CRISI, SVILUPPO, TRASFORMAZIONE E TRAPASSO D’EPOCA

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Sulla crisi si continua a dire tutto e il contrario di tutto1. Da un po’ di tempo le varie Autorità emettono pareri decisamente più ottimistici; la ripresa, al massimo, dovrebbe tardare fino ai primi del 2010. Si alzano però anche voci di prudenza e possibilismo. Per fare un esempio: a contrastare di fatto, pur se non con diretto e personale indirizzo, recenti previsioni baldanzose di Bernanke (FED), si è levato il Presidente in persona, Obama, affermando che indubbiamente ci sono “barlumi di luce”, ma che non ci si deve subito illudere circa la fine dell’emergenza. Il non felicemente famoso FMI è stato decisamente meno ottimista. In ogni caso, da dove si traggano auspici favorevoli e da dove il richiamo alla prudenza, non si riesce proprio a capire. Tutto sembra affidato ad opinioni che mutano a seconda degli umori e dei tempi. Non mi sembra che si sia invertita la tendenza alla crescita della disoccupazione negli Usa (più o meno con lo stesso ritmo di prima); così pure non sono per nulla favorevoli le previsioni in merito allo stesso problema nella UE o in Giappone, ecc. La produzione industriale e il commercio sono in affanno e arretramento. Le Borse altalenano come al loro solito, pur se non sono più sugli scudi dell’attenzione morbosa loro dedicata fino a qualche tempo fa. Questo è a mio avviso del tutto normale; in questo periodo, se si vuol capire qualcosa della crisi, il centro di gravità va spostato verso il “reale” e non il “finanziario”.
In ogni caso, non sono uno specialista, un tecnico od “esperto”, non ho a disposizione Centri o Istituti di studi e statistiche con équipes di raccoglitori e selezionatori di dati, secondo modelli però costruiti per occasioni molto diverse dall’attuale contingenza. Soprattutto non sono profumatamente pagato, di solito per addomesticare le informazioni e scrivere su giornali (specialistici o generalisti) secondo l’impostazione più “opportuna”; questa non deve nemmeno essere stabilita d’autorità poiché i sistemi “democratici” hanno una serie di pesi e contrappesi che, nel loro complesso, formano – conformisticamente – l’opinione pubblica, coincidente nell’insieme, pur mediante le “salutari” contrapposizioni interne all’impostazione comunemente seguita, con quella dei suddetti esperti e tecnici, con gli specialisti insomma. Una ben “fortunata coincidenza” invero!
Tutto sommato, resto pessimista per il futuro – soprattutto constatando una bella confusione nei ranghi di chi si dedica al mestiere dell’indovino – ma non ho alcun motivo specifico, nessuna divinazione particolare, che mi spinga a professare il catastrofismo come vedo fare ad altri conformisti, speranzosi nel disastro per poter inzuppare il pane in qualche “rivolta popolare” che, se pure avvenisse nelle attuali condizioni di totale mancanza di una qualsiasi visione critica radicale minimamente lungimirante e consapevole, condurrebbe ad avventure molto drastiche e assai antipopolari pur se populistiche nella forma. Come ha dimostrato per l’ennesima volta il recente terremoto abruzzese, ad ogni reale evento disastroso si presentano puntualmente sul posto gli “sciacalli”; nulla di diverso accade in ambito politico, dove una serie di mestatori e “pescatori nel torbido” avanzano le loro pretese e ambizioni da…..sciacalli appunto.
Non ho naturali tendenze di questo genere perverso e non ho a disposizione studi e dati per mettermi a predire il futuro: nero, nerissimo, invece che roseo o grigio-roseo. Preferisco ragionare su alcuni punti di carattere più generale e d’insieme.
Premetto, a tutto il discorso che svolgerò, la confessione di non approvare per nulla il sistema sociale in cui ci troviamo a vivere. Prendo solo atto che è quello denominato capitalismo; già questa denominazione potrebbe essere semplicistica, poiché sembrano quanto meno esserci più capitalismi: nel tempo e nello spazio. Finora questo tipo di società ha resistito a vari assalti, anzi si è dimostrato vincente su ogni altro precedente; e pure su quello che pretendeva di rappresentare il futuro. Mi attengo al “fatto” semplice semplice, non accettato solo da chi crede alle fiabe. Sarò costretto a
1 Questo primo paragrafo dello scritto risale a circa tre settimane fa. Non lo aggiorno dato che quanto riportato non inficia la validità delle argomentazioni svolte. E’ poi interessante notare come gli orientamenti degli stessi personaggi e Autorità siano magari mutati in un così breve volgere di tempo.
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ripetere soprattutto cose già dette; d’altra parte, è d’obbligo il farlo poiché i sordi continuano ad essere prevalenti nei vari media.
Il capitalismo(i) si è formato nel corso di alcuni secoli, ma è certamente dopo la rivoluzione industriale che si è affermato definitivamente. A partire all’incirca dagli anni ’20 del XIX secolo ha cominciato a conoscere le sue specifiche crisi periodiche, così differenti (direi opposte) da quelle di ogni epoca precedente, legate all’agricoltura e quindi alle gravi avversità da cui questa era colpita. Ogni crisi rappresenta per certi versi un unicum, ma ha pure caratteristiche assai simili alle altre. Credo si possa affermare che la finanza è sempre in primo piano, non però come causa “profonda” della crisi bensì quale sua iniziale manifestazione particolarmente eclatante, in grado di provocare comunque effetti pesantemente risentiti dalla grande maggioranza della popolazione da essa investita. Come esemplificato altre volte, tale aspetto della crisi va assimilato ai terremoti (di superficie), i cui risultati sono disastrosi per i soggetti implicati; tali terremoti trovano però la loro origine in scontri e frizioni tra falde o placche di terreno roccioso situate a varie profondità, reale “motore” del catastrofico fenomeno superficiale.
Non entro nella discussione se i terremoti sono o, meglio, saranno resi prevedibili. Pur se lo fossero, lo sarebbero come gli eventi meteorologici, con larghi margini di aleatorietà; e sempre più larghi quanto più lungo è il periodo di previsione. Soprattutto, è difficile anticipare la gravità del fenomeno; e ciò vale in particolare per la crisi detta economica. Nel capitalismo, quest’ultima è strettamente legata al carattere mercantile generale della produzione, che trova quindi sempre il suo correlato nella valutazione in denaro; al commercio di merci non può non aggiungersi quello monetario, che avviene con riguardo ad ogni cosa possa essere espressa in un titolo con il suo valore nominale espresso in moneta (compresi i titoli riguardanti direttamente le merci-prodotto). A questi ultimi titoli si aggiungono quelli che rappresentano la proprietà delle unità produttive di merci (imprese), quelli che riguardano i crediti concessi ad esse (o, se preferite l’inverso, i titoli di debito delle imprese produttrici), poi i titoli che riguardano le quote di proprietà delle imprese dedite al credito (banche) e poi quelli dei crediti intercorrenti fra queste. Infine, ci sono i titoli dei crediti che i “cittadini” fanno alle varie imprese (di ogni settore) o allo Stato; infine tutti quelli relativi alle imprese (titoli di proprietà, ecc. ecc.) che assicurano da rischi vari sia il commercio delle merci sia quello dei titoli espressi in moneta. Insomma, non è mai finita; ogni mossa del “capitale” (non come rapporto sociale) dà origine ad un incremento della sua parte espressa in moneta e, dunque, ad un ampliamento della sfera finanziaria .
In tutto questo “ambaradan”, pensare di uscirne agganciando strettamente il valore monetario a quello detto reale (dei prodotti ormai tutti in forma di merce) è semplicemente infantile. E’ affatto normale che le operazioni finanziarie si autonomizzino da quelle reali, diventino un settore dov’è particolarmente facile e veloce il “cambio di mano”, dove la “legge della domanda e dell’offerta” fa i suoi giochi in tempi da giudicare istantanei rispetto a quelli della produzione; quindi le variazioni di prezzo sono rapidissime e rapidissimi diventano gli arricchimenti o le perdite di questo o di quello. Quando poi si passa alla concentrazione di ricchezza nelle fasi dette monopolistiche, non credo ci sia bisogno di spendere molte parole o immaginazione per capire quello che accade. Questo è il sistema che ha vinto su tutti gli altri precedenti (annientandoli con estrema durezza e violenza); questo il sistema che non è stato rovesciato in quasi un secolo di “costruzioni socialistiche”. Questo il sistema che è “a misura d’uomo”, visto che, malgrado le grandi chiacchiere e fantasie in contrario, da sempre gli uomini tendono ad arricchirsi o in denaro o in potere.
I “romantici” possono anche credere che una società di “uomini di potere” sia più nobile di quella dei “mercanti” (in realtà, i capitalisti non sono reali mercanti!). Tuttavia, primo, non esisteva minor ferocia nelle società antecedenti il capitalismo. Forse i “guerrieri” rispettavano certe regole dette “dell’onore”, ma si scannavano allegramente per il potere; del resto, perfino nel capitalismo, fin dentro la prima guerra mondiale, ancora vigevano certe regole di questo “onore” (nel massacrarsi); consiglio ancora una volta la visione del capolavoro di Renoir, La grande illusione (mia grande passione, invero). In secondo luogo, denaro e potere, nel capitalismo, sono ormai strettamente intrec-
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ciati e formano una miscela vincente. Nemmeno si creda agli economicisti, sempre convinti che il potere emani dal denaro; no, l’intreccio è ben altrimenti più complicato e le strategie di vittoria, che hanno bisogno di denaro ma prevalgono sulla sua mera quantità posseduta, sono in realtà quelle preminenti anche nel capitalismo. I capitalisti (o, più precisamente, gli agenti del capitale, che agiscono in varie sfere sociali: produttivo-finanziaria, politico-militare, ideologico-culturale, in stretto legame fra loro) sono “guerrieri” un po’ particolari, più sottotono e meno tronfi e “spaccamontagne” di quelli di un tempo, ma non vanno considerati “mercanti”; chi commette questo errore è già fuori gioco, non ha capito pressoché nulla della società moderna (per questo sogna il ritorno a “virtù pregresse”).
Così come non capisce l’irreversibile realtà colui che invita gli uomini a rinunciare a ricchezze e potere per amarsi gli uni con gli altri. Che si possano creare marginali porzioni di umanità di questo tipo – in particolare quando la “guerra” (non solo l’evento specificamente bellico) ha creato drammi, disagi, ampie sacche di povertà, ecc. – non vi è dubbio. Queste parti di umanità, consapevoli o meno ne siano, rappresentano la debita copertura dei vincenti dopo scontri particolarmente cruenti – come sono quelli nella società mondiale attuale; scontri prevalentemente militari e politici o invece soprattutto economici e ideologici (mai solo una cosa o l’altra) – che mettono in forse il predominio di determinati gruppi di dominanti in un dato periodo storico. Passata la buriana – che passa sempre, in tempi più o meno lunghi – restano i “poveri e buoni” (i “S. Francesco”) come residua testimonianza, pronti per il prossimo utilizzo di copertura nel mentre le varie conflittualità si riaccendono in tutto il loro “splendore”.
3. Tornando alle crisi economiche, che iniziano nel capitalismo dal lato monetario cioè finanziario, quando esse mordono in profondità si diffonde l’ideologia della cattiva gestione degli affari, dell’incapacità dei capitalisti (o dei manager da questi apparentemente stipendiati, mentre sono loro sodali a pieno titolo), dell’affievolirsi della morale (meglio usare il termine etica, fa più effetto). Il marxismo, ivi compreso il suo fondatore, commise un altro errore. Arrivati alla società per azioni – che vede il forte incremento di ogni possibile attività finanziaria con tutti gli imbrogli denunciati già da Marx in merito non soltanto al commercio dei titoli azionari di proprietà, ma ad ogni attività condotta per fondare queste società, e poi fonderle insieme e poi scioglierle e magari farle fallire “rubando” i soldi ai sottoscrittori (di azioni e di obbligazioni), ecc. – si pensò alla maturità e poi vecchiaia del capitalismo, alla graduale fine della sua spinta propulsiva, che più tardi Schumpeter assegnò alle capacità innovative dell’imprenditore.
Marx non pensò questa particolarità del capitalismo (imprenditoriale), perché interessato a cogliere la forma specifica dello sfruttamento capitalistico che è pur sempre, come in altre società precedenti, estrazione di pluslavoro dallo sforzo lavorativo dei subordinati (dominati); ecco perché il marxismo ha sempre privilegiato la fabbrica (l’opificio dove si svolgono i processi realmente produttivi), precludendosi così la possibilità di comprendere le specifiche strategie degli agenti capitalistici (non sempre proprietari in senso stretto). In ogni caso, Marx ebbe ammirazione per i primi capitalisti che “contribuiscono a creare ciò che poi prelevano sotto forma di plusvalore” (Glosse a Wagner)
I capitalisti successivi, visti come maneggioni finanziari e autentici imbroglioni, furono considerati il prototipo del proprietario assenteista ormai alla fine della sua parabola, solo difeso dallo Stato (insieme di apparati con i suoi corpi di aggressione, repressione e coercizione) manovrato da un Governo in quanto “comitato d’affari della borghesia”; ormai pensata quale mera borghesia di mercanti di denaro (e titoli equiparati). Questa “malattia”, finanziaria, sarebbe stata il sintomo della vecchiaia e quindi della morte che si appressava. Siamo in presenza del solito errore marxista, ma non solo marxista, di considerare stadio ciò che è ricorsività, che è fase o ciclo tornante sia pure sotto vesti nuove. Le ricorsività dette crisi sono di varia intensità. In ogni caso, sono malattie gravi ma passeggere, sono più o meno grandi “spurghi” o “salassi” che “ripuliscono il sangue”. Le crisi
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più intense, effettive fasi di probabile trapasso da una forma capitalistica ad un’altra, non sono semplicemente economiche, bensì politiche e militari (e, ovviamente, anche culturali).
Per capire veramente le crisi, sarebbe necessario non tener conto esclusivamente di quelle che colpiscono il capitalismo considerato in generale; importante diventa invece l’individuazione delle diverse formazioni particolari in cui si articola quella mondiale. Nell’evoluzione, con trasformazione, di quest’ultima, sono presenti ulteriori e diverse ricorsività che ho denominato epoche o fasi di mono e policentrismo. I “terremoti” di maggior entità – prima finanziari e poi anche reali o produttivi – sono in genere sintomi del progressivo avvicinamento ad una fase policentrica, come sta accadendo nel presente in cui siamo già, a mio avviso, nel multipolarismo, essendo fallito il disegno degli Usa di comandare il mondo intero (creazione di un Impero). Inutile predire qualche “big one” del tipo delle novecentesche guerre mondiali; ci si farebbe cattiva figura.
L’importante è afferrare a grandi linee quali sono le tendenze in atto e non invece immaginare ossessivamente la morte di un organismo a causa della sua crisi definitiva. Al massimo, si è finora assistito storicamente a “crisi di crescenza”, spesso sotto forma di eventi politico-militari di prima grandezza – il conflitto policentrico per la supremazia – che fanno passare ad un successivo monocentrismo, quindi ad una nuova forma di capitalismo (una nuova formazione capitalistica) caratterizzante la maggior parte, o comunque quella più rilevante e sviluppata, del globo.
Per i motivi già succintamente segnalati parlando della mercificazione – e dunque monetarizzazione – di ogni attività economica capitalistica, non si può trattare la finanza come sempre e soltanto parassitaria, come una serie di semplici imbrogli per arricchirsi “indebitamente” a spese di chi produce realmente. Non si possono inoltre valutare nello stesso modo gli apparati finanziari di ogni formazione particolare che è parte di quella mondiale. Nemmeno esiste uno stadio finanziario (l’ultimo o supremo) del capitale – con i rapporti sociali che esso sottintende: tra capitalisti ormai irrimediabilmente rentier e “quasi-signori”, da una parte, e lavoratori intellettuali e manuali, direttivi ed esecutivi, riuniti in un collaborante corpo produttivo collettivo, dall’altra – come pensava Marx e il marxismo (si vedano in particolare Hilferding e Lenin). La finanza non ha però soltanto lo scopo di oliare il transito dal vecchio al nuovo durante la fase di distruzione creatrice, togliendo credito alle imprese della vecchia ondata dell’industrializzazione e concedendolo agli imprenditori innovatori, come teorizzava Schumpeter.
La finanza è un “male necessario” del sistema capitalistico. Senza di essa non si ha sviluppo né innovazione e creatività. Tuttavia, essa non è esclusivamente funzionale allo sviluppo ma più spesso ancora alla politica che, con termine generale e onnicomprensivo (e intuitivo), definisco di potenza, di scontro per la supremazia. A causa della specifica conformazione e strutturazione (rete mercantile) della sfera economica del capitalismo, la cui parte finanziaria è affidata a speciali gruppi di agenti dominanti, è ovvio che questi ultimi svolgano i loro specifici giochi nello scontro in questione. Essi perseguono il fine generale di ogni settore capitalistico – arricchimento e aumento di potenza, la cui forma sociale moderna ha sue proprie peculiarità, ma risponde ad un principio assai più generale, che ha guidato la condotta degli individui o gruppi di individui in tutta la storia delle diverse formazioni sociali – e, perseguendolo, rompono in determinati periodi ogni rapporto di cosiddetta proporzionalità tra i vari settori economici con il prodursi della crisi, la cui manifestazione di “superficie”, e più evidente, è l’anarchia e l’incapacità di controllo della stessa.
Solo lo scontro tra le “faglie” però – quindi la considerazione dell’articolazione e del conflitto politico tra più formazioni particolari divenute, o in via di divenire, potenze durante le fasi di multipolarismo e poi policentrismo – provoca quei terremoti anticipatori del confronto più duro ed esplicito che implica un “regolamento di conti generale” per la supremazia. Per questo motivo, detto per inciso, non credo che l’attuale crisi, per quanto grave potrà essere, rappresenti il vero clou di un effettivo mutamento di fase o d’epoca storica. Il neoliberismo è stata la manifestazione di superficie, e anche la “batteria ideologica”, del massimo tentativo – già iniziato prima del crollo del “socialismo reale”, ma oggi chiaramente impantanatosi – compiuto dagli Usa a cavallo dei due secoli per impadronirsi del sostanziale controllo dell’intero globo.
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La finanza americana è stata spinta al massimo in questo sforzo “imperiale”; e i suoi agenti si sono comportati di conseguenza, approfittando della loro funzione per avvantaggiarsi, facendo così concrescere su se stesso in modo abnorme il settore. Il fenomeno critico è di conseguenza apparso più evidente e macroscopico in quel paese. Tale fatto, mi dispiace per gli speranzosi, non significa ipso facto che quest’ultimo sia più malato degli altri. Non ci si scordi che gli Usa hanno acquisito nei molti decenni precedenti una potenza ben maggiore degli altri paesi; e la fanno e faranno valere nel presente e futuro confronto. Tuttavia, “le danze sono aperte”. Vedremo più avanti il significato del becero statalismo che sembra rifiorire oggi e che non significa affatto la sconfitta del neoliberismo e tanto meno degli Usa.
4. Non sussiste, dunque, nessuna finanza ormai parassitaria per sempre; e nemmeno alcuna finanza soltanto oliatrice dei meccanismi del sistema in sviluppo. Tutto dipende dalle fasi di un simile sviluppo e dalla configurazione assunta, in ogni data fase, dall’articolazione delle varie formazioni particolari in ambito mondiale. E sempre tenendo conto del complesso degli agenti strategici, funzionari del capitale, che si muovono in un contesto complessivo (e complicato), di cui l’aspetto economico, e tanto più quello finanziario, è proprio il più superficiale, anche se è quello che colpisce di più, realmente e nell’immaginario. E’ dunque necessario spendere ora due parole sullo sviluppo. Non ho però alcuna intenzione di disquisire sul contenuto specifico del termine, ma solo esprimere un’opinione sulle sue caratteristiche e su quali fenomeni può determinare.
E’ ben noto che crescita e sviluppo denotano processi diversi; solo il secondo si verifica realmente nel capitalismo, essendo un aumento quantitativo delle merci prodotte accompagnato però da effettive trasformazioni del sistema produttivo, con riflessi profondi sulla “strutturazione” dei rapporti tra gruppi e raggruppamenti sociali. Gli aumenti quantitativi, e ancor più le trasformazioni sistemiche, sono spesso preceduti dalle crisi: non semplicemente economiche, bensì soprattutto sociali e, in specie, relative all’articolazione delle formazioni particolari nell’insieme della formazione mondiale.
Per ciò che riguarda l’aspetto spaziale, due sono state le principali tesi a confronto: quella dei processi cumulativi (ad esempio il myrdaliano “circolo vizioso della povertà”) e quella dei “poli di crescita” (Perroux). La prima tesi parte dall’interrelazione tra due aree con piccoli scarti tra loro quanto a livello di sviluppo: si sostiene che non si verifica una sorta di travaso equilibratore come nei vasi comunicanti, bensì un’accentuazione progressiva del dislivello con trasferimento di risorse e di reddito dall’area meno a quella più sviluppata. Così è stato interpretato il crescente divario nord-sud dopo l’Unità d’Italia. La seconda tesi sostiene che l’innesco dello sviluppo in una porzione d’area (socio-geografica), relativamente omogenea, traina infine le regioni circostanti. Entrambe le tesi possono essere sostenute in riferimento a casi particolari, che dimostrano, o sembrano dimostrare, la bontà ora dell’una ora dell’altra. Ciò che nuoce alle due tesi è il loro sostanziale economicismo, il riferimento ai meccanismi dello sviluppo considerati dal semplice punto di vista del mutamento (in genere quantitativo) delle variabili economiche.
Si possono anche aggiungere, generalmente però solo nel senso della mera giustapposizione, considerazioni non economiche (sociali, politiche, culturali, ecc.), ma resta sempre problematica la spiegazione dei processi. L’unità d’Italia non è stata la riunione di due aree con piccole differenze di sviluppo, che si sono poi accentuate grazie alla pretesa spoliazione del sud da parte del nord (per soli fattori economici da “circolo vizioso” o per decisione politica da parte del Regno sabaudo che si annetteva il resto d’Italia). Già a partire dagli anni ’40 del XIX secolo, Piemonte e Lombardia erano maggiormente legate, dal punto di vista economico, alle regioni europee poste al centro-nord, caratterizzate da un più alto livello e ritmo di sviluppo ed esercitanti dunque una funzione trainante. Assai poco convincente la storiella del Regno borbonico a discreto livello di modernizzazione, con la prima ferrovia italiana da Napoli a Portici, autentica opera di regime e non certo reale infrastruttura di un sistema economico maggiormente integrato, così com’era invece per la rete viaria e di trasporti nel nord-ovest italiano.
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D’altra parte, dopo la seconda guerra mondiale, la pretesa di creare al sud alcuni rilevanti “poli di sviluppo” tramite la costituita Cassa del Mezzogiorno (ben noto carrozzone elettorale, fonte di corruttele politiche e probabile alimento per la criminalità) non ha prodotto alcun effetto di trascinamento, dando invece vita a quelle che furono pittorescamente definite “cattedrali nel deserto”. L’ideologia della “questione meridionale” – non solo per come fu trattata dal Pci, ma anche dalla Dc – ha dato la stura alle interpretazioni di un aiuto al sud che funzionava solo a beneficio dell’industria settentrionale. Ora, è ovvio che l’industria pesante, quella metalmeccanica, ecc. necessarie all’installazione di un polo di sviluppo, erano situate al nord. Ogni idea di traino nel processo di sviluppo non può realisticamente prescindere da questo dato di fatto.
In realtà, sia la tesi del “circolo vizioso della povertà” che quella dei “poli di crescita o sviluppo” non sono una convincente ed esauriente rappresentazione dei processi innescati giacché si riferiscono quasi esclusivamente all’aspetto economico della questione. D’altra parte, spostare drasticamente e con eguale unilateralità il problema verso il lato delle decisioni politiche o di una trasformazione culturale, ecc. rischia di condurre ad un altrettanto esiziale semplicismo. Sarà necessario continuare e accentuare in futuro l’analisi dei vari aspetti della crisi-sviluppo-trasformazione sociale con maggior attenzione all’intreccio (che è temporale come spaziale) tra le diverse sfere d’attività in cui si muovono i vari agenti delle formazioni capitalistiche; dando sempre la priorità logica all’“oggettività strutturale” di queste ultime, che orienta i portatori soggettivi, la cui azione in condizioni date (sempre indagate a mezzo di ipotesi) non va comunque mai trascurata. I giocatori giocano le partite immettendovi le loro competenze e capacità particolari (individuali); alla fin fine, essi giocano un dato gioco caratterizzato da andamenti probabilistici eppur cogenti entro un determinato alveo di scorrimento, che si rende noto soltanto ex post: noto, non però immediatamente conosciuto – se si afferra la differenza – poiché anche la conoscenza del già trascorso richiede in ogni caso la formulazione di ipotesi di interpretazione storica, che mutano d’epoca in epoca e mai devono irrigidirsi in dogmi intoccabili ponendosi così “fuori gioco”.
5. Tirando le somme, è necessario demistificare una serie di incrostazioni ideologiche che si sono depositate in oltre un secolo (quasi due) sull’interpretazione della formazione capitalistica. Innanzitutto, proprio sulla concezione della crisi, trattata da preludio della fine di detta formazione (tesi dei marxisti, ostinati a tal proposito) o come arresto dello sviluppo causato dalla scarsa capacità e/o moralità degli agenti economici, tesi sostenuta in genere dai filo-capitalisti (sia neoliberisti che keynesiani, i cui punti di vista sono in apparente contrasto, ma in effettivo reciproco sostegno antitetico-polare); per i quali, dunque, ogni crisi rappresenterebbe l’occasione di una rigenerazione (sia di efficienza che etica) del capitalismo, affidata a nuove “libere” scelte degli agenti.
Se ci si attiene al puro lato economico, la meno peggiore concezione della crisi sembra quella che rinvia alla schumpeteriana distruzione creatrice, dizione appropriata così come invece non sarebbe se venisse rovesciata in “creazione distruttrice”. La spinta allo sviluppo, tipica della competizione intercapitalistica, che mai cessa nemmeno nella cosiddetta forma di mercato monopolistica, conduce gli agenti in una situazione vissuta quale discrepanza crescente tra potenziale produzione (relativamente sovrabbondante) ed effettivo consumo o, meglio, potere d’acquisto (relativamente scarso). Questa è l’apparenza (reale) che si produce per la sconnessione del sistema (la cosiddetta anarchia) provocata dalla sempre rinascente lotta tra gruppi, nel cui ambito prende il davanti della scena (e occupa la “superficie” dei fenomeni) quanto avviene nella sfera economica e, in modo del tutto particolare, in quella finanziaria dove tutto si verifica con maggiore velocità a causa, fra l’altro, della “liquidità” del mezzo di transazione.
Anche il conflitto – le cui motivazioni profonde, ma spesso occulte o distorte, si trovano in altre sfere sociali – viene in più netta evidenza e allo scoperto in quella economica. In particolare, dopo la seconda rivoluzione industriale (svoltasi negli ultimi decenni dell’ottocento e primi novecento, nel cui ambito si colloca il periodo della grande stagnazione: 1873-96), durante la quale si realizzò lo stretto intreccio tra scienza e produzione, la lotta condusse all’emergere di interamente nuovi set-
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tori produttivi e di nuove tecnologie, dove il primo fenomeno fu però il più rilevante nel provocare, già nel corso della depressione, un ampliamento del fronte produttivo, con mutamenti interni radicali nei rapporti intersettoriali (e sociali). Le sole innovazioni tecnologiche – quelle strettamente di processo, in pratica le uniche realmente rilevanti nel marxismo poiché servono ad accrescere lo “sfruttamento” tramite aumento del plusvalore relativo – rischierebbero di condurre ad una mera crescita quantitativa, ma con difficoltà in accentuazione per il sempre incipiente aumento della disoccupazione di forza lavoro (da qui derivano le più superficiali interpretazioni marxiste della crisi in quanto causata dal sottoconsumo delle masse lavoratrici).
L’apertura di nuovi orizzonti produttivi, connessa a nuove scoperte scientifiche – per cui il termine (“dispregiativo”) di tecno-scienza è in genere inesatto poiché non si tratta di semplici innovazioni tecnologiche – rilancia infine il sistema complessivo: nel senso del vero sviluppo implicante la trasformazione strutturale per quanto concerne sia il peso relativo dei settori già esistenti sia l’apertura dei nuovi dotati di più alto impulso. Quando la vecchia fase di sviluppo è spinta al suo massimo, non sussistono le migliori condizioni per rilevanti innovazioni; è l’ingrippamento dell’intera vecchia struttura, con tutti i fenomeni tipici vissuti durante le successive crisi, a liberare le potenziali energie che vengono convogliate verso trasformazioni innovative. Gli stessi crolli finanziari sono l’aspetto di superficie, certo di rilevante impatto e drammaticità, delle possibilità (non necessità) che si aprono in direzione di cambiamenti strutturali, capaci allora di reinnescare un effettivo sviluppo e non la semplice crescita.
I singoli individui, e la maggior parte delle popolazioni, vivono senza dubbio la crisi come disagio o dramma di più o meno ampie proporzioni. Gli stessi esperti e tecnici, con la loro visione teorica limitata e sempre alla ricerca di improvvisati interventi d’urgenza, esperiscono la crisi come pura negatività. Essi escogitano manovre per ammortizzarne gli effetti deleteri e risolverla in nuova spinta, che resta però, quand’anche si riesca a ottenerla, labile e temporanea crescita fino a quando non si producano, non per merito loro (anzi malgrado la loro miopia), le trasformazioni che preludono all’autentico sviluppo. Un periodo di prevalente distruzione è indispensabile, stante la struttura della formazione capitalistica, affinché reinizi lo sviluppo vero e proprio, che il “soggettivista” (com’era ad esempio uno Schumpeter) non può non assegnare alla mera azione di dati “individui” (nel caso specifico, gli imprenditori innovatori, che possono ben essere ristretti vertici dirigenti d’impresa).
Si chiarisce allora un altro punto. La tesi myrdaliana del “circolo vizioso”, per quanto applicabile a particolari contingenze, è in realtà estremamente debole e limitata, in quanto si basa su un gioco sostanzialmente a somma zero; un’area si sviluppa a detrimento di un’altra con cui entra in relazione e a cui sottrae risorse. Non si verifica affatto, in tal caso, effettivo sviluppo bensì più che altro crescita di una regione a spese della decrescita di un’altra. E’ stato piacevole per gli pseudomarxisti della “scuola della dipendenza” applicare tale teoria ai rapporti (detti impropriamente imperialistici, mentre non lo erano invece nemmeno nel senso inteso da Lenin) tra paesi sviluppati e sottosviluppati. Sembrano passati mille anni da quel cumulo di autentiche sbavature ideologiche, messe in mora dallo sviluppo di intere regioni del fu terzo mondo, fra cui i più popolosi paesi (Cina e India).
Lo sviluppo – implicante crisi e trasformazione strutturale dei rapporti sociali – è un fenomeno non solo economico né indotto semplicemente da decisioni politiche. Se comunque, rendendo pericolosamente parziale il proprio angolo di visuale, si osserva esclusivamente il sistema economico, il processo più realistico (meno irrealistico) è quello indicato da Perroux: una regione rompe l’equilibrio (di stagnazione) e inizia il suo sviluppo/trasformazione, che progressivamente si estende alle zone circostanti. Il limite di tale visione è nel suo sostanziale economicismo e nella considerazione quasi soltanto del processo di sviluppo – ancora una volta, si tratta prevalentemente di crescita – che, una volta innescato, proseguirebbe virtuosamente la sua corsa e il traino delle aree circostanti. Nel capitalismo, pur giustamente considerato nella sua spazialità e non nella mera temporalità, lo sviluppo è strettamente connesso al conflitto che distrugge e trasforma; dunque la crisi – che è distruzione e trasformazione, pur quando tali fenomeni siano rilevati quasi esclusivamente nella sfera
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economica (finanziaria e produttiva, monetaria e reale) – nasce dal conflitto ed è immanente al sistema; essa è il “negativo” che lavora, muta, rilancia il “positivo”.
Negativo e positivo sono termini impiegati senza alcuna attribuzione di valore. Non esiste sviluppo capitalistico che possa essere mera e graduale crescita; deve sempre esservi un periodo più o meno lungo di trasformazione dei vecchi assetti ormai irrigiditi. Nessuna trasformazione si compie tramite continua e graduale progressione di modeste innovazioni (in genere allora sempre di processo1), bensì mediante il balzo in avanzi della scienza con ricadute decisive nella creazione di intere branche produttive. Innovazioni di grande portata “rivoluzionaria” e nascita di nuove branche produttive significano, nel capitalismo (in quanto produttore di merci), ampliamento e infittimento del reticolo mercantile con esigenze di maggiori risorse finanziarie (proprio in mezzi monetari di tutti i generi). Essendo tale sfera dell’economia capitalistica dotata di una sua precisa ed ampia autonomia – ed essendo i suoi agenti interessati alla competizione e al guadagno con i soliti metodi in auge in ogni altro settore capitalistico – quando il rivoluzionamento e trasformazione, tramite innovazioni di grande impatto, divengono impetuosi, si verifica necessariamente la crescita abnorme della sfera in oggetto.
La crisi, che accompagna la trasformazione, inizia perciò sempre dalla finanza; quest’ultima non può di per suo, per sua “naturale” funzione, semplicemente lubrificare i meccanismi inerenti al processo di transizione dalla prevalenza dei vecchi settori a quella dei settori innovativi. Lo sconvolgimento è invece il “normale” esito dell’ “oggettivo” processo che porta gli agenti capitalistici dalla vecchia alla nuova situazione “strutturale”. Tale sconvolgimento inizia con la rottura degli “equilibri” (apparenti) tra finanza e produzione, con l’incepparsi dei circuiti di denaro-merce, merce-denaro….. ecc. Si ha accentuazione del disordine anarchico dei vari mercati, si decide di intervenire con palliativi, con decisioni-tampone, che danno sollievo ma non risolvono. Inizia la depressione, con rialzi e abbassamenti che fanno, nel migliore dei casi, galleggiare il sistema nel mentre esso va trasformandosi in profondità.
Tale fase provoca evidentemente gravi disagi e intenso malessere nella vita delle popolazioni. D’altra parte, la crisi non prelude ad alcuna necessaria rivoluzione anticapitalistica, non è sintomo dell’impossibilità di ulteriore sviluppo del sistema in questione; anzi è proprio il prodromo e, in definitiva, la causa di un nuovo sviluppo, che esige la preliminare opera distruttiva al fine di trasformare il precedente sistema. Questo è quanto appare alla prima e più superficiale visione del processo di crisi/distruzione/trasformazione/sviluppo. Manca un elemento fondamentale. Manca la considerazione dello spazio in cui i processi si svolgono, pur distendendosi lungo una necessaria linea di scorrimento temporale con le sue varie fasi. Ogni fase temporale è anche una disposizione particolare, un’articolazione e configurazione specifica (di fase appunto), dei rapporti spaziali tra le “strutture” (formazioni) capitalistiche, tra le loro sfere e i loro settori.
6. Una delle grandi menzogne ideologiche del XX secolo non è stata, come sostengono ottusi reazionari, il comunismo (che non fu mai del resto tale). Pur esso è stato indubbiamente una chimera ideologica, necessaria tuttavia a mettere in moto un processo che, tramite percorsi tortuosi e inimmaginabili, sta dimostrando solo ora – con la crescita a potenze di Russia e Cina – la sua vitalità, sopravvissuta all’esaurimento di quell’impalcatura politica e ideologica che per molti decenni aveva invischiato le sue energie, impalcatura sfasciatasi nel 1989-91 (il cosiddetto crollo del socialismo reale e la dissoluzione dell’Urss, la “patria del socialismo”). Finita, indubbiamente ingloriosamente, la spinta rivoluzionaria, invece grandiosa, iniziata nel 1917 e con alcuni altri eccezionali e-
1 Questa fu la concezione di certi “keynesiani” che nel dopoguerra predissero l’ormai lunga e definitiva stagnazione del capitalismo: essi pensarono ad una progressiva serie di piccole innovazioni, comportanti cospicui aumenti della produttività e capacità produttiva del sistema a fronte di insufficienti aumenti delle potenzialità di acquisto (consumo). L’aerospaziale, l’elettronica, gli sconvolgimenti nei settori dell’informazione, telecomunicazioni, ecc. hanno rappresentato, detto non proprio con grande precisione, la rivincita di Schumpeter. In realtà, il fenomeno è stato diverso, come vedremo più sotto.
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xploit nel secondo dopoguerra (il maggiore in Cina), si è precisato in questi ultimi anni il reale significato della trasformazione avvenuta, che condurrà probabilmente, dopo un’ulteriore fase di policentrismo, ad una nuova configurazione della formazione sociale “capitalistica” (per il momento, continuiamo a definirla così poiché ancora basata sulle forme generali economiche del mercato e dell’impresa)1.
Quella che è invece realmente fallita, pur se ancora oggi un invecchiato e imbolsito ceto intellettuale occidentale nemmeno se ne accorge, è la socialdemocrazia che credé di aver imboccato la strada giusta abbandonando (a Bad Godesberg nel 1959) il marxismo e abbracciando lo statalismo di tipologia “keynesiana”. Si deve proprio definire così? Non lo so, ma nutro molti dubbi in proposito. In ogni caso, si trattò dell’ideologia dello “Stato sociale”. La supposta base scientifica, in realtà sfacciatamente ideologica, fu la “fiaba” raccontata per decenni circa il New Deal roosveltiano in quanto politica economica, ante litteram keynesiana, che risolse tramite spesa pubblica (statale) la crisi del 1929-33. Nessuno nega che il 1933 possa essere considerato il termine della fase più nera della crisi, ma quest’ultima non fu affatto superata giacché si verificarono continue oscillazioni (di tipo stagnazionista) fino alla seconda guerra mondiale. Solo nel 1945 il Pil statunitense raggiunse e superò i livelli pre-crisi.
Altra “edificante istoria” fu quella del mondo capitalistico “occidentale” (quello definito dai Patti di Yalta, in quanto spartizione del mondo tra i due soli reali vincitori: Usa e Urss) in pieno sviluppo post-bellico a causa del Piano Marshall e delle necessità di ricostruzione nei paesi del cosiddetto “capitalismo renano” (appunto basato sul Welfare). Nessuno si pose il problema che gli Usa erano ormai il paese preminente dell’occidente, oltre che fonte dell’ideologia keynesiana dominatrice nell’insegnamento dell’economia in tutte le Università del mondo “occidentale”; tale paese tuttavia non attuò lo “Stato sociale” (lo “Stato del benessere”), pur essendo sempre al primo posto come rilevanza della spesa statale (anche durante l’epoca della rivincita ideologica del neoliberismo con Reagan). Il punto focale della questione, assai semplice, fu che gli Usa assicurarono, nel campo di loro competenza (inclusivo di tutto il capitalismo più avanzato), una sorta di configurazione “ultraimperialistica” (nella terminologia di Kautsky), un coordinamento d’insieme reso possibile dall’assetto monocentrico del campo in questione. La sempre massiccia spesa statale statunitense non era di Welfare poiché perseguiva lo scopo assai più rilevante di assicurare stabilmente tale assetto “ordinato” (mediante una politica di potenza e asservimento dei paesi del proprio campo).
1 Ho leggicchiato le polemiche sorte in merito al recente libro di Losurdo per i giudizi espressi su Stalin. Personalmente, mi pongo in tutt’altro orizzonte (pur se meno lontano, fra tutti, proprio da Losurdo). Ancora sembra non si accetti che gli uomini “fanno la storia” in condizioni già in essere; infatti, ogni generazione “lavora” la realtà lasciatale in eredità da molte precedenti. Tale “realtà” è inoltre conosciuta soltanto tramite ipotesi, e queste ultime sono stimolate da precisi orientamenti ideali, e ideologici, che sempre fanno velo rispetto alla pretesa (di alcuni) di riprodurre il reale così com’esso è. Si agisce invece nella “realtà” così come si pensa essa sia, e si perseguono determinati scopi in base alle proprie spinte ideali e alle proprie concezioni ideologiche. In definitiva, gli uomini, in quanto attori mossi da determinate finalità, sono portatori di un movimento che li trascende; e li deluderà infine se non hanno la consapevolezza che il “fiume storico” li farà continuamente deviare dal tragitto, lungo il quale sono convinti di nuotare puntando ad un preciso approdo sull’“altra riva”. Ogni tanto, è perciò necessario smettere di nuotare, tirare fuori il “capo” dalle acque e appurare dove si sta andando, apportando le necessarie correzioni di rotta: occorre cioè compiere una nuova analisi della situazione, che avrà le stesse caratteristiche “difettose” delle precedenti e condurrà dunque, ancora una volta, ad operazioni mosse da certi scopi non conseguibili proprio così come sono perseguiti. La storia è un fiume di cui “l’altra riva” è sempre in vista, ma non si raggiunge mai; la correzione di rotta, la nuova interpretazione della fase in cui ci si trova, i nuovi scopi da prefiggersi, ecc. saranno mosse da ripetersi “in eterno”. E guai se non le si compie periodicamente, se ci si irrigidisce nelle proprie fisime. Oggi ancora non si vuol capire che il “comunismo”, che la “costruzione socialistica”, sono falliti esattamente com’è fallita, ad es., la Rivoluzione francese del 1789. Si tratta di fallimento per chi ancora non ha capito che la Storia sta ormai “svoltando”, che una nuova epoca è già iniziata; ed in questa si stanno manifestando, come al solito con molti e molti decenni di ritardo, gli effettivi risultati della cesura storica rappresentata da un evento rivoluzionario della portata della Rivoluzione d’ottobre. Ovviamente, quanto qui sostenuto non significa non riconoscere nel contempo la responsabilità degli “attori”/portatori. Ogni individuo è responsabile delle sue azioni; si tenga però conto del contesto in cui si muove, un contesto esso stesso mobile, cangiante, e soprattutto conosciuto tramite ipotesi da rivedere e correggere periodicamente.
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Nelle fasi monocentriche, tuttavia, permane il conflitto tra agenti capitalistici, pur se assai più attenuato e spesso in apparente latenza; sotto sotto, insomma, sobbolle in continuazione quella dinamica – caratteristica non del capitalismo in generale, ma dell’articolazione (spaziale) tra le formazioni particolari costituenti quella mondiale – che Lenin eresse a dignità (eccessiva) di “legge” dello sviluppo ineguale dei vari paesi capitalistici in quanto potenze. Nell’oltre mezzo secolo di relativa quiete (nel solo senso che il trend complessivo fu decisamente ascendente), si verificarono comunque varie “piccole” crisi dette recessioni. In esse, guarda caso, mai funzionava adeguatamente il “keynesismo”. Ogni aumento della spesa statale – attuata con la semplice finalità di accrescere la domanda complessiva (beni di consumo più beni di produzione) – innescava una spinta inflazionistica, per cui si attuavano subito manovre per contenerla (innalzamenti del saggio di sconto, riduzioni di spesa, ecc.) e si tornava in panne; allora si riprendevano le precedenti misure, e così via (il ben noto stop and go). Le crisi di ampia portata furono evitate non per merito di una politica economica in qualsiasi modo impostata (keynesiana o liberista), bensì soltanto grazie al coordinamento d’insieme del campo capitalistico avanzato, coordinamento assicurato dalla (pre)potenza degli Usa, oltre tutto all’avanguardia nei settori tecnico-economici d’eccellenza, quelli della nuova ondata di grandi innovazioni scientifico-produttive.
Così forte era l’ideologia (e la lotta tra le due antitetico-polari: keynesismo e neoliberismo, entrambe più smorte del tanto vituperato marxismo) che si interpretò assai malamente la politica delle amministrazioni statunitensi repubblicane da Reagan in poi: quella appunto neoliberista. Gli sconfitti keynesiani rilevarono ironicamente che tali politiche portavano a deficit di bilancio di grande portata, e vedevano in ciò la giustezza delle loro tesi (prese per “scientifiche” ed invece grondanti d’ideologia). In realtà, le spese statali degli Usa non hanno mai avuto, in nessun frangente, il significato di una politica di Welfare o comunque di solo incremento della domanda. Esse erano al servizio della potenza mondiale degli Usa, assicurando così il coordinamento del campo da essi dominato – che includeva tutta la parte più avanzata del capitalismo – vero motivo e motore di uno sviluppo a ritmi sostenuti e con interruzioni brevi e contenute.
Così pure, nel momento in cui si presenta una crisi come l’attuale, che sembra richiamare quelle d’anteguerra, gli ideologi keynesiani rialzano la testa e pretendono di aver avuto sempre ragione. Credono sia nuovamente arrivato il loro momento. Non dipende certo da me impedire che si caschi nuovamente dalla padella (neoliberismo) nella brace (keynesismo). Prevedo solo che, se ciò dovesse accadere, saremmo veramente nei guai. La situazione geopolitica complessiva è totalmente, e irreversibilmente, mutata. Proprio gli accadimenti – lo sprofondamento del campo “socialista” – che avevano dato alla testa agli ideologi del capitale e fatto gridare (anche agli ottusi rinnegati del “comunismo” italiano, e non solo italiano) ad un prossimo secolo di pace e prosperità, hanno in realtà provocato l’inceppamento del sistema mondiale; certamente, come spiegato più sopra, a partire dal settore finanziario e dal paese ormai divenuto l’effettivo centro del nuovo assetto internazionale. Lo scoppio della crisi comunque più grave del dopoguerra coincide con la fine, almeno momentanea (un “momento” misurabile con i tempi della storia), del disegno “imperiale” statunitense (monocentrismo esteso a tutto il globo).
Qualcuno rimpiangerà certamente la fine – per la verità rapida, nel giro di poco più di dieci anni – del monocentrismo imperniato sugli Stati Uniti, così come fu rimpianto quello inglese, durato buona parte dell’ottocento, da parte, ad esempio, degli Junker prussiani e dei proprietari di piantagioni di cotone negli Stati del sud degli Usa. Tuttavia, l’incapacità europea di comprendere un fenomeno ormai irreversibile, non comandabile a piacere da nessuno dei gruppi dominanti capitalistici in Europa per quante decisioni (servili) essi prendano, non farà che sprofondarci in una crisi sempre più vasta e profonda; e sia chiaro che non mi riferisco a quella economica, dolorosa ma non decisiva. Si prenda atto, infine, che il vecchio nemico (il “comunismo”), da tutti gli ottusi ritardatari e reazionari ideologi del capitalismo “occidentale” (quello dei subdominanti europei e giapponesi) considerato sconfitto e infamato, è risorto sotto altre e più robuste vesti. La ben nota eterogenesi dei fini ha fatto risultare alla fin fine vincenti, ma dopo una svolta radicale, le forze – non mi riferisco a
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quelle dei loro portatori soggettivi, anch’essi schiavi di una ideologia risultata perdente – che misero in moto un dato processo nel 1917, approfittando della fase policentrica con lo scoppio aperto del conflitto per la supremazia e l’indebolimento del vecchio assetto capitalistico in dati suoi punti (“anelli”) di maggior fragilità.
E’ invece risultato perdente – e prima lo si comprenderà, prima si potrà attuare almeno il tentativo di uscire dalla brutta situazione in cui si stanno infilando i subdominanti “occidentali” (ancora una volta, si eviti di riferirsi all’esclusivo aspetto economico-finanziario della situazione in oggetto) – il socialismo sedicente riformista. Esso è stato il più prono al disegno “imperiale” statunitense e, ancor oggi, non demorde da questa sua visione eminentemente reazionaria, che assomiglia non a caso a quella della socialdemocrazia weimariana, spazzata via – e oggi va detto infine senza perifrasi: per fortunata congiuntura storica – dal nazismo. In quanto portatori soggettivi del “flusso storico” abbiamo la piena responsabilità di almeno adoperarci per evitare un drammatico evolversi degli eventi, che abbiano una sia pur vaga somiglianza con quelli degli anni trenta. Se però si resta nell’attuale posizione di vecchiezza ideologica e di conseguente irresponsabilità, allora poi non ci si lamenti di quanto accadrà; lo si sarà ampiamente meritato .
La reazionaria socialdemocrazia, con la sua balorda ideologia del Welfare e della spesa statale (esclusivamente spesa, senza alcuna connotazione di potenza), dovrebbe essere sbaraccata, senza che ne resti la menoma traccia, prima che lo faccia un’altra dura “rivoluzione dentro il capitale” con tutti gli esiti tragici del caso. Nemmeno volessimo, potremmo tornare sotto l’ala protettrice (e “ultraimperialistica”, cioè coordinatrice) degli Stati Uniti. Dobbiamo renderci indipendenti, che ci piaccia o meno. Altrimenti, si accettino tutte le conseguenze, assai pesanti, che si produrranno. La sedicente “destra” attuale è in effetti il “male minore”. Essa pure è tuttavia inetta, ideologicamente vetusta, ottusamente reazionaria, sempre ossessionata dal supposto pericolo corso con il “comunismo”, che considera tuttora esistente in Cina o a Cuba e Corea del Nord. Perfino la Russia è guardata con sospetto1.
Sinistra e destra sono proprio di un’arretratezza e vecchiezza insopportabili; non più, tuttavia, dei residui “comunisti” e fintomarxisti, veri scervellati sia in versione rozzamente economicista che in quella utopisticamente (e religiosamente) umanista. O saranno sbattuti nelle “pattumiere” o altrimenti dovremo passare per alcuni decenni drammatici. D’altra parte, non è che i “soggetti” possano disporre a loro piacimento della “storia”. Assumiamoci comunque le nostre piene responsabilità individuali. Questa è l’unica scelta, in qualche modo anche “etica”, a mio avviso credibile per chi si è formato al comunismo e al marxismo scientifico, ma non accetta né determinismo né volontari-
1 E’ invece oggi necessario reinterpretare la costruzione del sedicente socialismo, sforzandosi di afferrare con maggior realismo –— e mandando definitivamente in soffitta le sterili e astiose diatribe ideologiche ancor oggi vigenti – i reali sbocchi della rivoluzione autodefinitasi comunista. Potrebbe forse rivelarsi utile al proposito ripartire dal tema dell’accumulazione originaria, non però come interpretata in Urss (ad es. da Preobrazenskij) o da altri marxisti del tutto economicisti; così come del resto fu interpretata quasi sempre la marxiana accumulazione originaria del capitale. Non si è trattato affatto di mera accumulazione di forze produttive, ma di rapporti di produzione; in definitiva, ci si deve riferire alla trasformazione dei rapporti sociali, poiché per Marx il capitale è un rapporto sociale. Il dibattito sull’accumulazione “primitiva” in Urss e paesi “socialisti” (si vedano anche Dobb e Lange, ecc.) fu soprattutto una discussione sull’opportunità di dare la priorità all’industria leggera o a quella pesante, alla produzione di beni di consumo (per elevare il livello di vita del popolo) o invece di beni di produzione (per creare le basi di più accelerati sviluppi futuri). Va al contrario posta in primo piano la dinamica trasformatrice della struttura sociale, coperta e oscurata nel “socialismo” da una “sovrastruttura” politica (Stato e partito) e ideologica (il marxismo-leninismo ufficiale). Alla fine di un lunghissimo e tormentato percorso, però, questa dinamica ha provocato l’afflosciamento di tutta l’impalcatura, lasciando allo scoperto fondamenta rivelatesi, tutto sommato, più solide di quanto si pensasse; affatto diverse comunque da quelle accarezzate dai progetti comunisti e propagandate con “falsa coscienza” (probabilmente sincera) dagli agenti politici fautori di tali progetti. Sono queste fondamenta, accompagnate da fenomeni politico-ideologici nuovi e ancora non ben definiti (o almeno così sembra), a favorire la crescita di nuove potenze da formazioni particolari diverse da quella dei funzionari del capitale oggi predominante in “occidente”. Dopo il probabile futuro periodo conflittuale policentrico, dovrebbe emergere una nuova strutturazione della formazione sociale preminente; in tal caso, sarà questo, a livello globale, lo sbocco del processo iniziato negli ultimi anni –— probabilmente caratterizzato da nuovi accesi confronti –— perfino se dovessero risultare ancora una volta vincitori gli Stati Uniti.
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smo, essendo pure consapevole dell’impossibilità di neutralizzare completamente il sempre presente velo ideologico che avvolge la realtà, e che nessuna pratica – teorica e pratica – è in grado di lacerare definitivamente al fine (illusorio) di aprirsi ad una visione di completa illuminazione.
7. In quanto teorico di derivazione marxista, resto fedele alla preminenza del discorso strutturale (ipotetico-costruttivo, perché non credo alla reale esistenza delle strutture), sempre in riferimento ai rapporti tra gruppi e raggruppamenti sociali. Sono dunque costantemente critico verso ogni discorso di semplice economia o di utopismo soggettivistico. Tuttavia, pur mancando di conoscenze “specialistiche” in merito, ritengo assai rilevante il discorso sullo Stato; per cui attendo arrivi l’occasione, e l’aiuto di migliori conoscitori dell’argomento, per un’analisi di tale “oggetto”. Sullo Stato si annodano alcune delle principali – se non addirittura le principali – distorsioni ideologiche; e non solo da parte dei dominanti (o decisori).
Intanto, è ideologico il riferimento che si fa solitamente allo Stato quasi fosse un reale individuo dotato di pensiero, progetto, scelta, volontà, decisione, operatività, ecc. Importante la discussione sui suoi vari apparati, a patto però di considerarli il precipitato, la condensazione, di campi di energia1, nel cui ambito, evidentemente, i “soggetti” delle azioni sono rappresentati da individui pur sempre responsabili delle loro decisioni, sussistendo però la necessità di ricercare le più perspicue modalità di analisi dei suddetti campi e delle condensazioni (apparati) in essi precipitate. Per il momento, credo lecito non procedere ad una approfondita indagine del tema. E’ da criticare comunque senza mezzi termini ogni considerazioni dello Stato quale neutrale organizzatore e amministratore degli affari generali della società, considerata nel suo complesso e priva di riferimento alla rete di rapporti (conflittuali) tra gruppi e raggruppamenti, rete che va pensata quale sua costituzione specifica; con la precisazione che tali partizioni sociali non sono poste su un piede di eguaglianza quanto a possibilità di decisione, poiché alcune predominano sulle altre.
Ho già chiarito in altro scritto (Marx-marxismo) la necessaria considerazione degli apparati dello Stato dediti all’aggressione (verso l’esterno), alla repressione e coercizione (all’interno), senza i quali non può essere garantita la riproduzione di quella specifica struttura di rapporti fondata sul predominio e la diseguaglianza. Le decisioni assegnate allo Stato promanano da una serie di compromessi, o invece di forzature decise d’autorità (a seconda di contingenze storiche specifiche), che conducono comunque a particolari azioni finalizzate dei vari apparati, la cui responsabilità è distribuita, in parti non eguali e periodicamente mutevoli, tra diversi gruppi di agenti operanti nelle sfere economica, politica, ideologico-culturale (strettamente intrecciate e commiste fra loro)2.
L’ideologia liberista – liberale più in generale – predica la riduzione al minimo dell’attività degli apparati statali per lasciare il maggior spazio possibile alle “libere scelte” (mercantili) degli individui, associati secondo la forma capitalistica dei loro rapporti; individui fra cui si finge esista la più completa parità di diritti e di opportunità, per cui ogni differenza dipende esclusivamente dalle capacità e impegno di ciascuno. Gli assertori dello “Stato sociale” – che non definirei keynesiani, bensì semplicemente statalisti (poi giudicheranno gli studiosi di Keynes se, al contrario, costui debba essere implicato in tale scelta) – sono invece favorevoli al massimo possibile di sostituzione
1 In altro scritto, fra qualche tempo, spiegherò meglio che cosa intendo con questa espressione; non si creda comunque a qualcosa che esiste “al di sopra”, “separatamente”, dai soggetti che in esso operano come portatori del suo movimento; il quale è la risultante di un in(de)finito numero di variabili rappresentate dalle azioni dei portatori in questione.
2 Alcuni di questi gruppi –— partiti, sindacati, perfino imprese economiche (ad esempio in forma cooperativa) –— pretendono di rappresentare i dominati (i non decisori), ma la loro azione, talvolta conflittuale, resta sempre entro l’ambito dell’ordinata riproduzione di quel tipo di società (capitalistica); non fosse così, nelle normali condizioni di competizione e conflitto tra dominanti (decisori), condizioni in cui non si verifichi alcuna “debolezza” in nessun “anello” della catena di legami fra questi ultimi, entrerebbero in azione, e con il consenso delle maggioranze, gli apparati della coercizione. Si tenga presente che nelle fasi di normale riproduzione di quella data struttura sociale, i gruppi che pretendono di rappresentare i non decisori sono cooptati tra i decisori e ne divengono parte integrante, dimostrandosi assai pronti nel difendere l’“ordine costituito”, il cui sconvolgimento determinerebbe la fine del loro potere fondato sulla suddetta rappresentanza.
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dell’attività detta “pubblica” a quella “privata”; dove pubblico è ideologicamente confuso con la presa in custodia e cura di presunti interessi generali di un’intera collettività nazionale, mentre privato sarebbe sinonimo di egoismo prettamente individuale.
L’attività “pubblica” – cioè fintamente diretta all’interesse generale – viene giustificata in modo che a me sembra particolarmente pasticciato e con la commistione dei più svariati motivi non sempre coerenti fra loro. Per alcuni, il principio fondamentale è quello della solidarietà tra i membri della collettività (una collettività formata da gruppi di individui diseguali salvo che per la pura forma giuridica che declama l’eguaglianza). In soccorso di tali “buoni sentimenti” solidaristici viene poi la “scienza” (ideologica) che assicura essere l’intervento “pubblico” (dello Stato) essenziale al fine di mantenere un assetto socialmente stabile, con buoni livelli e ritmi di sviluppo, la possibile eliminazione o forte attenuazione delle crisi (economiche), l’equa distribuzione del reddito conciliata con un sufficiente tasso di profitto in grado di non deprimere le spinte individuali (gli animal spirits imprenditoriali); equa distribuzione resa possibile (secondo gli ideologi) dal fatto che i profitti sono favoriti da un sufficiente livello della domanda, cioè della spesa per acquisto di beni di consumo che dà impulso anche a quella di investimento in beni di produzione. Su questa concezione sono in sostanza d’accordo anche i “marxisti” economicisti, che tuttavia considerano ineliminabile la carenza di domanda (in specie di consumo) da cui conseguirebbe l’impossibilità di realizzare il plusvalore (pur già prodotto, estratto dalla forza lavoro).
La sintesi tra solidarietà e “scienza”, tra equilibrio sociale e salvaguardia delle pulsioni individuali, tra equidistribuzione del reddito e ottenimento di “adeguati” saggi di profitto, ecc. sarebbe stata trovata con l’intervento dello Stato detto “sociale” (o del benessere, il Welfare State), erogatore di “benefica” spesa (non coperta da accrescimento della pressione fiscale) in grado di incrementare la domanda senza deprimere la voglia di intraprendere un’attività produttiva atta a soddisfarla. Non intendo minimamente perdere tempo a blaterare su queste belle fiabe, poiché non vi è nulla, nello sviluppo capitalistico del dopoguerra, che corrisponda al loro racconto; e ormai ritengo acquisita, malgrado sappia quanti ritardatari ancora vi siano (non sono solo i marxisti ad essere dei “ritardati”), che la crisi del 1929 non è stata risolta dalla spesa pubblica, per infrastrutture e quant’altro, bensì dal regolamento di conti avvenuto nella guerra mondiale con la conquista della preminenza centrale da parte degli Usa nell’area mondiale dominata dal capitalismo avanzato.
Ovviamente, in quanto dico non c’è alcuna intenzione di criticare lo “Stato sociale” con la sua spesa costituita, in grandissima parte, da pensioni e sanità pubblica. L’importante è non sostenere tesi solo ideologiche (contrabbandate per scienza) circa la funzione di tale spesa ai fini dello sviluppo; si tratta esclusivamente di perseguire giuste finalità di un maggiore benessere, che i non decisori hanno il diritto di pretendere e ottenere. Tuttavia, tali finalità sono state realizzate, in parte e per un dato periodo storico, proprio nei capitalismi guidati da agenti subdominanti (rispetto a quelli predominanti statunitensi), a causa di condizioni di fase del tutto particolari createsi in sede internazionale alla fine della guerra mondiale e mantenutesi per alcuni decenni successivi.
Semplicisticamente, si è voluto attribuire tale realizzazione alla presenza del sistema considerato alternativo a quello capitalistico, che avrebbe suscitato timori di rivolgimenti anche in occidente. Tale convinzione è stata diffusa soprattutto dai rappresentanti politico-sindacali (con dati gruppi intellettuali di supporto) dei suddetti non decisori allo scopo di legittimare la loro funzione di cooptati tra i dominanti/decisori. I più diretti rappresentanti politici di questi ultimi, con altri gruppi di intellettuali (“scienziati”-ideologi), hanno largamente sostenuto l’impostazione statalista circa la necessità che avrebbe il capitalismo, ai fini della riproduzione del sistema, di ampliare i consumi di massa sia attraverso maggiori salari diretti (quelli veri e propri) sia mediante remunerazioni “indirette” (spese sanitarie) e “differite” (pensioni). Come in ogni ideologia, anche nelle due tesi appena indicate – del resto sempre intrecciate come commisti sono i diversi gruppi di agenti dominanti attivi nelle sfere politica e ideologica del capitalismo – vi è un granello di “verità”; solo che tale granello serve a nascondere la sostanza del problema.
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Il crollo della presunta alternativa al capitalismo – crollo che è stato solo il toglimento di quella “sovrastruttura” di lungo mascheramento dell’autentico processo innescato dalla Rivoluzione d’ottobre, venuto infine in piena luce soprattutto con gli sviluppi delle nuove potenze russa e cinese – ha dato al paese centrale nella formazione dei funzionari del capitale la netta sensazione di poter dominare “imperialmente” il mondo. Tale obiettivo, del resto già accarezzato durante il periodo finale del “socialismo reale” ormai chiaramente in panne, ha accentuato al massimo lo sforzo degli Stati Uniti, che hanno implicato in esso anche i subdominanti europei (e giapponesi)1. Da qui a sostenere che il crollo del (solo presunto) possibile sistema alternativo al capitalismo ha indebolito la “lotta di classe” in quest’area capitalistica avanzata, con la redistribuzione del prodotto dai salari ai profitti, il passo è stato breve; facile, inoltre, è stato compierlo per i gruppi politico-sindacali che nella pretesa di rappresentare i non decisori fondano la legittimità della loro cooptazione tra gli agenti dominanti/decisori.
Si è così prodotta da molti anni e decenni una completa distorsione ideologica che ha investito ogni comparto delle sedicenti scienze sociali (dei) dominanti. La cosiddetta egemonia culturale della sinistra – tanto lamentata dalla destra, agganciata a più tradizionali ideologie liberiste – è stata solo frutto della suddetta cooptazione dei rappresentanti dei non decisori tra gli agenti decisori (dominanti). L’evidente incapacità dell’ideologia di detti rappresentanti (quella denominata “keynesiana”, in realtà statalista) di riprendere veramente il sopravvento in una situazione di crisi (comunque sia, la più grave del dopoguerra) – che ha messo in netta difficoltà, e caduta della fiducia in se stesso, il liberismo – è il più evidente sintomo che l’epoca è comunque mutata e le “sinistre”, con le loro mene tese a farsi cooptare, non sono in grado di riafferrare il bandolo della matassa. Riemerge qui quanto ho già affermato più sopra: il presunto comunismo – dopo un periodo di grave crisi del tutto necessario a togliere di mezzo pesanti impalcature impedienti – ha in realtà conseguito il successo sia pure per altra via: impensata e impensabile da parte degli ideologi dei dominanti. Il vero fallimento sta invece investendo la “sinistra” (in ogni sua versione), sostenitrice dello statalismo “sociale”, della spesa pubblica come incentivo alla produzione e, perciò, rimedio alla crisi.
Il fondamento sociale di tali processi fallimentari sta in quanto Lenin intuì oltre un secolo fa, senza però portare tale intuizione a compimento, poiché ciò non era possibile e non lo è stato per tutto il novecento:
“l’aspirazione di tutti gli operai [corsivo e grassetto miei] a ottenere dallo Stato misure atte a rimediare ai mali che comporta la loro condizione, ma non ancora [corsivo mio perché tale limitazione, dopo un secolo, non ha più ragion d’essere se non per ottusi bisonti dogmatici] a sopprimere questa condizione, cioè a distruggere la sottomissione del lavoro al capitale” (Che fare, aprile 1902).
Gli “operai”, oggi in realtà raggruppamenti sociali molto più ramificati e complessi di quanto non fosse nel capitalismo avanzato di un secolo fa, hanno continuato, e con ragione, a pretendere misure per il miglioramento delle loro condizioni di vita; e lo fanno tuttora. Sulla base di tale “aspirazione” – di una “classe” che non è classe, come appena rilevato, e che non ha alcun carattere rivoluzionario, avendo manifestato aneliti di rivolta solo nel periodo di transizione dalla prevalenza dell’agricoltura (e dunque dei contadini) a quella dell’industria pienamente sviluppata e autosviluppantesi (mediante trasformazioni innovative periodiche) con ritmo accelerato – si è via via affermata anche presso i subordinati l’idea (ideologia) dello Stato quale organo di rappresentanza generale della collettività, con la cooptazione tra gli agenti dominanti nella sfera politica dei rappresentanti della presunta “classe” soltanto “aspirante” a stare meglio. Non si è trattato di svendita “per un piatto di lenticchie”; più semplicemente, del fallimento di una ideologia che fondava la rivoluzione an-
1 L’operazione mani pulite, condotta in uno dei più fragili paesi del subdominio capitalistico, andrebbe riconsiderata anche alla luce di questa maggior tensione dei predominanti statunitensi verso la massima preminenza “imperiale” possibile.
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ticapitalistica su una “classe” che non era classe, su dinamiche del capitale che non si sono verificate, sulla pretesa di politici (ormai semplici funzionari e amministratori-burocrati) sempre più lontani dalla realtà e trasformatisi perciò in mestatori e truffatori, che si sono accontentati (e si accontentano) di affondare le loro mani in residue sacche di emarginati o di nostalgici per ottenere piccole e miserabili, ma non mal “pagate”, cooptazioni da parte dei dominanti.
8. Mi dispiace, mi sono dovuto dilungare oltre il previsto; e quante altre questioni sarebbero da sviscerare! Lo Stato è dunque un campo di energie, creato dal conflitto tra più gruppi di agenti dominanti; un conflitto tuttavia combattuto con modalità assai diverse da quello in atto nella sfera economica, dove gli apparati tipici sono le imprese e il campo di energie (di battaglia) è chiamato mercato, mentre il conflitto prende la più rassicurante e blanda denominazione di concorrenza. E’ esattamente il tipo di conflittualità esistente nella sfera politica – tra gruppi di agenti riuniti in partiti, gruppi di pressione e lobbies che svolgono pure funzioni di tipo egemonico-culturale, ecc. – a trovare la sua apparente sintesi in quell’apparato di apparati cui diamo il nome di Stato. In realtà, lo consideriamo fortemente compatto e unitario poiché appare sempre sul davanti della scena il corpo “amministrativo” dello stesso, quel corpo di “impiegati” (ai più svariati livelli gerarchici, dal vertice dirigente alla base operativa) esercitante i processi lavorativi che fanno funzionare gli apparati. Amministrare significa svolgere questi processi lavorativi, dove lo svolgimento segue dati criteri realizzando compiti diversi: dalla gestione degli affari detti generali a quella del cosiddetto ordine pubblico (implicante l’“ultima istanza” rappresentata dalla coercizione e repressione) alla difesa (vero ribaltamento del significato poiché, in genere, comporta aggressione verso l’esterno), ecc.
Dietro questo esercizio – di processi lavorativi messi tutti sullo stesso piano come metodologia di esecuzione – stanno le volontà e decisioni, le manovre insomma, dei vari (e interconflittuali) gruppi di agenti della sfera politica, che agiscono in stretto intreccio con quelli delle altre sfere sociali, in primis quella economico-mercantile (produttiva e finanziaria, cioè l’insieme degli apparati/imprese). Lo Stato appare dunque alla visione “superficiale” nella sua compatta “soggettività”, i vari studiosi e ideologi dei dominanti (e anche dei dominati, di solito) lo trattano quale Ente supremo, come uno e uno solo in quanto dotato di “personalità” propria, sovraordinato rispetto alla società tutta o invece “servitore” di un interesse collettivo espresso “democraticamente”; il che significa soltanto mediante quella “kermesse héroique” rappresentata dalle elezioni, ampiamente manovrate e orientate dai vari gruppi di agenti decisori/dominanti fra i quali, si è già detto, si trovano coloro che agiscono in nome dei non decisori ma per conto proprio in quanto cooptati tra i decisori.
Se si tiene ben presente la strutturazione, e le effettive funzioni, dello Stato – e non ci si lascia incantare dagli ideologi che lo presentano in veste “democratica” e super partes – non costa nulla, per scopi pratici, parlare dello Stato quasi fosse un soggetto che decide e agisce. Anche trattandolo in simile guisa, appaiono varie distorsioni ideologiche, frutto di situazioni contingenti, di fase, tuttavia riguardanti periodi storici anche lunghi se misurati in base alla durata della vita umana. Per quasi mezzo secolo, dopo l’evento bellico chiusosi nel 1945, il mondo si trovò in situazione di bipolarismo imperfetto. Da una parte, esisteva la Cina, del tutto indipendente nel campo detto “socialista”; dall’altra parte, in quello capitalista, vi era la Francia – assai meno autonoma malgrado il periodo gollista – incapace di rompere veramente e durevolmente quella configurazione che, per quanto riguarda il campo in questione, era di netto monocentrismo1 sotto la predominanza statunitense. Va detto con chiarezza che da tale predominanza, in quella fase, derivava una certa qual regolazione dell’insieme da parte del centro, regolazione resa possibile dalla relativa complementarietà dei vari sistemi-paese2.
1 Il fatto che l’imperfezione del bipolarismo sussistesse soprattutto dalla parte del sedicente socialismo è stata una delle cause (non credo la principale) del crollo di quest’ultimo. Indubbiamente, gli Usa, soprattutto con Nixon, seppero giocare abilmente sulle divergenze tra Urss e Cina.
2 Come ulteriore prova di quanto sto dicendo, ricordo che negli anni ’80 alcuni superficiali (anche “marxisti”) predisse-
ro l’imminente predominio mondiale del Giappone grazie soprattutto alla superiorità mondiale assunta dalla sua indu-
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E’ dunque per me del tutto evidente che il cosiddetto Welfare fu possibile esattamente in una simile “struttura” monocentrica del campo capitalistico. I paesi capitalisticamente avanzati erano dei sistemi guidati da agenti economici e politici (con il loro corteggio di ideologi) subdominanti, interessati quindi allo sviluppo prevalente di settori in qualche modo integrati a quelli del paese centrale, ma perché complementari ad essi (e non invece fortemente competitivi) in quanto tipici di passate stagioni dell’industrializzazione; una situazione che comunque, in regime capitalistico, non comporta mai la cessazione della conflittualità. Ci furono eccezioni, in particolare per quanto riguarda certi settori legati alla Difesa in Francia. In Italia si può soprattutto ricordare l’Eni (e forse qualcosa d’altro) che tuttavia fu ricondotta, con i metodi che ben ricordiamo, entro un alveo competitivo più accettabile per la superpotenza.
La fase monocentrica del polo rappresentato dal capitalismo più avanzato permise comunque lo sviluppo (subordinato) dei paesi europei e del Giappone, rendendo inoltre possibile in essi lo Stato sociale, mentre nel centro predominante del campo la spesa pubblica era appunto funzionale alla potenza necessaria alla supremazia. Ecco spiegato il mistero, che fu oggetto di stolta ironia da parte degli sconfitti ideologi “keynesiani”, di un Reagan, uno dei principali artefici della svolta neoliberista, sotto la cui presidenza aumentò a dismisura la spesa statale (e il debito pubblico, nonché il deficit di bilancio). Eravamo ormai alle soglie dell’implosione “socialistica”, e gli Usa la vollero accelerare con ancor maggiori spese destinate alla suddetta potenza. Nulla quindi a che vedere con l’“imbelle” spesa – solo nella comune forma “pubblica” assimilabile a quella statunitense – dei paesi guidati dai subdominanti.
La fine del bipolarismo, il più che decennale tentativo statunitense di allargare il loro predominio al mondo, l’impasse presente di tale tentativo, il disordine crescente e l’avvio verso una fase multipolare contrassegnata dalla crisi in atto (della cui effettiva gravità saremo edotti, come al solito, ex post), ecc. hanno completamente mutato i dati della situazione. La complementarietà dello sviluppo tra sistemi-paese – pur sempre a capitalismo avanzato ma con differenti strutture produttive, legate a fasi diverse dell’industrializzazione – sta venendo ormai a mancare; non esiste più il fulcro regolatore dell’insieme tipico di una fase monocentrica. Ecco perché la battaglia per il mantenimento del Welfare sarà infine persa. Sia chiaro, lo ripeto: non dico di non combattere questa battaglia, così come all’inizio ottocento non mi sarei mai schierato contro il luddismo.
Tuttavia, con la lucidità fornita da nuove ipotesi teoriche – che abbandonano la vetusta ideologia della “lotta di classe”, del resto ormai degradata a mero conflitto capitale/lavoro, perché nemmeno le teste vuote dei dogmatici residui marxisti pensano ancora veramente alla rivoluzione, accontentandosi di ingannare gruppetti di poveri illusi al fine di raggiungere la “soglia elettorale”, onde godere di qualche cadreghino – va affermato che, con almeno il 90% di probabilità, il Welfare, per
stria automobilistica. Sembrava quindi che tale paese avesse incrinato il monocentrismo, mettendo in discussione la supremazia americana. Se ciò fosse veramente avvenuto, avremmo avuto già allora l’avvio del multipolarismo, quanto meno con la lotta tra quattro potenze: Usa, Giappone, Urss e Cina. Subito dopo il crollo sovietico, a partire dai primi anni ’90, il Giappone entrò in completa stagnazione per buoni 12 anni (e non si è ripreso del tutto nemmeno ora). Che cos’era accaduto? Che la sedicente rottura della situazione monocentrica era stata condotta dal Giappone sviluppando i settori della vecchia “rivoluzione industriale”, mentre gli Usa stavano avanzando in tutti quelli della nuova distruzione creatrice. Quindi, non vi era proprio alcun effettivo e solido sgretolamento della fase monocentrica, poiché quest’ultima si basa appunto sulla complementarietà degli sviluppi – a diverso livello di avanzamento soprattutto per ciò che concerne le innovazioni di prodotto (altro che quelle tecnologiche, denominate toyotismo per motivi che credo appaiano evidenti, innovazioni in grado di affascinare solo gli sciocchi “operaisti”, italiani e francesi in specie; non faccio nomi, per “carità cristiana”) – in atto nei vari sistemi-paese. Si stia perciò attenti anche oggi ad emettere giudizi sommari sugli effetti dell’attuale crisi, grave negli Usa soprattutto nel settore della finanza e, ancora una volta (pur se in forma più accentuata), nell’industria automobilistica. Non mi consta che per il momento sia contrastata in modo netto e con effetti irreversibili – nemmeno da Russia, Cina, India, ecc. – la loro superiorità in tutti i settori scientifici e tecnici (non per le sole tecnologie bensì per i nuovi orizzonti produttivi aperti) che consentono, in definitiva, la supremazia: non certo “spirituale” ma in quanto potenza. Lo si tenga ben presente, sempre; altrimenti si ciancia a vanvera come già fatto in merito alla “resistibile ascesa” del “Sol Levante”.
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come lo abbiamo conosciuto nei quasi 50 anni di bipolarismo, è finito, è sepolto; non esistono più le possibilità di ridargli autentico fulgore, salvo qualche breve e blando sussulto qua e là.
Dobbiamo infine condurre un’analisi seria della nuova fase; e se sarà sempre più multipolare nei 5-10 anni a venire – in quanto transizione, ben più lunga, al policentrismo – la tattica e strategia dovranno esservi adeguate. Senz’altro vanno difese le condizioni di vita della maggioranza della popolazione; senza però la miopia che fa vedere il solo lavoro dipendente (a basso salario o con occupazione precaria) – poiché tale miopia è funzionale ai personaggi maneggioni di cui appena detto, che cercano di essere ancora cooptati dai dominanti con qualche discreta remunerazione (almeno i “trenta denari”) – mentre vi sono grosse quote del lavoro “autonomo” (dizione falsa) che non sono “ceto medio”; e di cui è dunque indispensabile tenere debito conto. Deve però essere acquisita la consapevolezza che si tratta sostanzialmente di una battaglia di retroguardia ove non vi si aggiunga – non in generale, ma nella concreta congiuntura attuale (un’attualità destinata a durare molti anni, forse un paio di decenni all’incirca) – l’individuazione delle mosse migliori al fine di favorire il passaggio d’epoca, cioè l’avvio verso (dis)equilibri diversi fra le potenze: la vecchia ancora in vantaggio, e le nuove che non hanno certo il cammino in discesa.
E’ indispensabile riprendere vecchie tesi, ma con ben altra consapevolezza di ciò che è ormai irreversibilmente superato e di quanto può essere portato a nuova vita con un’analisi di più ampia (e differente) portata. L’idea dello sviluppo ineguale dei capitalismi fu intuizione felice. Bisogna però almeno capire che non è sufficiente arrovellarsi sulla struttura sociale dei capitalismi avanzati; soprattutto va abbandonata la semplificazione della divisione in due classi fondamentali sulla base del rozzo strumento (non invalidato, solo rozzo: proprio una “falce e martello” con cui si pretendesse di lavorare su “circuiti integrati”), che individuava la divisione del prodotto tra salario (valore della forza lavoro) e pluslavoro/plusvalore (acquisito dai proprietari capitalisti, ormai divenuti rentier). La struttura sociale è assai più complicata (non semplicemente “complessa”) e “reticolare”, segmentata oltre che stratificata. In questa fase storica, però, è specialmente indispensabile un’indagine assai più fine e precisa dell’articolazione delle svariate formazioni particolari nell’ambito di quella complessiva o mondiale; distinguendo le potenze in crescita quali possibili future avversarie degli Usa, quelle destinate invece a restare medie o regionali, ecc.
9. Questo discorso va tuttavia proseguito altrove. L’importante è che la si smetta definitivamente con il vecchiume sia delle ideologie dominanti (liberiste o “keynesiane” che siano) sia di quella che fu dei dominati, oggi trasformata in legittimazione – ormai al lumicino per fortuna – di veri “servi” in cerca di voti per meglio vendersi a quei gruppi di dominanti/decisori attaccati ai vecchi settori dell’industrializzazione, nel vano tentativo di far girare all’indietro l’orologio della storia, di ripristinare la “bella” subordinazione al monocentrismo (regolatore) statunitense, avendo assicurato un comodo posticino nella complementarietà tra predominanti e subdominanti. Assai poco probabile è il ritorno di quel tempo; dobbiamo mettere nel conto ben diversi percorsi storici e iniziare a indagarne le possibili “cause strutturali”. E’ indispensabile seguire con la massima attenzione la politica delle potenze, che sta ricominciando con forza via via crescente, con tutte le imprevedibili giravolte, cambi di temporanee alleanze o semplici provvisorie coincidenze di interessi, che poi si dileguano per lasciare strascichi conflittuali: ora latenti ora espliciti, ora sordi ora in piena esplosione.
I lavoratori vanno difesi tutti, dai salariati alle cosiddette “partite Iva”. Ancor più importante è attualmente l’atteggiamento tenuto nei confronti dei conflitti internazionali; senza dimenticare i processi interni alle varie formazioni particolari, tenendo soprattutto conto di quella in cui viviamo e operiamo. Dobbiamo allora riportare in auge, ma cambiandone profondamente il segno, le intuizioni di Lenin. Poche parole in merito; le incontreremo spesso sul nostro cammino in seguito. Intanto, ricordiamoci il passo del Che fare sopra riportato senza più le limitazioni che oltre un secolo di sviluppo capitalistico, e l’andamento e sbocco effettivi del processo iniziato nel 1917, hanno ormai chiaramente tolto di mezzo. Gli “operai”, lavoratori di fabbrica, sono una frazione senz’altro ancora importante del complesso lavorativo, ma non certo una classe, tanto meno la Classe per antonoma-
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sia. Il cosiddetto tradunionismo – l’atteggiamento di lotta sindacale per una più favorevole redistribuzione della torta prodotta – non è limitato ai soli operai inglesi (alla “aristocrazia operaia” più in generale) né è atteggiamento temporaneo; quel “non ancora” del brano del Che fare non ha più ragion d’essere.
Nessun raggruppamento sociale della formazione capitalistica è intrinsecamente rivoluzionario; nessuno trae vantaggio dalla semplice disgregazione di questa società, dall’inceppamento definitivo dei meccanismi riproduttivi dei suoi rapporti specifici; non sussiste alcuna possibilità di lotta redistributiva se non vi è sviluppo e riproduzione dei rapporti sociali. D’altra parte, le crisi – dopo le decine e decine (di cui alcune assai gravi e lunghe) ormai verificatesi, accompagnate da eventi ancora più catastrofici quali le “grandi” guerre e altri eventi bellici di prima grandezza e tragicità – non sono sintomo di “crollo”, e anticipo della rivoluzione, bensì al massimo, nei casi più gravi, di importanti passaggi d’epoca, che segnalano l’affermarsi di nuove configurazioni della formazione sociale tuttora definita capitalistica; come esempio, ricordo la transizione, da me più volte indicata, dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale e, negli ultimi decenni, a quello ancora non definito che sempre più va installandosi “ad est”.
Altra intuizione, forse ancor più decisiva, è quella che ha messo in crisi – senza che mai il marxismo abbia saputo trarne infine le dovute conclusioni – l’idea di un sistema capitalistico mondiale trattato in generale e non invece nei suoi diversi spazi (sociali); un sistema soltanto regolato dai meccanismi del presunto modo di produzione capitalistico, che era in realtà la struttura dei rapporti esistenti nella sfera economica a metà ottocento in Inghilterra, il paese predominante di quell’epoca monocentrica. Per di più l’indagine – affascinata, com’era del tutto naturale, dalle grandi trasformazioni in corso nella suddetta sfera economica (e produttiva in specie) – si limitò alle relazioni sociali sussistenti in quest’ultima. L’estrazione del pluslavoro/plusvalore definì all’ingrosso la “divisione in classi”; ma nessuno ha voluto approfondire più adeguatamente perché Marx si sia fermato, nello scrivere Il Capitale (e mi riferisco al complesso dei suoi manoscritti, non alla sola parte che si sentì sicuro di poter dare alle stampe), al capitolo sulle Classi, e non abbia affrontato il compito dell’analisi dello Stato per cui era prevista una parte nel piano complessivo della sua massima opera. Non fu probabilmente in grado di procedere in quelle direzioni poiché il modo di produzione (capitalistico in generale) l’aveva infilato in un cul de sac.
Diversa la posizione di Lenin, che tuttavia non aveva certo il tempo di formulare teorie troppo approfondite, dati i compiti ben più impellenti da svolgere nell’epoca in cui visse. L’estensione del “soggetto rivoluzionario” all’alleanza operai-contadini, il suo precipuo oggetto d’analisi che fu la formazione economico-sociale (intesa come articolazione di più modi di produzione), ecc., non sanarono il difetto dell’analisi marxiana concentrata sulla sfera economico-produttiva (sulla struttura dei suoi rapporti sociali, in ogni caso, non sulla mera “accumulazione del capitale” in quanto cosa, ricordiamolo sempre), ma tennero conto della diversificazione degli spazi sociali nell’arena mondiale, per nulla affatto in via di omogeneizzazione “strutturale” da parte dello sviluppo capitalistico, così come aveva pensato Marx, seguito dall’ortodossia marxista. Certamente però Lenin, anche in tal caso, si attenne ufficialmente ad un “non ancora”, a tempi più lunghi per l’estensione mondiale del modo di produzione capitalistico.
Tuttavia, il fatto che egli indicasse l’imperialismo – oggi chiaramente interpretabile come semplice fase policentrica di tipo ricorsivo – quale “ultimo stadio” del capitalismo, ci segnala, pur nella sua erroneità, quanto Lenin aveva compreso se pur non teorizzato: il capitalismo non va tendenzialmente uniformando la società mondiale. Non vi era dunque alcun interesse, per i gruppi rivoluzionari, di attendere che tale sistema si estendesse all’intero globo, che tutte le masse dominate divenissero operaie1. Da tale consapevolezza discese, nei fatti se non in teoria, la lotta senza quartiere
1 Se negli anni ’60, allontanatomi dal “revisionista” Pci (mi attengo al linguaggio dell’epoca), restai emme-elle pur rendendomi conto della rozzezza e schematismo di quell’area “extraparlamentare”, fu per le “animate” discussioni con gli “operaisti”, che disprezzavano i contadini, ivi compresi (e soprattutto) quelli delle aree dell’allora terzo mondo, ed erano convinti che la rivoluzione (operaia) stesse “scoppiando” nel capitalismo avanzato; essa sarebbe poi divenuta mon-
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combattuta da Lenin contro le tesi “messianiche”, che sostenevano la graduale ma completa diffusione mondiale della Classe rivoluzionaria per eccellenza; che invitavano, cioè, ad aspettare la progressiva unificazione del globo da parte del modo di produzione capitalistico1.
Oggi abbiamo maggior consapevolezza di quanto è accaduto negli ultimi cent’anni. Gli spazi della formazione mondiale sono occupati da formazioni particolari – non semplici “strutture” socio-economiche, bensì anche politiche e culturali – la cui articolazione conflittuale, apertamente manifesta o invece mascherata da una “temporanea” (un’intera epoca di) predominanza, definisce le diverse fasi mono o policentriche (con quella in qualche modo intermedia che è il multipolarismo). Lenin – e i bolscevichi in genere; si pensi alla, da me già citata altrove, introduzione di Bucharin al suo L’economia del rentier – sapeva bene che ci sono periodi non rivoluzionari, in cui diventa imprescindibile proseguire la propria opera in altro senso: meno pratico e più teorico, in cui però la teoria non sia mero accademismo, bensì formulazione di categorie d’analisi utili alla comprensione dell’evoluzione sociale in quella congiuntura, decisive nel cogliere le contraddizioni che in essa si vanno manifestando: le contraddizioni tipiche della situazione storica concreta, non quelle pensate da certi scolastici che applicano le loro credenze, ormai simil-religiose, a spargere visioni catastrofiche o invece edificanti, comunque sempre frutto di fantasie e avulse da ogni realtà, appunto, di congiuntura.
Chiunque pensi alla crisi (economica, solo economica) odierna quale approssimarsi di una stagione rivoluzionaria prende un grave abbaglio, sta sognando. Le contraddizioni che si manifestano sono sempre più simili a quelle della fine ottocento-primi novecento. Abbiamo vere manovre di potenze, tutto un gioco complicato e assai difficile da seguire perché muta continuamente come in un caleidoscopio girato ogni secondo momento. Ci sono un certo numero di aree mondiali, che forse non resteranno sempre le stesse fra alcuni anni, in cui si annodano in modo particolarmente intricato le varie manovre della superpotenza – in fase di mutamento delle sue strategie per manifesta impasse delle operazioni più scopertamente “imperiali” – e delle altre potenze in rafforzamento. Non dico di dimenticare la difesa dei dominati (non decisori), in specie di casa nostra, della nostra area socioeconomica e politico-culturale; essendo però almeno consapevoli che si tratta appunto di difesa, che tutta la vecchia ideologia pseudo-rivoluzionaria è da riporre tra i cimeli e i ricordi (da non gettare via con disgusto).
diale solo quando quest’ultimo avesse “semplificato” la divisione in classi in tutto il globo, affidando le sorti del comunismo alla “Classe”, quella per eccellenza. Ricordo bene la freddezza di questi “rivoluzionari” nei confronti del maoismo, di Castro e Cuba, ecc. Allora, questi eterni semplicioni non blateravano di Moltitudine, né si rifacevano a S. Francesco, ma alla “rude razza pagana”, sempre pronta, per virtù (taumaturgiche) intrinseche, ad imbracciare “il bastone” con cui “pestare” il “Capitale”. Quel che avveniva nel mondo, ivi compresa la guerriglia vietnamita, era di puro supporto, un “aiutino” alla rivoluzione che loro stavano preparando qui da noi. Qualcuno l’ha vista? Personalmente, ho visto solo i disastri terrificanti provocati da questi veri “Demoni” dostoevskijani, presuntuosi, superficiali, arroganti, sempre “stranamente” coadiutori delle manovre dei più reazionari gruppi capitalistici dominanti (sia in sede nazionale che internazionale; vedasi, più tardi, le tesi dell’Impero che si sono sforzate, per fortuna invano, di oscurare il predominio centrale statunitense). Si è trattato solo di intellettuali megalomani, e presi di sé, o di un fenomeno peggiore? Non mi sembra importante rispondere pur se io seguo il ben noto insegnamento andreottiano sul “pensare male”.
1 Tuttavia, pur in un contesto totalmente mutato, e dunque senza attese rivoluzionarie, che cosa si crede cerchino di ottenere le ultime Marx rénaissances, che vorrebbero riscoprire il grande pensatore – comunque rivoluzionario nell’epoca in cui visse e operò, soprattutto con la sua teoria –— quale banale anticipatore della “globalizzazione”, cioè della generalizzazione del mercato, comunque libero da intralci? Tesi perciò in fondo complementare rispetto al neoliberismo, alla smithiana “mano invisibile”. Ecco a che servono i finti elogiatori di un pensatore già rivoluzionario: a imbalsamarlo, a fargli scoprire “l’acqua calda”, a ridurlo ad un “classico minore”. Si ha a che fare con sostanziali reazionari, non con effettivi elogiatori di Marx; così come simmetricamente reazionari sono quelli che gli fanno scoprire “l’Uomo” tutto proteso alla “Calda Comunità” di intenti (e di sogni che riempiono di gioia i dominanti, nel vedere i finti oppositori dedicarsi al rimbecillimento di alcuni strati giovanili). E citiamo altri ancora, degni compari di “Carlo d’Inghilterra” che annuncia la fine del mondo tra 99 mesi (poteva almeno fare conto tondo a 100!) se tutti –— cioè i finti anticapitalisti ingannatori di giovani e inesperti cervelli –— non si gettano a capofitto sull’ambientalismo per distogliere l’attenzione dai problemi più impellenti.
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Rimango allibito quando vedo alcuni giovani, senz’altro generosi e intelligenti, già rovinati da vecchi tromboni solo in cerca di buoni posticini o forse semplicemente fuori di testa per le delusioni patite. Qui occorre una nuova generazione che faccia infine piazza pulita del vecchio armamentario novecentesco (in realtà, di un secolo fa; in certi casi due); quest’ultimo non deve essere dimenticato, solo utilizzato con assoluta libertà, senza più farsi paralizzare dai “mostri sacri”, intoccabili; e con la sensibilità per l’epoca che sta mutando. La vecchia “lotta di classe”, per favore, in soffitta e in un angolo fuori mano. Idem per C.O. (Classe Operaia). Attenzione massima alla situazione geopolitica, al conflitto multipolare che a mio avviso caratterizzerà almeno i due prossimi decenni; nessun oblio del conflitto per la redistribuzione del reddito, con difesa non del solo lavoro dipendente (salariato degli strati medio-bassi) ma anche dei corrispondenti livelli del lavoro “autonomo”. E speciale attenzione ai settori – economici, politici, culturali – che possano eventualmente favorire una maggiore autonomia del paese (e dell’area della formazione mondiale) in cui siamo situati. Settori che francamente mi sembrano oggi assai deboli, pressoché invisibili; non per questo, però, dobbiamo smettere di “cercarli” poiché ci comportiamo pur sempre da portatori soggettivi, che si assumono la responsabilità di andare anche controcorrente con tutti i possibili rischi di fallimento.
Finito il 29 aprile 2009
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