CONTRO L'INTERVENTO IN LIBIA DI O. PESCE

Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di O. Pesce ma facendolo precedere da una precisazione di Emilio Ricciardi che esprime la posizione del blog.

Non condivido l'intervento di Osvaldo per motivi non soltanto teorici (rischio concreto di populismo, una certa parzialità della visuale, visione irenica e lineare delle dinamiche storiche), ma anche e soprattutto pratici, poiché credo che una simile impostazione possa portare ad errori di valutazione rilevanti nell'immediato.

Ad es., si sostiene che "L'Occidente invece agita lo spettro dell’islamismo (e della<migrazione biblica>)". A me non pare. Al contrario, tutti i media occidentali esaltano il fatto che, tra i manifestanti arabi, ed anche tra gli stessi insorti libici, non vi sarebbe traccia di islamismo radicale (la frase ricorrente suona all'incirca così: "nel corso delle manifestazioni di piazza non si sono mai bruciate bandiere USA e/o israeliane"). Quanto poi al richiamo alla "migrazione biblica", in realtà è soprattutto la Lega Nord a battere su questo tasto (ed il Governo italiano la asseconda per ovvie esigenze inerenti gli equilibri interni alla maggioranza che lo sostiene), mentre tutti gli altri Paesi europei, viceversa, accusano il Governo italiano proprio di essere catastrofista sul punto. E poi, non è stato forse Napolitano, fra gli altri, a parlare di un preteso "risorgimento arabo"? Ed Obama non ha forse appoggiato (dopo iniziali esitazioni) le rivolte? Ma se tutto ciò è inconcusso ed evidente, allora credo che l'affermazione – palesemente contrastante, ripeto, con i dati di fatto – secondo cui, in definitiva, l'Occidente tenderebbe a valutare negativamente le rivolte, derivi proprio dalla necessità di valorizzare, per opposizione, le rivolte in quanto sommovimenti di popolo. In altri termini, poiché quest'ultimo è buono e progressivo per definizione, allora non è possibile che il main stream occidentale, cattivo ed imperialista per definizione, appoggi tali movimenti (come invece sta accadendo). Di qui, appunto, "L'Occidente" che "agita lo spettro dell'islamismo" e che reprime i popoli arabi in rivolta. Insomma, la (presunta) ostilità dell'Occidente imperialistico alle rivolte arabe finisce per costituire di per sé (nell'impostazione dell'intervento che qui si critica) garanzia della loro integrità ed essenza rivoluzionaria.

Ed è, ancora, questo stesso postulato aprioristico del "popolo è bello" che mi sembra di ritrovare all'opera nella tesi – ventilata sempre nell'intervento in parola – della strumentalizzazione delle masse arabe da parte dell'Occidente. Più precisamente, così argomentando si presuppone implicitamente  l'esistenza di una genesi pura dei movimenti popolari, la quale, successivamente (e solo successivamente), sarebbe stata, invece, incanalata e diretta – appunto, strumentalizzata – da interessi alieni rispetto a tali movimenti. Però in questo modo si disconosce che, ad es., esponenti di importanti segmenti e gruppi che hanno innescato la rivolta egiziana, sin dal 2008 hanno tenuto incontri, e ricevuto all'uopo una formazione anche di carattere strategico, con responsabili apicali (anzi, sembra con gli stessi Segretari di Stato pro tempore in carica, ossia, rispettivamente, Rice e Clinton) del Dipartimento di Stato USA sia durante l'amministrazione Bush sia durante quella Obama, ed il tutto con l'alto patronato della Freedom House. Dunque, qui è la stessa genesi delle rivolte che sarebbe stata preparata da forze esterne. D'altra parte, è seriamente questionabile sino a che punto possano dirsi esterne forze che hanno contribuito grandemente alla cacciata di Mubarak, come l'esercito (in realtà, per quanto se ne sappia, apparato strutturalmente infiltrato ed innervato da componenti militari e d'intelligence USA). Analogo discorso credo possa essere svolto, induttivamente, con riferimento alla Tunisia. 

Infine, mi pare che il dichiarato non interventismo rispetto alla Libia sia declinato come equidistanza fra Gheddafi e gli insorti. Cosa che, se così fosse, non condividerei, giacché credo che, in questo momento, il primo vada sostenuto senza riserve.

Emilio

CONTRO L’INTERVENTO IN LIBIA

Relazione di Osvaldo Pesce alla tavola rotonda del 4 aprile 2011

Milioni di persone sono scese in piazza in vari paesi arabi, con rivendicazioni sociali e solidarietà tra i popoli. Questo è un fatto nuovo di grande importanza. Movente primario è stata la crisi economica globale del sistema capitalistico partita USA, in particolare il raddoppio dei prezzi dei generi alimentari, dovuto al rincaro internazionale aggravato da siccità e in Cina e Russia.

Potrebbero aver influito anche i tentennamenti di Washington rispetto all’impegno in Medio Oriente e lo spostamento della sua attenzione sul Pacifico. La rabbia popolare ha abbattuto o messo in crisi i governi filo-occidentali del Maghreb, dell’Egitto e della penisola araba.

La piazza araba però non chiede solo e lavoro, fa richieste sociali e politiche. Non sono richieste di origine religiosa, perché uno stato islamico non risolverebbe i loro problemi (in Egitto i Fratelli musulmani sono scesi in piazza 5 giorni dopo, in pratica chiedendo il permesso al movimento); non vogliono neanche copiare la “democrazia” occidentale, cercano una strada propria per il cambiamento della vecchia società. L’Occidente invece agita lo spettro dell’islamismo (e della “migrazione biblica”) per arroccare l’opinione pubblica -istintivamente portata a solidarizzare coi movimenti – e prepararla a un eventuale intervento militare. Il potere non è cambiato nella sostanza, anche se Ben Ali e Mubarak sono caduti. La repressione c’è già: in Egitto sono in funzione tribunali militari, bastonano manifestanti in piazza Tahrir, tentano di seminare terrore e discordia. Le masse fanno davvero la storia; la mancanza di una direzione politica organizzata, che abbia un programma strutturato contro lo stato, non porterà a soluzioni immediate, ma i semi resteranno e col tempo produrranno grandi cambiamenti. E’ interesse del popolo italiano e di quelli arabi che la giusta esigenza di cambiamento che viene da questi paesi non venga strumentalizzata per altri scopi, e che siano i popoli a decidere il loro futuro in completa autonomia, senza interventi militari ed ingerenze dall’esterno. Tutti i poteri politici ed economici imperialisti che hanno interessi diretti o indiretti nell’area cercano ora di intromettersi. La diversa storia e la diversa composizione sociale dei paesi arabi, la presenza maggiore o minore di risorse petrolifere, i diversi rapporti con altri paesi, possono portare a esiti politici diversi. Riguardo alla Libia occorre guardare i fatti da un’ottica specifica: la struttura sociale è ancora legata alle tribù. Gheddafi, che viene da una tribù minore della Sirte, è visto dalla tribù più importante, che fa capo a Bengasi, come un sopraffattore che
ha armi e denaro.

In Libia il costo della vita è basso rispetto al reddito medio della popolazione, non c’è una emigrazione per povertà, le rivendicazioni dei senussiti non sono quindi per i generi di prima necessità ma per sostituirsi all’attuale potere centrale. Gli occidentali manovrano nel contrasto libico per tentare la scrollata contro il governo di Gheddafi, non sufficientemente controllabile (così come non è controllabile il governo di Assad in Siria) nel quadro della globalizzazione, e per indebolire il paese in modo da potersi gestire il suo petrolio e il suo gas. Parigi, amica degli USA, è irritata dagli eventi nel Maghreb, e riconosce il Consiglio Nazionale provvisorio di Bengasi; il discorso duro di Sarkozy contro Gheddafi ha fini elettorali, l’anno prossimo vuole prendere voti e spazio politico al partito di Le Pen; Sarkozy fa credere di poter contare sull’Europa, di voler agire in favore dell’unità europea, e con questa azione di forza, che ha iniziato per primo (ha rovesciato la posizione della Francia, che aveva votato contro la guerra in Iraq), pensa di recuperare voti dei “pied noir”con un ritorno al mito colonialista e nazionalista della grandeur francese. Londra era presente in Libia fino al 1970; oggi cerca di riprendere terreno, fin dall’inizio si è posta a fianco di Parigi; due navi militari inglesi sono presenti nel porto di Bengasi, ed emissari inglesi in Cirenaica.

I governanti italiani si cibano di chiacchiere che nessuno ascolta: cercano di mantenere una porta aperta a Gheddafi, ma alla fine si sono allineati con gli altri concedendo l’ uso delle basi e inviando aerei che però “non sparano”. Germania e Turchia non condividono le posizioni della “coalizione dei volenterosi”. L’astensione di Russia, Cina, Germania, India e Brasile al Consiglio di Sicurezza è un segnale negativo, di debolezza di fronte all’interventismo, che lascia mano libera ai guerrafondai. I fatti dimostrano che in un primo tempo c’è stata la ribellione di Bengasi, con l’appoggio occidentale; poi si è ottenuta l’acquiescenza dell’ONU a embargo, sequestro dei beni e no-fly zone, con inevitabile coinvolgimento dei civili; l’attacco aeronavale francese, inglese e americano, con bombardamenti feroci contro tutto il territorio libico, è stato fin da subito una guerra di fatto, che è andata ben oltre lo stesso mandato dell’ONU; si vuole passare a una terza fase, con la

fornitura di armi agli insorti e l’intervento di truppe terrestri. Siamo dunque di fronte non più a una guerra civile ma a una guerra imperialista. La Libia è un paese alle porte di casa nostra, con cui l'Italia ha importanti rapporti economici e politici da molto tempo e non certo solo da quando c’è l’attuale governo. Il popolo libico deve risolvere da solo i suoi conflitti, senza ingerenze e senza intervento armato dall’esterno; un Afghanistan o un Iraq alla porta di casa colpisce lo sviluppo economico e sociale non solo della Libia ma anche del nostro paese e di tutti i paesi sulle coste del Mediterraneo: dobbiamo opporci con forza a ogni intervento aperto o subdolo, dichiaratamente armato o apparentemente “umanitario”. Ci sono divisioni sul che fare all’interno della dirigenza USA e dei suoi due grandi partiti. Obama vuole un intervento in tempi brevi, per coinvolgere poi i paesi europei, che trarrebbero i maggiori vantaggi da una sconfitta di Gheddafi. Washington è più preoccupata per la situazione in Arabia Saudita ed Emirati. La rivolta in questi paesi è molto profonda e potrebbe sconvolgere tutta l’area. I popoli avanzano rivendicazioni politiche e i governanti rispondono con proposte economiche (ad esempio il Kuwait ha concesso 3.000 $ a famiglia) oppure con l’ invasione saudita (nel Bahrein). Le tv degli emirati al Jazeera e al Arabija hanno diffuso notizie false sul conflitto in Libia (10mila morti e 50 mila feriti) per giustificare l’intervento. La Lega Araba, influenzata dall’Arabia Saudita, ha chiesto di creare in Libia la no-fly zone. Il Qatar è intervenuto direttamente nei cieli libici. Arabia Saudita ed Emirati vogliono la testa di Gheddafi per dimostrarsi “democratici” e sperano di calmare la piazza.

L’attacco alla Libia serve anche per mettere in ombra il movimento delle piazze arabe, la ribellione popolare. La politica dell’ Occidente è dominata dalla paura del cambiamento, l’ultima sua parola è la repressione. Si comprende allora perché Putin ha dichiarato che la “coalizione dei volonterosi” è andata oltre le decisioni del Consiglio di Sicurezza iniziando una crociata contro la Libia, per cui anche la Russia deve riprendere ad armarsi. I bombardamenti sulla Libia spiegano perché la Repubblica Popolare Democratica di Corea e la Repubblica islamica dell’ Iran sono costrette a garantirsi una difesa militare contro un possibile attacco, per salvaguardare la propria indipendenza e sovranità; anche l’Europa (se esistesse politicamente) dovrebbe riflettere sulla necessità di rendersi indipendente dalla superpotenza USA. E’ un momento di grandi sconvolgimenti: con la fine del bipolarismo USA-URSS, l’imperialismo USA ha imposto la sua globalizzazione, e tramite i suoi strumenti economici (FMI, Banca Mondiale, WTO) e politici (ONU, G8) cerca di imporre ovunque le sue regole e di stabilire quali paesi e quali continenti si possono sviluppare e quali devono morire, quali regimi restano e quali vanno combattuti. Gran parte della produzione industriale è stata delocalizzata (per es. in Cina o India), e i poteri economici in Occidente si chiedono: perché non riprendersi quanto concesso finora, perché non abolire lo stato sociale all’ interno e ristabilire il colonialismo all’esterno? La Francia pensa solo per se stessa e non all’Europa, e ha messo o sta mettendo le mani su settori importanti dell’industria italiana ( Fiat Ferroviaria, Banca Nazionale del Lavoro, alimentari e acque minerali, alta moda e ora Bulgari, Parmalat Edison ecc, in attesa di Alitalia, e l’ENI deve vendere azioni dell’ oleodotto South Stream a Electricité de France): è una rapina; la FIAT a sua volta si è accordata col governo USA (e già aveva venduto Fiat Avio, costruttrice dei propulsori per i razzi Ariane, a un fondo d’ investimenti americano). Le svendite, delocalizzazioni e chiusure di aziende hanno disastrato il paese: bisogna fermarle; è ora impellente affrontare la “questione italiana”. Il centrosinistra è filoamericano (ricordiamo le posizioni sulla guerra in Afghanistan, Jugoslavia, Iraq e ora Libia) e gli attuali governanti non hanno saputo porre i problemi reali, non sono all’altezza di dirigere il paese (per di più Berlusconi è sotto ricatto anche per i suoi rapporti con Gheddafi e Putin, vedi rottura con Fini, problemi giudiziari, critiche della stampa internazionale) perché non hanno o non vogliono avere una visione che vada oltre problemi di corto respiro. Si tratta invece di capire come evolverà il mondo: bisogna ormai ragionare in termini di multipolarismo, che favorisca la crescita di ogni singola realtà, bisogna creare nel paese una linea economica e una struttura politica che si inseriscano attivamente all’interno delle strutture europee, lavorando nella prospettiva di un’Europa indipendente dalla superpotenza USA, con una politica estera propria e in cui ogni paese possa identificarsi. Le basi italiane non devono essere concesse per azioni di guerra, il nostro paese non deve essere coinvolto in avventure militari. Gli USA devono lasciare il Mediterraneo ai popoli che lo abitano. Dobbiamo dare aiuto concreto ai paesi ar
abi del Mediterraneo per costruire il loro sviluppo economico e le loro

infrastrutture, sulla base di rapporti paritari.