DA KEYNES ALLA IDEOLOGICA DOMANDA DEI CONSUMI di G. Duchini

          

        

    Il modello statal-liberista proposto da Keynes nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della Moneta” (del 1936) contese agli economisti  classici (J. S. Mill, Marshall, Pigou,  seguaci di Ricardo, da "GUIDA ALL’ECONOMIA KEYNESIANA di Dudley Dillard
ed.Universale Etas, pg. 24, nota 1.)
l’idea che l’occupazione sia determinata dalla “Domanda Effettiva” e non dalla contrattazione salariale, in quanto un aumento del volume monetario a sostegno degli investimenti pubblici avrebbe garantito la stessa prosperità; un sostanziale scostamento del “laissez faire” dalla tradizionale “Mano Invisibile” (senza tuttavia l’abbandono del liberismo che continua a essere la base della costruzione del sistema teorico keynesiano), in combinazione ad un  dirigismo statalista nel periodo dei grandi interventi di spesa pubblica (vedi Roosveelt degli anni ’30), rappresentò lo schema pratico di riferimento di tutti governi occidentali per un maggiore intervento dello Stato  da adottare nei periodi di recessione.

   Alla base del volume della massa finanziaria che compone la Spesa Pubblica keynesiana stanno le tre variabili indipendenti dei, Consumi, Investimenti, Tassi di Interesse (1); la scelta tra queste tre variabili viene fatta, secondo Keynes,  per una “programmazione economica” al fine di determinare le “politiche concrete” nei confronti della disoccupazione; in pratica quale deve essere la terapia d’urto per garantire l’occupazione, con gli strumenti a disposizione dei consumi, degli investimenti e dei tassi di interesse, con una motivazione più di fondo che pervade il pensiero di Keynes: come garantirsi dalle gravi crisi economiche che incidono talvolta in modo irreparabile sul livello dell’occupazione? Questo perché “lo scopo finale è quello di scegliere quelle variabili che possono venire appositamente controllate o regolate dall’autorità statale senza variare sostanzialmente il sistema economico in cui viviamo;” espressione che rappresenta in sintesi, la filosofia sperimentale di Keynes, vale a dire come intervenire nei conflitti sociali in periodi di gravi crisi,  cercando al contempo di risolverli entro il sistema sociale di riferimento.

    La salvaguardia dei sistemi economici-sociali rappresenta una linea di confine irrinunciabile nei periodi di crisi, nell’evocazione salvifica dell’interventismo pubblico che, come un’araba fenice, aleggia in tutti i governi europei attraverso il sostegno finanziario ai sistemi bancari insieme a quelli industriali (della passata generazione); e con ciò, un acuirsi dei conflitti sociali dovuti ad una riduzione drammatica della manodopera, come effetto ulteriore dell’intreccio perverso dei  precetti neokeynesiani (di spesa pubblica) inarrestabili, alla stregua di un treno in corsa, nel foraggiare gli inefficienti poteri burocratici statalisti (vedi Maanstricht), insieme ai gruppi di pressione di politiche di vario genere poste a difesa di  economie assistite  e forzatamente subordinate agli interessi Usa.

    Sul problema delle “crisi” del Capitalismo (che a memoria d’uomo, almeno nei suoi effetti dirompenti, se ne sono viste fino a oggi almeno tre, per non aggiungere tutti le fasi depressive-recessive succedutesi nello stesso  periodo durato circa 150 anni ) si è creato un intreccio ideologico  inestricabile del tipo (neo)keynesimo-marxismo-liberismo, con  accordi politici  o bi(tri)partisan, in auge da un tempo così lungo (troppo) tra i governi europei; a ciò si aggiungono vagheggiamenti “tecnicisti” (interventi finanziari) discussi in conventicole politiche, i cui risultati sono legati più agli scongiuri che al  buonsenso; in tutto questo, la decomposizione sociale è in uno stato così avanzato, che si invoca ormai quotidianamente la necessità di soccorsi urgenti nei confronti  del “popolo dei consumatori” (così ironicamente chiamato) i cui consumi sono ridotti al lumicino, almeno per la parte maggiore della popolazione.

    Si continua a ripetere da più parti che il sostegno alla domanda dei consumi (definita con un certo eufemismo “crisi dei consumi”) è la vera architrave da cui far ripartire l’economia , nella speranza che un suo incremento possa dar luogo ad un effetto moltiplicatore sugli investimenti e con questi  rimettere tutto in movimento. Un sostanziale rovesciamento di posizione dove gli investimenti diventano effetto e non causa per una ripresa dello sviluppo. E anche qui una conveniente forzatura ideologica per continuare ad insistere sul più facile versante dei consumi, onde continuare a gestire  l’esistente; una volta ancora (e per quante volte?) si richiama il buon Keynes, a sostegno della domanda (dei consumi) dimenticando una serie di cosette, non del tutto irrilevanti; anzitutto, gli interventi di spesa pubblica, invocati durante gli anni ’30, per interrompere la crisi e far ripartire l’economia, ebbero il loro pieno effetto soltanto alla fine di una guerra mondiale (come si comincia ad ammettere da più parti), anche perché la spesa pubblica in Usa doveva salvaguardare la propria grande industria (civile e militare) cresciuta in parallelo al rafforzamento della propria “formazione particolare,” e dispiegata in tutta la sua potenza nel secondo dopoguerra, in sostituzione all’Impero inglese ed in contemporanea  (su)divisione tra i due blocchi contrapposti, Est-Ovest.  

    Gli Usa ebbero ovvi effetti benefici dal proprio statalismo, con caratteristiche completamente diverse da quelle europee; il mito dello Stato Sociale(Welfare) non fu introdotto in Usa e non si identificò con le politiche sociali europee (si pensi soltanto alle privatizzazioni del sistema sanitario, del sistema scolastico Usa); in Europa, al contrario, l’intervento pubblico in economia si condivise  tra  due politiche stataliste, volte da un lato, alla ricostruzione industriale distrutta dalla guerra le cui imprese entrarono in competizione globale, sotto  l’occhio vigile  del paese dominante (Usa), dall’altro, al sostegno  di  un economia sociale (Welfare)

   Un deficit di analisi storica, dovuto a supponenze ideologiche rimaste così a lungo, in Europa,  alimentò scelte politiche economiche finalizzate a coesioni sociali (Welfare) che i paesi europei furono costretti a garantire, per la presenza al proprio interno di partiti comunisti e laburisti; un tramite politico di quest’ultimi, fin troppo conveniente (e facile) per le classi dominanti, nel sostenere di volta in volta la destra o la sinistra nel mito del Capitalismo di Stato (anticamera del socialismo per tutti i comunisti e socialisti occidentali), da contrapporre al Socialismo dei paesi dell’Est. Più di un dubbio ci assale quando le cosiddette crisi  si affrontarono tutte le volte (da oltre cento anni) con gli stessi identici interventi: la Spesa Pubblica deve innalzare la riduzione della domanda dei consumi onde far ripartire l’economia; quest’ultimo è un convincimento  ideologico volto prevalentemente ad una  tenuta (coesione) della società  che ricorda l’insieme degli archetipi sociali  nelle  brillanti descrizioni che Weber fa delle “classi, dei ceti e dei censi” che compongono l’insieme delle comunità politiche.

    Possiamo infine aggiungere, un ulteriore deficit nella ricerca che riguarda il problema dell’induzione scientifica nel campo delle scienze sociali. L’ideologica crisi della domanda dei consumi, elevata a soluzione salvifica di tutta l’economia e per una ripresa dello sviluppo, nasconde, una allocazione storica delle politiche suindicate, che dà vita ad un vero e proprio pregiudizio gnoseologico. Tutto il pensiero delle scienze economiche e sociali “è pervaso dall’esigenza di elementi immutabili, mentre d’altro lato il dato empirico delude continuamente questa richiesta;”: soltanto illusioni, rinnovate continuamente nello spettacolo  del “sostegno ai consumi” per l’uscita dalla crisi come se il problema fosse originato nella solo sfera economica.

Ammesso e concesso che gli interventi monetari e finanziari possano servire per tamponare la crisi si tratta quasi esclusivamente di palliativi rispetto a problemi ben più profondi. Quest’ultimi riguardano gli assetti di potere tra decisori dominanti nell’ambito della formazione capitalistica globalmente intesa, con scontro per l’egemonia e per il controllo di intere aree d’influenza tra gruppi (nazionali) dominanti al fine della supremazia mondiale.

 

 

G.D. Dicembre ‘08

  (1)   La “teoria economica” keynesiana è stata anzitutto, una macroeconomia in contrapposizione alla microeconomia della teoria classica tradizionale e parte dal seguente assunto: un grande aggregato del Reddito Nazionale  denominato Domanda Effettiva (Y) è composto  da C+I, dove C rappresenta l’ammontare della spesa in consumi, I l’ammontare della spesa complessiva di beni di Investimenti degli imprenditori privati. C’è la possibilità di intervenire separatamente all’interno dei singoli aggregati: si può intervenire su C per mantenere un certo livelli di consumi, oppure su I per garantire un certo volume di investimenti di capitali. Su quest’ultimo aggregato di investimenti il livello è deciso dalla variazione del “Tasso di interesse” cioè dalla possibilità  di ingrossare la moneta in circolazione; la politica keynesiana mira sostanzialmente a ridurre i valore reale della moneta per diminuire le disponibilità al risparmio e favorire con questo l’afflusso della moneta nelle mani degli imprenditori e dello Stato. Se questo afflusso di denaro non è sufficiente a far ripartire gli investimenti privati, interviene lo Stato che immette investimenti in infrastrutture (strade, ferrovie…) in Deficit di Bilancio cioè in crescita di debito stampando moneta tramite le Banche Centrali. Il circolo virtuoso economico-monetario, così creato, fa aumentare la domanda di beni di consumo come effetto della maggiore offerta di beni dovuta a investimenti di capitali in corrispondenza alla crescita di domanda creatasi, e con ciò far ripartire l’economia.