CRISI, SVILUPPO, TRASFORMAZIONE E TRAPASSO D’EPOCA di G. La Grassa

Presentazione di G. P.

Come preannunciato in un breve articolo pubblicato sul blog qualche tempo fa (La matrice della crisi è geopolitica), vi propongo, finalmente, l’ultimo saggio di Gianfranco La Grassa. Ritengo importante questo lavoro perché fornisce un’analisi approfondita della crisi in corso la quale rappresenta, quasi certamente, un punto di svolta storico, ovviamente non nel senso in cui è stato inteso dai soliti catastrofisti-becchini o dai demagoghi di sistema (queste due schiere di “profeti” del nostro tempo in fasulla tenzone ma sempre legati da una forte solidarietà antitetico-polare in favore di committenti comuni) che approfittano di ogni situazione di trapasso d’epoca per confondere i dominati, “lavorandoli” ad entrambi i fianchi, con le loro bizzarrie moralistiche o favolistiche, in ogni caso senza alcun fondamento scientifico.

Il punto di partenza della disamina lagrassiana coincide con un indispensabile spostamento del centro di gravità nella lettura e spiegazione degli attuali sconvolgimenti sociali (economici e politici), in rapido dispiegamento: pur tenendo in debita considerazione gli aspetti meramente fenomenici della crisi – pesantemente “reali” – coincidenti con la caduta degli indici di borsa e con l’esplodere della debacle sistemica a livello economico-finanziario, è il mutamento dei rapporti di forza tra le diverse formazioni sociali nel campo capitalistico (da intendersi quale comune orizzonte riproduttivo che però contempla molte differenziazioni e specificità nazionali o di area) a generare una serie di terremoti (le crisi) sulla superficie della società.

Già questo dovrebbe aprirci la mente sulla necessità di  declinare l’attuale articolazione capitalistica mondiale al plurale perché essa si compone di tante “morfologie” e progetti di sviluppo – sebbene le forme generali attraverso cui gli obiettivi economici vengono definiti e raggiunti siano le stesse per tutti (impresa e mercato) – tutt’altro che omogenei. E non si tratta solo del maggior dirigismo statale che, al momento, come rilevato da molti osservatori, starebbe favorendo la più pregnante performatività di quei paesi, (soprattutto dell’area Est-asiatica) in forte recupero di potenza geopolitica. Lo stesso dirigismo, per esempio, in altro contesto storico e in corrispondenza di ben altra “impalcatura” ideologica, aveva favorito una più vasta e accelerata stagnazione economica, accompagnata da incipienti fenomeni di burocratizzazione a tutti i livelli amministrativi.

Tuttavia, tornando al discorso precedente, anche in questo caso, dobbiamo affermare che pur costituendo ogni crisi un unicum da valutare e sceverare nella sua peculiarità e nei suoi effetti distintivi, essa si manifesta primieramente nella sfera finanziaria (e questa è invece una costante sistemica), a conferma dell’ipotesi per cui tale ambito, per ragioni strutturali, è il più esposto a fenomeni di avvitamento e di crollo. Tutto ciò era già stato descritto da Marx con riferimento alle ricorrenti crisi monetarie e finanziarie dell’ottocento: fin quando il carattere sociale del lavoro si presenta come l’esistenza monetaria della merce, e quindi come una cosa estranea alla effettiva produzione (sulla quale comunque finisce per esplicare i suoi effetti), le crisi sono inevitabili. Ma non solo di questo si tratta (il Moro, difatti,  legge la crisi da un punto di osservazione strettamente economicistico) perché se allarghiamo la visione critica sull’insieme capitalistico riscontriamo che i terremoti finanziari e produttivi originano dallo scontro più profondo tra placche (formazioni sociali) che puntano all’incremento della propria potenza in uno spazio geopolitico.

Dunque, non è possibile comprendere le società capitalistiche senza studiarne l’articolazione in orizzontale (segmentazione tra agenti decisori nell’estensione internazionale) e in verticale (stratificazione e divisione dei corpi sociali costituenti l’ossatura di ogni specifica formazione). Tenendo conto di questa descrizione diviene più difficile cadere nelle generalizzazioni che ingannano la vista e che portano a commettere grossolani errori di valutazione. Citando direttamente dal testo di La Grassa: <<Per capire veramente le crisi, sarebbe necessario non tener conto esclusivamente di quelle che colpiscono il capitalismo considerato in generale; importante diventa invece l’individuazione delle diverse formazioni particolari in cui si articola quella mondiale. Nell’evoluzione, con trasformazione, di quest’ultima, sono presenti ulteriori e diverse ricorsività che ho denominato epoche o fasi di mono e policentrismo. I “terremoti” di maggior entità – prima finanziari e poi anche reali o produttivi – sono in genere sintomi del progressivo avvicinamento ad una fase policentrica, come sta accadendo nel presente in cui siamo già, a mio avviso, nel multipolarismo, essendo fallito il disegno degli Usa di comandare il mondo intero (creazione di un Impero). Inutile predire qualche “big one” del tipo delle novecentesche guerre mondiali; ci si farebbe cattiva figura.

L’importante è afferrare a grandi linee quali sono le tendenze in atto e non invece immaginare ossessivamente la morte di un organismo a causa della sua crisi definitiva. Al massimo, si è finora assistito storicamente a “crisi di crescenza”, spesso sotto forma di eventi politico-militari di prima grandezza – il conflitto policentrico per la supremazia – che fanno passare ad un successivo monocentrismo, quindi ad una nuova forma di capitalismo (una nuova formazione capitalistica) caratterizzante la maggior parte, o comunque quella più rilevante e sviluppata, del globo.>>

Sostanzialmente, ci troviamo non di fronte alla fine del capitalismo tout court ma all’imbocco di una nuova epoca che si annuncia sovraccarica di tensioni e di mutamenti. Specialmente, tali sconvolgimenti attraverseranno ogni sfera sociale dando impulso a processi di innovazione/trasformazione che modificheranno la geografia di tutto lo spazio sociale capitalistico, fino a giungere ad una diversa configurazione degli assetti geopolitici mondiali e probabile trapasso da una formazione sociale (quella di matrice americana dei funzionari del capitale) ad un’altra di simile “fisionomia” economica ma di diversa specie politica (rispetto alla quale ancora poco si può affermare).

Messa la questione in questi termini ci rendiamo conto di quanto siano parziali le vecchie concezioni (marxiste, keynesiane, liberiste) che conchiudono nel solo orizzonte economico il processo trasformativo in atto, di cui la crisi costituisce l’elemento di imprescindibile negatività. Per tale ragione, sostiene La Grassa, <<Nel capitalismo, pur giustamente considerato nella sua spazialità e non nella mera temporalità, lo sviluppo è strettamente connesso al conflitto che distrugge e trasforma; dunque la crisi – che è distruzione e trasformazione, pur quando tali fenomeni siano rilevati quasi  esclusivamente nella sfera economica (finanziaria e produttiva, monetaria e reale) – nasce dal conflitto ed è immanente al sistema; essa è il “negativo” che lavora, muta, rilancia il “positivo” >>.

Lo svolgimento descritto non sarà certo lineare, così come i suoi esiti, per nulla scontati né prevedibili, se non in minima parte. Le forze più retrive e in perdita di posizioni dell’area capitalistica ancora dominante (quelle germogliate nella scorsa fase politica e nelle rivoluzioni tecniche e scientifiche della precedente epoca storica, oggi più che mai abbarbicate, per la propria sopravvivenza, al modello egemonico americano in progressivo disfacimento) tenteranno, in ogni modo, di ostacolare il cambiamento, di preservare il proprio potere cementando convergenze trasversali e rinsaldando alleanze sempre più eteroclite nel proprio campo di riferimento (cioè nelle varie sfere in cui suddividiamo idealmente la società capitalistica). Soprattutto, i dominanti del paese centrale useranno la loro influenza, benché in lenta rovina, per frenare questi fenomeni trasformativi i quali potrebbero presto renderli non più protagonisti assoluti (per quanto, per un lungo periodo di transizione, in probabile coabitazione con altre potenze in risalita) della prossima fase in avanzamento. Non sorprende, allora, che i decisori del paese ancora centrale possano fare maggiori concessioni agli agenti subdominanti europei, ormai avvoltolati al peggiore reazionarismo nell’estremo tentativo di resistere alla loro sorte. Si assisterà, pertanto, ad un sforzo serrato di cooptazione delle vecchie forze sociali, politiche, economiche subdominanti ai piani egemonici della nazione predominante (ma “claudicante”), e con sempre minori vantaggi per le prime. Tutto ciò è già accaduto alla fine dell’epoca monocentrica inglese con gli junker, i proprietari della piantagioni del sud degli Usa ed i gruppi politici autoctoni che dovevano alla “corona” le loro fortune (chissà che anche il tappeto rosso steso da Obama ai manager della Fiat, una delle imprese più parassitarie del nostro sistema-paese, non sia parte di una strategia di questo tipo).

Concludendo e rinviandovi alla lettura dello scritto di La Grassa, ritengo imprescindibile, per una più efficace comprensione dei tempi futuri, riorientare gli strumenti teorici a nostra disposizione (ma nell’attesa di poterne costruire di più adeguati) al conflitto nello spazio capitalistico tra formazioni mondiali per la conquista della supremazia. Occorre, infine, uscire dall’angusta prospettiva economicistica (nelle sue varianti pro o contro il sistema), perché essa è del tutto riduttiva e fuorviante per la comprensione dell’epoca in gestazione, avendo esaurito le residue capacità di illuminarci sul nostro mondo.