare le strutture e dinamiche essenziali della formazione capitalistica (la globale e le particolari) nella fase attuale (non in generale) secondo la combinazione – sotto il “cappello” della predominanza del sapere e dell’agire strategici – delle analisi di “geopolitica” e “di classe”, cioè unendo la considerazione dell’articolazione sempre più complicata di (gruppi di) dominanti e dominati nelle formazioni capitalistiche particolari a quella intorno alla configurazione dei rapporti tra queste ultime sul piano mondiale; prendendo atto che si può oggi forse prevedere con maggior sicurezza, rispetto anche solo ad un anno fa, l’entrata non lontana in una nuova fase di policentrismo (di neoimperialismo). Questo il compito assegnato a chi vuol pensare il futuro.
Ottobre 2007
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