E LA CINA VA…. a cura di GLG

Uno dei giornalisti a mio avviso più informati e di buon senso (ed equilibrio) è Marcello Foa di cui mi piace pubblicare un altro articolo riguardante le prospettive future della Cina, avviata – con almeno il 90% delle probabilità – a divenire uno dei principali poli della prossima epoca multipolare. Mi permetto soltanto una perplessità. C’è forse oggi un’eccessiva propensione a enfatizzare il lato economico della potenza di un paese. Sembrava che l’economicismo fosse prerogativa di un certo “marxismo”; invece sembra assai più diffuso. Credo sia però da evitare. La Cina ha comunque potenzialità maggiori di quelle basate sulla finanza. Il resto della sua economia, pur in accentuato sviluppo, non è ancora al livello di quella dei paesi capitalisticamente avanzati; ma la sua forza politica è però senz’altro ragguardevole e in continua crescita.

La mia impressione è comunque che la Russia, malgrado sia in questo momento intralciata senza dubbio dal forte ribasso del prezzo del petrolio (e dunque del gas, ecc.), sarà al primo posto fra i possibili poli in competizione con quello, ancora preminente, rappresentato dagli Stati Uniti. Come ha rilevato criticamente Jacques Sapir, nel suo recente libro sul XXI secolo (non tradotto in italiano), si crede troppo facilmente che la sola (o quasi) risorsa russa sia quella relativa all’energia (da idrocarburi). Non è affatto così, come lo stesso Sapir dimostra con buona documentazione; di ciò ci accorgerà piuttosto presto. Comunque, questo è un discorso troppo lungo, adesso superfluo per presentare l’articolo qui sotto riportato; che resta un bell’articolo, illuminante. A mio avviso, merita la lettura.   

 

LA CINA CONQUISTA IL MONDO di Marcello Foa (Il Giornale, 27/4/09)

 

A lanciare l’allarme è stato il ministro delle Finanze della Corea del Sud, un mese fa: la Cina sta approfittando della crisi finanziaria per espandere la propria influenza nel mondo. E lo fa senza dare nell’occhio, ma con notevole efficacia, al punto che secondo alcuni osservatori sta proponendo un nuovo modello di sviluppo, destinato a rivaleggiare con quello anglosassone, meglio noto come «Washington consensus», la cui formula è nota, ma sempre meno popolare: privatizzazioni, libero commercio, diminuzione del ruolo dello Stato e deregolamentazione.

Pechino, invece, propone un approccio che, senza rinnegare l’economia di mercato, è più politico. Lo studioso cinese Cheng Enfu, citato recentemente dalla Washington Post, lo descrive così: lo Stato mantiene una presenza importante in alcuni settori strategici; incoraggia riforme graduali preferendole alle terapie di choc; partecipa al commercio mondiale ma mantenendo come riferimento e risorsa primaria l’economia interna. Infine, non antepone i cambiamenti culturali e politici allo sviluppo dei mercati su ampia scala. Come dire: si può essere consumisti mantenendo la propria identità e, soprattutto, senza concedere democrazia e libertà. Un modello, battezzato «consenso di Pechino», che risulta seducente non solo per i danni provocati da Wall Street, che ha eroso la credibilità della Casa Bianca, ma innanzitutto perché sostenuto da una risorsa ormai rara: la disponibilità finanziaria. La Cina è uno dei pochi Paesi a disporre di ingenti riserve valutarie, che da qualche mese usa in maniera più articolata. Per rilanciare l’economia interna? Certo, ma non solo. Pechino compra meno Treasury bonds americani, mentre aumenta rapidamente le riserve d’oro e, soprattutto, gli aiuti ai Paesi internazionali. Non solo in Africa dove, da tempo, sottrae zone d’influenza agli Stati uniti e alla Francia.

Fino a qualche tempo fa, i Paesi in difficoltà potevano contare solo sull’aiuto degli Usa, diretto o tramite il Fondo monetario internazionale. Ma l’America, indebolita dalla recessione, non può più rispondere agli Sos altrui; Pechino, invece, sì. E generosamente, anche con Stati tradizionalmente amici di Washington. Ad esempio, la piccola e lontana (da Pechino) Giamaica, che qualche settimana fa era sull’orlo del fallimento. I cinesi l’hanno salvata accordandole un prestito da 128 milioni di dollari. Nell’America Latina hanno stretto rapporti economici privilegiati con il Venezuela (ricco di petrolio), la Bolivia (per le materie prime), strizzano l’occhio al Brasile e hanno aderito all’Inter-American Development Bank, la banca che promuove lo sviluppo economico nel Sud e nel centro America, nelle vesti di Paese donatore.

La stessa strategia viene applicata nel cortile di casa, ovvero in Asia e con Paesi importanti come il Kazakhstan e persino la Russia, dove molte società petrolifere azzoppate dal crollo delle quotazioni del greggio hanno trovato i fondi necessari per sopravvivere a Pechino anziché ad Alma Ata o a Mosca. Le cifre investite non sono enormi – 10 miliardi di dollari ai kazakhi, 25 ai russi – ma sufficienti per stabilire nuovi, insperati legami. L’espansionismo cinese avviene a prezzi di saldo e nell’ambito di un progetto a lungo termine che mira a modificare gli equilibri della finanza internazionale. Già perché Pechino concede i prestiti non più solo in dollari, ma anche in yuan. E negli ultimi cinque mesi ha firmato accordi valutari per 95 miliardi di dollari con sette Paesi, che, in cambio, hanno convertito in valuta cinese una parte delle proprie riserve. Pechino è in agguato e si rafforza, mentre l’America, nonostante Obama, soffre.