CRISI ECONOMICA E IDEOLOGIE di M. Tozzato

 

In un intervento di qualche giorno fa su questo blog La Grassa sintetizzava, ancora una volta, con grande chiarezza, la mistificazione e pericolosità della chiacchere ideologiche degli economisti sulle scelte da portare avanti di fronte alla gravità dell’attuale crisi.

 

<<La teoria dei costi comparati (Ricardo), l’antesignana di tutte le teorie del “libero” commercio internazionale (con vantaggi, presunti, per tutti!), era la teoria dei dominanti centrali dell’epoca, gli inglesi, gli unici ad avere sviluppato un’industria capitalistica, e che volevano quindi ridurre tutti gli altri paesi a zone di smercio dei loro manufatti e a semplici fornitori di materiali agricoli e minerari. In Germania prevalsero di fatto invece – superando l’opposizione dei reazionari agrari rappresentati dagli Junker – le tesi protezionistiche di List (non protezionistiche in linea di principio, ma solo nella fase dell’industrializzazione nascente), e quel paese divenne la nuova potenza industriale, superando a fine ottocento-primi novecento l’Inghilterra. Non diversamente si comportarono gli altri paesi della “seconda ondata” dell’industrializzazione.>>

<<La stessa affermazione resta valida per le successive epoche di distruzione creatrice, per quanto riguarda i rapporti tra nuovi settori di punta e quelli delle passate stagioni industriali. Ogni volta, il paese avanguardia in questi nuovi settori predica il liberismo con gli stessi intenti di sempre. E ogni volta, bisognerebbe trovare i nuovi List e mandare al diavolo i “ricardiani” di turno, ben pagati dalla potenza centrale dell’epoca.>>

<<Ad essa, nei paesi asserviti ai predominanti centrali, si oppone l’ideologia detta statalista (“keynesiana”), ma di uno statalismo falso, quello del parassitismo e inefficienza del settore pubblico, puro “succhiarisorse” con lo scopo “ufficiale” di sollevare la domanda ritenuta responsabile, ancora una volta mascherando la realtà con la menzogna ideologica, della crisi e stagnazione. >>

<<A contorno di questi ideologi maggiori stanno quelli presunti delle “classi dominate”, […] “marxisti” (in specie nella miserabile versione "luxemburghiana" sottoconsumista), che corroborano le falsità dei dominanti in merito alla politica “sociale”: in realtà, una mera dilapidazione di risorse tramite il settore “pubblico” (lo statale scambiato per “anticamera del socialismo”).>>

<<Il vero statalismo – da non identificare mai con il socialismo né con il sociale, ma visto per quello che è: un mezzo per impedire intanto la sottomissione del proprio paese a quello predominante centrale – è l’azione politica che dà potenza a questo paese e lo rende strumento di crescita del multipolarismo, cioè di affievolimento relativo della preminenza di uno dei poli sugli altri.>>

La Grassa, quindi, vuole  mettere  l’accento sulla solidarietà antitetico-polare delle due nefaste ideologie. In questo momento, poi, dopo qualche decennio di declino, paiono particolarmente baldanzosi i “neokeynesiani” che ripropongono vecchie ricette in una situazione storica completamente diversa da quella del “dopo 1945”. Lasciando perdere le balle sul New Deal mi pare utile intanto riportare una considerazione che dovrebbe risultare abbastanza pacifica nella formulazione datane da Niall Ferguson (07.02.2009):

<<I keynesiani, oggi tornati in auge, sembrano aver dimenticato che la loro ricetta per uno stimolo fiscale finanziato dal deficit ha qualche possibilità di funzionare in un’economia prevalentemente chiusa. Ma il nostro è ormai un mondo globalizzato, dove lo sperpero scoordinato dei governi nazionali rischia di alimentare la volatilità dei mercati obbligazionari e monetari, piuttosto che innescare la ripresa della crescita.>>

Tanto per fare un esempio che vada bene anche per i bambini delle elementari dovrebbe risultare evidente che alimentare la domanda in un sistema economico nazionale fortemente aperto non potrà favorire altro che i sistemi-paese maggiormente competitivi, pur nell’ambito della crisi generale, causando addirittura a volte un ancora maggiore difficoltà proprio ai settori – del paese in deficit spending “spinto” – che ancora in qualche maniera reggevano il confronto con l’estero.  

Piero Ostellino (07.02.2009) riassume così le tesi keynesiane principali riferite all’attuale crisi:

<<L’attuale recessione avrebbe origine nella crescente disparità fra redditi da lavoro e profitti da capitale che si era prodotta negli anni passati e che avrebbe avuto tre conseguenze negative:

1)l’aumento del risparmio dei ceti abbienti per effetto di una minore propensione agli investimenti produttivi dovuta a una loro decrescente redditività; 2)la caduta dei consumi dei ceti meno abbienti e il loro progressivo indebitamento a compensazione della contrazione, in termini reali, del proprio reddito; 3)l’eccesso di risparmio – rispetto agli investimenti – che, buttato sul mercato a bassi tassi d’interesse, avrebbe incoraggiato la speculazione finanziaria ad alto rischio.>>

Questa diagnosi può avere il pregio di mettere l’accento sulle determinanti relative all’economia reale che sono all’origine della presente crisi ma il problema autentico è quello delle “ricette” che vengono proposte in conseguenza di questa interpretazione. Lo stesso Ostellino aggiunge, non a torto mi sembra, alcune considerazioni che i keynesiani spesso tendono a sottovalutare:

<<E’ vero, la crisi non ha solo una causa finanziaria; ha anche cause corposamente “reali”[…]. Provo, allora, a elencarle: 1)la saturazione di certi mercati; non solo dell’auto; 2)i ritardi del sistema produttivo nel prenderne atto e a riconvertirsi dopo la fine della new economy e il cambiamento negli stili di vita dei consumatori; 3)l’espansiva politica monetaria della Fed che ha finito con  orientare la massa monetaria verso il finanziamento di un diffuso consumo “sociale” (la casa) sul quale si è innestata la speculazione finanziaria dei sub-prime.>>

Non si tratta certo di un quadro completo però, effettivamente, quanto sopra rilevato non è privo di fondamento. In questa situazione, fatto salvo la necessità di un utilizzo appropriato degli ammortizzatori sociali, diviene decisivo utilizzare le risorse disponibili “scarse” nel modo migliore e anche qui malgrado tutto devo convenire con Ostellino che invece di proporre un aumento (di fatto irrealizzabile) di tutti i salari e della spesa pubblica in deficit

<<per stimolare la domanda, a fronte di un’offerta di consumi “utili” che ancora non c’è>>

sia, di fatto, meglio

<<facilitarne la destinazione verso una vera ristrutturazione produttiva>>.

Mauro Tozzato                        07.02.2009