Elezioni, Presidenza e Politica Estera di George Friedman

Styled_logo


[Traduzione di Piergiorgio Rosso da: The Election, the Presidency and Foreign Policy | Stratfor]

La presidenza americana è destinata a deludere. Ogni candidato deve promettere cose che vanno al di là della sua possibilità di mantenere. Nessun candidato potrebbe aspettarsi di essere eletto, sottolineando quanto poco potere ha l’ufficio in realtà e come gli elettori dovrebbero quindi aspettarsi poco da lui. Così i candidati promettono grandi programmi di trasformazione. Ciò che il vincitore è effettivamente in grado di fare dipende da ciò che permettono le altre istituzioni, le altre nazioni e la realtà. Anche se il divario tra promesse e realtà distrugge i candidati immodesti, dal punto di vista dei padri fondatori, esso protegge la repubblica. Essi non confidavano in alcun governo in generale e nell’ufficio del presidente in particolare. Il Congresso, la Corte Suprema e il Consiglio della Federal Reserve, tutti circoscrivono il potere del presidente sugli affari quotidiani. Questo, e l’autorità degli Stati, limitano notevolmente il potere del presidente, così come i fondatori del paese avevano previsto. Per ottenere qualcosa di sostanziale, il presidente deve creare una coalizione di interessi politici per modellare il processo decisionale in altri rami del governo. Eppure, allo stesso tempo – e questo è il paradosso principale della cultura politica americana – la presidenza è vista come una istituzione decisiva e la persona in possesso di questo ufficio è considerato avere un’importanza primaria.

Vincoli nell’arena della politica estera

Il presidente ha un po’ più autorità in politica estera, ma solo marginalmente è così. Egli è intrappolato dalla pubblica opinione, dalle intrusioni del Congresso, e soprattutto, dalle realtà della geopolitica. Così, mentre durante la sua campagna presidenziale del 2000, George W. Bush ha parlato con veemenza contro il nation-building, una volta in carica, ha fatto proprio questo (e proprio con le conseguenze da cui aveva messo in guardia durante la campagna elettorale). E indipendentemente da come aveva modellato la sua politica estera durante il suo primo mandato, gli attacchi del 11/9/2001 hanno definito la sua presidenza. Allo stesso modo, Barack Obama ha fatto campagna elettorale sulla promessa di ridefinire il rapporto dell’America con l’Europa e il mondo islamico. Non successe niente. E ‘stato ampiamente e correttamente notato quanto poco la politica estera di Obama si fosse differenziata da quella di George W. Bush. Non è che Obama non avesse intenzione di fare una politica estera diversa, ma semplicemente che quello che il presidente vuole e ciò che effettivamente accade sono cose molto diverse.

Il potere spesso attribuito alla presidenza degli Stati Uniti è sovrastimato. Ma anche così, la gente – inclusi i dirigenti – ancora prendono quel potere molto sul serio in tutto il mondo. Vogliono credere che qualcuno abbia il controllo di ciò che sta accadendo. Il pensiero che nessuno possa controllare qualcosa di così vasto e complesso come un paese o il mondo, è un pensiero che spaventa. Anche le teorie del complotto offrono questo conforto, in quanto presuppongono che, se il male può governare il mondo, almeno il mondo è governato. C’è, naturalmente, un punto di vista alternativo, vale a dire che, mentre nessuno è in realtà alla guida, il mondo è ancora prevedibile se si comprendono le forze impersonali che lo guidano. Questo è un concetto scomodo e inaccettabile per coloro che vorrebbero fare la differenza nel mondo. Per queste persone la corsa presidenziale – come le dispute politiche in tutto il mondo – sono di grande importanza.

In definitiva, il presidente non ha il potere di trasformare la politica estera degli Stati Uniti. Invece sono gli interessi americani, la struttura del mondo e le limitazioni del potere a determinare la politica estera.

Nel senso più ampio, l’attuale politica estera degli Stati Uniti è in vigore da circa un secolo. Durante tale periodo, gli Stati Uniti hanno cercato di bilanciare e riequilibrare il sistema internazionale per contenere le potenziali minacce nell’emisfero orientale, che è stato lacerato dalle guerre. L’emisfero occidentale in generale, e il Nord America in particolare, non lo è stato. Nessun presidente potrebbe mai rischiare di permettere al conflitto di entrare in Nord America.

A un certo livello invece, i presidenti contano: la strategia che essi perseguono per mantenere l’emisfero occidentale libero da conflitti, è rilevante. Durante la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti sono intervenuti dopo che i tedeschi cominciarono a minacciare le rotte atlantiche di navigazione e poche settimane dopo la caduta dello zar. A quel punto della guerra, il sistema europeo sembrava in procinto di diventare squilibrato, con i tedeschi che potevano dominarlo. Nella seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno seguito una strategia simile, permettendo al sistema sia in Europa e in Asia di diventare squilibrato prima di intervenire. Questo è stato chiamato isolazionismo, ma è una descrizione semplicistica della strategia di contare sulla capacità autonoma di correggersi del bilanciamento di poteri, ed intervenire solo in ultima istanza.

Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno adottato una strategia opposta nel mantenere attivamente l’equilibrio delle forze nell’emisfero orientale, attraverso un processo di intervento continuo. Va ricordato che i morti americani nella Guerra Fredda furono circa 100.000 (compresi Vietnam, Corea e conflitti minori) contro circa 116.000 morti degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, dimostrando che, lungi dall’essere fredda, quella guerra fu una lotta violenta.

La decisione di mantenere il bilanciamento in modo attivo era una risposta a ciò che si presumeva essere stato un fallimento della politica seguita nella seconda guerra mondiale. L’argomento era che l’intervento preventivo avrebbe impedito il crollo dell’equilibrio europeo e forse bloccato l’avventurismo giapponese; in definitiva esso portò [durante la Guerra Fredda – NdT] ad un minor numero di morti rispetto ai 400.000 che gli Stati Uniti soffersero in quel conflitto. Dopo la seconda guerra mondiale emerse un consenso generale sull’opinione che un atteggiamento “internazionalista” di bilanciamento attivo era superiore nel permettere che la natura facesse il suo corso, nella speranza che il sistema si sarebbe mantenuto in equilibrio. La guerra fredda è stata combattuta sulla base di questa strategia.

La fine del consenso sulla Guerra Fredda

Tra il 1948 e la guerra del Vietnam, questo consenso tenne. Durante il periodo del Vietnam, tuttavia, emerse nel Partito Democratico il punto di vista secondo cui la strategia di bilanciamento attivo aveva in realtà destabilizzato l’emisfero orientale, causando conflitti inutili e alienando il favore di altri paesi. Questo punto di vista sosteneva che il bilanciamento attivo aveva aumentato la probabilità di un conflitto, causava la formazione di coalizioni anti-americane, e, cosa più importante, esagerava il rischio di un sistema sbilanciato e le conseguenze di uno squilibrio. Il Vietnam era additato come un esempio di bilanciamento eccessivo.

La contro-argomentazione era che, mentre il bilanciamento attivo poteva generare alcuni conflitti, la prima e la seconda guerra mondiale avevano mostrato le conseguenze del consentire all’equilibrio di poteri di fare il suo corso. Questo punto di vista sosteneva che non impegnarsi in attività di bilanciamento anche violento con l’Unione Sovietica, avrebbe aumentato la possibilità di un conflitto e nelle peggiori condizioni possibili per gli Stati Uniti. Così, anche nel caso del Vietnam, il bilanciamento attivo impediva peggiori conseguenze. La discussione tra chi voleva che il sistema internazionale raggiungesse l’equilibrio da solo e l’argomento di coloro che volevano che gli Stati Uniti gestissero attivamente l’equilibrio, imperversò fino alla corsa di George McGovern contro Richard Nixon nel 1972.

Se esaminiamo attentamente le dichiarazioni di Obama durante la campagna elettorale del 2008 e i suoi sforzi una volta in carica, vediamo che egli ha tentato di spostare la politica estera statunitense lontano dal bilanciamento attivo a favore del consentire che equilibri regionali di potere si mantenessero da se stessi.

Non si è mosso tutto d’un tratto verso questa politica, come molti dei suoi sostenitori volevano. Invece l’ha facilitata, aumentando nello stesso tempo gli sforzi americani in Afghanistan, mentre si disimpegnava da altre parti nella misura in cui il sistema politico statunitense ed i processi globali lo consentivano.

Gli sforzi di Obama per allontanarsi dalla strategia del bilanciamento attivo del sistema si sono visti in Europa, dove ha fatto pochi tentativi per stabilizzare la situazione economica, e in Estremo Oriente, dove, a parte limitati riposizionamenti militari, ci sono stati pochi cambiamenti. Anche la Siria mette in luce il suo movimento verso la strategia di basarsi su bilanciamenti regionali. La sopravvivenza del regime del presidente siriano Bashar al Assad sbilancerebbe la regione, creando una sfera d’influenza iraniana significativa. La strategia di Obama è stata di non intervenire, al di là del fornire un supporto segreto limitato all’opposizione, ma piuttosto di consentire all’equilibrio di forze regionali di affrontare il problema. Obama si aspettava che sauditi e turchi bloccassero gli iraniani, minando al Assad, non perché gli Stati Uniti glielo chiedevano ma perché era nel loro interesse farlo.

Il punto di vista di Obama si basa su quello dei critici della strategia della Guerra Fredda di bilanciamento attivo, che sostenevano che in assenza di una grande potenza eurasiatica che minacci l’egemonia emisferica, l’intervento degli Stati Uniti genera in realtà coalizioni anti-americane e fa sorgere proprio quel tipo di minaccia che gli Stati Uniti temono quando decidono di intervenire attivamente. In altre parole, Obama non crede che le lezioni apprese dalla prima e dalla seconda guerra mondiale si possano applicare all’attuale sistema globale e crede che, come in Siria, il potere globale debba lasciare la gestione del bilanciamento regionale ai poteri locali.

Romney e il bilanciamento attivo

Romney ritiene che il bilanciamento attivo sia necessario. Nel caso della Siria Romney sostiene che lasciando la soluzione del problema al sistema, Obama ha permesso all’Iran di sondare e poi ritirarsi senza conseguenze e non è riuscito a dare una soluzione reale al problema centrale. Tale questione fondamentale è che il ritiro Usa dall’Iraq ha lasciato un vuoto che l’Iran – o il caos – ha riempito, e che a tempo debito la situazione diventerà così minacciosa o instabile che gli Stati Uniti dovranno intervenire. Per ovviare a questo, Romney, durante la sua visita in Israele, ha invocato una soluzione decisiva al problema Iran, non per il solo contenimento dell’Iran.

Romney non è neanche d’accordo con il punto di vista di Obama secondo cui non c’è al momento una significativa forza euroasiatica di cui preoccuparsi. Romney ha citato il riemergere della Russia come una potenziale minaccia agli interessi americani degli Stati Uniti che richiede un intervento su vasta scala. Egli avrebbe anche sostenuto che se gli Stati Uniti dovessero decidere che la Cina rappresenti una minaccia, l’attuale livello della forza utilizzata per bilanciarla, sarebbe insufficiente. Per Romney, le lezioni delle due guerre mondiali e della Guerra Fredda, funzionano. Lasciare che l’equilibrio di potere faccia il suo corso ritarda solo l’intervento americano e aumenta il prezzo finale. Per lui, la Guerra Fredda è finita come è finita grazie al bilanciamento attivo da parte degli Stati Uniti, compresa la guerra se necessario. Senza il bilanciamento attivo, direbbe Romney, l’esito della Guerra Fredda avrebbe potuto essere diverso e il prezzo per gli Stati Uniti certamente sarebbe stato più elevato.

Ho anche la sensazione che Romney sia meno sensibile al giudizio globale che non Obama. Romney farebbe notare come Obama non sia riuscito ad influenzare l’opinione mondiale in alcun modo decisivo, nonostante le grandi aspettative in tutto il mondo per la presidenza Obama. Secondo Romney, questo accadrebbe perché soddisfare i desideri del mondo è impossibile, dal momento che sono contraddittori. Per esempio, prima della seconda guerra mondiale, l’opinione pubblica mondiale al di fuori delle potenze dell’Asse, erano risentite per il non intervento degli Stati Uniti. Ma durante la guerra fredda e le guerre jihadiste, l’opinione pubblica mondiale era risentita per l’intervento degli Stati Uniti. Per Romney, il risentimento globale non può essere una guida per la politica estera degli Stati Uniti. Se Obama sostiene che il sentimento anti-americano alimenta il terrorismo e le coalizioni anti-americane, Romney replicherebbe che sono l’ideologia, gli interessi e non i sentimenti, a guidare un dato paese ad opporsi alla potenza mondiale. Il tentativo di placare i sentimenti farebbe quindi deviare la politica degli Stati Uniti da un corso realistico.

Propaganda Retorica contro Realtà

Ho cercato di riassumere gli argomenti che ognuno dei due userebbe, se non fossero entrambi catturati in una campagna politica, in cui il loro obiettivo non è proporre una politica estera coerente, ma semplicemente mettere in imbarazzo l’altro e vincere voti. Mentre nulla suggerisce che questo sia un percorso inefficace per un candidato presidenziale, ciò ci costringe a guardare alle azioni ed alle allusioni per determinare le loro posizioni reali. Sulla base di tali azioni e allusioni, direi che il loro disaccordo sulla politica estera si riduce, basandosi più sul bilanciamento regionale che non sul bilanciamento attivo.

Ma non direi necessariamente che questa è la scelta che il paese si trova di fronte. Come ho sostenuto fin dall’inizio, la presidenza americana è istituzionalmente debole nonostante il suo enorme prestigio. E’ limitata costituzionalmente, politicamente e in ultima analisi dalle azioni degli altri. Se il Giappone non avesse attaccato gli Stati Uniti, non è chiaro se Franklin Roosevelt avrebbe avuto la libertà di fare quello che ha fatto. Se al Qaeda non avesse attaccato l’11 settembre, ho il sospetto che la presidenza di George W. Bush sarebbe stata molto diversa.

Il mondo dà forma alla politica estera statunitense. Tanto più attivo è il mondo, tanto meno scelte hanno i presidenti e meno rilevanti sono queste scelte. Obama ha cercato di creare uno spazio dove gli Stati Uniti possano svincolarsi dal bilanciamento attivo. In questo modo rientra nell’ambito dei suoi poteri costituzionali, e finora è stato anche politicamente possibile. Ma che il sistema internazionale gli permetterà di continuare su questa strada, in caso di sua ri-elezione, è una questione aperta. Jimmy Carter aveva una visione simile, ma la rivoluzione iraniana e l’invasione sovietica dell’Afghanistan l’hanno mandata all’aria. George W. Bush vide la sua opposizione alla politica del nation-building devastata dall’attentato dell’11 settembre e vide la sua presidenza schiacciata sotto il peso degli eventi che lui voleva evitare.

I Presidenti fanno la storia, ma non alle loro condizioni. Essi sono vincolati e sollecitati su tutti i lati dalla realtà. Nella scelta di un presidente è importante ricordare che i candidati dicono quello che devono dire per essere eletti, ma anche quando dicono cosa vogliono dire, non saranno necessariamente in grado di perseguire i loro obiettivi. La scelta di farlo semplicemente non è nelle loro mani. Ci sono due visioni abbastanza chiare di politica estera in queste elezioni. Quanto conterà il vincitore però non è chiaro, anche se conoscere le inclinazioni dei candidati, al di là della loro possibilità di perseguirle, ha un certo valore.

Alla fine, però, la presidenza degli Stati Uniti è stata progettata per limitare la capacità del presidente di governare. Può al massimo orientare, e spesso non può fare nemmeno quello. Mettere la presidenza in prospettiva ci permette di mantenere anche le nostre discussioni in prospettiva.

NOTA: The Election, the Presidency and Foreign Policy is republished with permission of Stratfor.