GIOCHICCHIANO GLI "SCIOCCHINI" di G. La Grassa

(a seguire "scenari da sfacelo" di G.P.)

Impegnerei 3-4 pagine di blog se riportassi le dichiarazioni di tutti i leader di sinistra (ivi compresa la sedicente “radicale”), anche soltanto negli ultimissimi mesi, tutte all’unisono basate su un unico concetto: “se il governo cade, si torna subito alle urne”. Questo leit-motiv serviva quale ricatto per i senatori recalcitranti a dare la fiducia ad un Prodi in continua involuzione/degenerazione fino a dimostrarsi il peggiore, più scombiccherato e incapace premier dell’intera storia d’Italia. In particolare, si ricordino le nette dichiarazioni in tal senso di D’Alema e Anna Finocchiaro; non esattamente aquile come si sostiene, ma pur sempre gli “orbi che sono re nella terra dei ciechi”. Adesso, non c’è un solo sinistro che non strepiti a sostegno della “responsabilità nazionale”, per cui è impossibile andare subito al voto (i “comunisti italiani” e i verdi, i più minchioni di tutti, chiedono addirittura il reincarico a Prodi).

D’Alema, al raduno della congrega denominata “italianeruropei”, ha invitato Berlusconi a pensare ai superiori interessi del paese e a non tentare rivincite, accettando il famoso governo istituzionale, favorito in questo dal presdelarep che sembra intenzionato a tirare per le lunghe con lo stesso scopo di evitare le elezioni. Il più chiaro segnale dell’imbroglio è fornito dagli ex Ds. L’altra sera a “Porta a Porta”, Fassino garantiva di non chiedere nulla più che una breve sosta per fare questa benedetta legge elettorale, ma solo per andare al voto in giugno invece che ad aprile. Oggi Veltroni chiede addirittura 8-10 mesi, forse anche un anno, per fare le “riforme” (non solo la legge elettorale). La gente probabilmente non segue nemmeno più queste astruserie, altrimenti l’indignazione non potrebbe non montare di fronte a tanta malafede e spudoratezza; questi sanno di essere annientati se si va al voto in due-tre mesi, chiedono tempo per far dimenticare le loro sozzerie.

Quando il loro governo metteva a terra il paese, quando tutti i sondaggi dimostravano che i tre quarti della popolazione erano a loro contrari, che si era ormai giunti allo stremo, nessuno di questi bellimbusti pensava ai supremi interessi della nazione staccando la spina all’ottuso premier; tutti presi dal loro particolare interesse di cosca al servizio dei topi che rodevano l’economia e il benessere degli italiani. Dare una pagella ai peggiori è impossibile; ognuno è peggiore dell’altro. Certamente, però, nemmeno i loro oppositori sono migliori. Di conseguenza, non ci sarebbe da sorprendersi se poi trovassero un accordo per rinviare decisioni da cui sono tutti terrorizzati poiché non sanno proprio che cosa fare.

Certamente, non penso che, a questo punto, l’indecente e meschino uomo di potere che fu Prodi riesca ad occupare – per conto dei suoi amici-padroni della finanza (Intesa ad esempio) – l’intero ventaglio dei posti di vertice negli apparati economici e politici, i cui titolari scadono entro pochi mesi (si parlava di almeno 600 nomine, adesso sembra che siano più di un migliaio). Destra e sinistra possono però spartirseli, cercando di fregarsi l’un l’altra, soprattutto confidando nella volubilità dei nuovi nominati, pronti a passare da una parte all’altra come hanno sempre fatto in questi anni. Intanto, il paese resterebbe “a mollo” in attesa di leggi elettorali “sicure”, che “garantiscano stabilità”, che ridiano credibilità alla cosiddetta Casta, ecc. Un’autentica “araba fenice”, esistente solo nelle menzogne di questi quaquaraqua.

Non sono in grado di capire se questo popolo è ancora capace di credere alle panzane; certo esiste lo zoccolo duro dei coglioni di sinistra, di quelli che ancora sono terrorizzati dal “fascismo” (sempre montante, da 14 anni a questa parte) di Berlusconi. Almeno un 25% di italiani appartiene alla schiera di questi coglioni; per liberarsene non bastano elezioni, sarebbe necessaria la fustigazione di uno su dieci (gli altri nove diventerebbero subito mansueti e “ragionevoli”). Tuttavia, ci sono poi quelli di destra, un altro zoccolo duro che crede sempre in un “malleabile” come Berlusconi; basta invece “accontentarlo” un po’, e diventa come cera, assume tutte le forme che si vogliono. Non c’è destra o sinistra che tenga, non si salva questo paese con simili imbroglioni e incapaci. Tuttavia, dietro i teatranti che si agitano sul palcoscenico, esiste una “classe dirigente” (economica) persino peggiore di loro. Ieri ha parlato proprio Il Peggiore: Montezemolo. Inutile riferire quello che ha detto; pregherei solo il responsabile del blog di inserire l’articolo odierno di Festa perché è esauriente. Purtroppo, quest’uomo sta riuscendo a farsi sostituire alla presidenza di Confindustria da una sua sodale che non credo proprio sia migliore di lui; rappresenterà quindi come al solito, ne ho la quasi certezza, il capitalismo assistito dallo Stato. L’Italia continuerà allora ad essere l’ultimo pezzo di “socialismo reale” (mentecatti quelli che credono sia invece la Cina, paese capitalistico in pieno sviluppo; pur se non è il nostro stesso tipo di capitalismo).

La nostra sfortuna è che le poche (troppo poche!) imprese “d’avanguardia” (Eni, Finmeccanica, Enel, Ansaldo, più frattaglie varie) sono per l’essenziale pubbliche; e dirette da apparati manageriali incapaci di fronteggiare con vigore una politica che, a sua volta, è asservita ai parassiti della finanza e dell’industria assistita (quella montezemoliana e dei suoi prossimi sostituti), con alle spalle la grande finanza americana. Quest’ultima, come spesso avviene, ha negli ultimi anni strafatto e si è così avvoltolata in operazioni che l’hanno messa in crisi; nell’insieme (in una prospettiva di medio periodo e per l’essenziale) funziona però da strumento di predominio del paese al momento ancora in buona parte centrale sul piano globale (pur se perde via via il suo “smalto”). Di conseguenza, noi ci troviamo in una situazione perversa, in cui siamo una sorta di “misto frutta” tra Repubblica di Weimar e paese europeo orientale all’epoca in cui esisteva il “campo socialista”.

Impossibile immaginare una condizione peggiore di questa. Per uscirne, occorrerebbe una vera “rivoluzione” che, al punto in cui siamo, dovrebbe prendere le mosse dalla sfera politica; ma che per realizzarsi compiutamente dovrebbe spazzare via – non tramite le elezioni, tanto meno con governi(cchi) di “responsabilità nazionale” – l’intero quadro politico attuale, cominciando però dalla sinistra, che è evidentemente la maggiore responsabile della suddetta condizione. Infatti, il “cattocomunismo” (l’unione di falso cattolicesimo e falso comunismo, due fondamentalismi che confluiscono in uno Stato autoritario, ma inefficiente, incapace di sintesi sociale, servo dei ceti più parassitari) è precisamente una mostruosa mescolanza di “socialdemocrazia” (responsabile del “weimarismo”) e di “comunismo”, cioè piciismo, responsabile di quella rassomiglianza con il “socialismo reale”, dovuta all’assistenza “pubblica” fornita al capitalismo “montezemoliano” e “bazoliano”; sia chiaro che i nomi personali contano poco, li uso solo per rendere più immediata e quasi visiva la percezione di un fenomeno così degenerativo e “strutturale” (non individuale).

Il problema non è certo quello di privatizzare le nostre poche imprese di eccellenza (in questo concordo con le preoccupazioni espresse da Cossiga nel suo gustoso intervento anti-Draghi). Tuttavia, queste aziende non debbono nemmeno rimanere sotto la pressione di forze politiche asservite al pessimo capitalismo italiano (e americano). Ci si salverebbe solo se si installasse al potere una forza in grado di liquidare brutalmente l’attuale quadro politico a partire dalla sinistra “cattocomunista”, di porre ai vertici delle suddette imprese manager del tipo degli “Enrico Mattei” (quanto meno, diciamo, dotati di ampi poteri e di reale indipendenza) e di mettere “a cuccia” (rendere cioè docile e sottomesso agli interessi generali) il capitalismo “montezemol-bazoliano”.

La prima misura da prendere è sicuramente l’innalzamento dei salari (basso-medi) e la riduzione della pressione fiscale, fregandosene del rapporto deficit/pil e rispondendo a brutto muso ad Almunia, Trichet, Fmi, società di rating, e compagnia cantando. Non per la stupida convinzione, nutrita perfino dai falsi comunistelli marxisteggianti, che si esca dalla stagnazione tramite aumento della domanda. Anzi, essendo ben consapevoli che misure del genere ci possono inizialmente creare ulteriori difficoltà, se non si mette subito in funzione un progetto di radicale mutamento strutturale dell’economia italiana, con la messa in primo piano dei settori e imprese dell’ultima ondata innovativa onde conseguire, nei tempi possibili, un netto incremento della produttività generale di sistema, in assenza del quale l’aumento del reddito disponibile “in tasca” ai cittadini non produrrebbe per nulla effetti positivi. Nel contempo, vanno certo rifiutate quelle scorciatoie (proposte ad arte da ben precisi ideologi degli attuali dominanti) che si rifanno alla precarizzazione, flessibilizzazione, ecc. del lavoro. Non è affatto così che si accresce la produttività generale di sistema; così si lascia intatta la struttura “weimarian-socialistareale” del sistema-paese, e si incrementano solo i profitti del parassitario capitalismo “montezemol-bazoliano”. Furbi sono questi, e hanno una massa di economisti e tecnici, in parte fasulli in parte consapevoli furbastri, che vanno buttati al macero assieme agli schieramenti politici attuali.

Mi rendo conto della difficoltà, forse impossibilità, dell’opera (non comunque gigantesca) da compiere. Se mai se ne parla, però, mai si pensa alla risoluzione del problema. E se non si risolve, allora – come nel finale del buon film di Magni Nell’anno del Signore – non si può che pronunciare lo stesso “saluto” gettato alla folla dal protagonista mentre infila la testa sotto la ghigliottina: “Buona notte, popolo”.

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SCENARI DA SFACELO di G.P.

 

L’articolo di Gianfranco La Grassa di sabato scorso intitolato “Nessuna illusione: l’inganno continua” ci fornisce l’epitome “quasi” esatta dell’inequivocabile sfascio politico del nostro sistema-paese (salvo non doversi rivelare, a breve, l’ennesima previsione in difetto rispetto all’incessante regressione di questa sedicente seconda repubblica), laddove il cancro che appesta lo Stato, le istituzioni del parlamentarismo pseudo-democratico, il contesto economico generale, con ricadute pesantissime sul livello sociale e culturale della nazione, si va manifestando con escrescenze purulente che richiederebbero una serie di interventi chirurgici radicali per estirpare il male, pena l’infettamento, di quel poco che resta, del "tessuto" sano.

Ma il clima di commistione che si continua a respirare non fa che attestare e rafforzare le corresponsabilità di tutti i partiti nell’attuale sfacelo. Nonostante a destra si ripeta di voler andare subito ad elezioni anticipate, per porre termine al disastro sociale ed economico causato dalla sinistra (in verità una dittatura affaristico-clientelare-partitocratica che per livelli di corruzione e lottizzazione del potere ha superato di molto l’epoca democristiana), si può ben dubitare che questo sarà anche l’orientamento del Presidente della Repubblica e della maggior parte delle forze politiche recantisi, in queste ore, in processione al Quirinale. In realtà, quest’ultime sono prese, piuttosto che dalle preoccupazioni per le sorti del Paese, dai conti elettoralistici che potrebbero non tornare in caso di voto anticipato. Tuttavia, anche a destra, ad esclusione di Lega e FI, gli appelli al voto vengono enunciati con poca convinzione  perché continuano a persistere, nella ex casa della libertà, beghe leaderistiche interne tra Fini, Casini e Berlusconi, solo apparentemente sopitesi in seguito alle sventure altrui. I primi due non hanno ancora sepolto le proprie velleità di conduzione dell’alleanza e restano con l’ orecchio teso alle sirene dei poteri forti (i quali, dal canto loro, continuano a mantenere la conventio ad exludendum nei confronti del Cavaliere, legittimando le aspirazioni al comando tanto dell’uno che dell’altro).

Ciò implica che non vi è stata ricomposizione tra le anime della destra ed essendo il terreno ancora fertile per trappole e sotterfugi, qualche cattivo consigliere cercherà di convincere Berlusconi dell’opportunità di fare il convitato sulla riforma elettorale allo stesso tavolo di Veltroni, agitandogli sotto il naso l’acciughina di un suo definitivo sdoganamento.

In questo momento la portata più indigesta per FI si chiama governo istituzionale, un tentativo di prolungare l’agonia politica degli attuali assetti parlamentari di maggioranza al fine di non interrompere quella falcidiazione dei ceti medi e salariati che è costata l’impopolarità a Prodi e alla sua formazione governativa. E’ chiaro che se dalle elezioni dovesse uscire vincente Berlusconi non si potrà continuare sulla stessa direzione di marcia. Perciò si sta tentando in tutti i modi di convincere Casini ad appoggiare l’idea della riforma elettorale, una foglia di fico per prendere tempo e concludere il sacco dell’Italia avviato quasi due anni or sono. Eppure, tutte le personalità del centro-sinistra, solo qualche mese fa, annunciavano che in caso di disgregazione dell’attuale maggioranza la soluzione più logica sarebbe stata quella delle elezioni anticipate. Ma il ricordo di Prodi nella testa della gente è ancora troppo vivo e l’associazione inevitabile tra questi e il Pd potrebbe aggravare una sconfitta che già si annuncia devastante. Veltroni che non ci tiene proprio a fare la fine del martire, vuole ottenere alcuni mesi di transizione, al massimo un anno, per riazzerare  la corta memoria politica degli italiani e spararsi le sue poche cartucce. Il compito non sarà facile perché bisognerà convincere Berlusconi, il quale ha già la vittoria in tasca, a tagliarsi le palle da solo. Ma si può cercare di aggirare il problema trovando una sponda nell’UDC, notoriamente sensibile alle invocazioni “per la salvezza del paese” lanciate dal patriota D’Alema, e, se anche questo non dovesse bastare, si potrebbe sempre ricorrere a qualche azione giudiziaria pilotata nei confronti degli avversari, grazie ad una magistratura spesso compiacente.

Resta comunque curioso il fatto che i destini dell’Italia non dipendano dalla risoluzione di problemi annosi quali corruzione, criminalità, scarsa innovazione tecnologica e produttiva, decadenza sociale ecc.ecc., ma da una legge elettorale la cui riforma è peraltro affidata ad una classe dirigente che è parte integrante del problema principale.

Naturalmente anche i comunisti, con il pdci che addirittura ha chiesto una riconferma di Prodi, ripetono come cornacchie questa solfa delle riforme improcrastinabili (domanda: ma che hanno fatto in tutto questo tempo?) poiché hanno ben presente la loro miseranda fine in caso di elezioni in primavera. I Bertinotti boys, consacratisi alla vanità istituzionalista del loro mentore, hanno ingoiato qualsiasi rospo pur di partecipare al banchetto del potere, allucinandosi con dosi omeopatiche di “realismo” anche quando la nave prodiana oscillava pericolosamente preannunciando la colata a picco. Di qui la sospensione senza termine della democrazia interna al partito per timore che la linea, rivelatasi presto un suicidio politico, dei Giordano-Migliore potesse essere messa in discussione. L’elenco delle malefatte dei comunisti di lotta e di governo è lunghissimo e le ultime decisioni (dal rinnovamento della fiducia a Prodi fino alla solidarietà al Ministro Mastella e all’accettazione di De Gennaro quale commissario straordinario per i rifiuti) sono solo l’epilogo consequenziale di una deriva che parte da molto lontano.

Abbastanza “stranamente” le scelte politiche del gruppo dirigente del PRC ricalcano fedelmente i diktat montezemoliani, ed anche sulle elezioni anticipate Giordano s’iscrive scientemente al partito confindustriale che non vede di buon occhio l’attuale sistema elettorale, per ragioni che sono ben esplicitate nell’estratto dall’articolo di Ludovico Festa pubblicato dal Giornale di ieri (riportato alla fine di questo pezzo).  La stagione di riforme, sotto un governo di “scopo” (qual è questo scopo per Montezemolo è facile ad intuirsi) è invocata tanto dalla sinistra massimalista che dalla GF e ID e di certo il problema per entrambe non è quello delle maggioranze instabili e della governabilità poiché, per come si sono messe le cose, il caos istituzionale è forse la forma migliore per continuare a garantire i privilegi della casta e quelli ancor più grandi dei settori dominanti dell’industria assistita.

Possiamo anche sospettare che il vuoto politico-istituzionale non sia disdegnato da alcuni ambienti stranieri che in questa fase molto delicata potrebbero ottenere da un governo tecnico, sub specie di ordinaria decisione amministrativa, ciò che una maggioranza composita e ideologicamente disomogenea non avrebbe potuto garantire. In Italia, infatti, sono stati proprio i governi delle larghe intese degli anni ’90 a battere la strada dell’ “extra-ordinarietà” necessaria a far approvare riforme peggiorative per il nostro sistema-paese (privatizzazioni, svendite colossali dei beni dello stato, “balcanizzazione” del mercato del lavoro) che portano ancora impressa l’effige di quella neutralità tecnocratica non soggetta a critiche politiche.

Oggi che la situazione internazionale si annuncia gravissima a causa della crisi economico-finanziaria, ora che si fanno urgenti ed improrogabili alcune prese di posizione sulla politica internazionale (con l’Italia in prima linea al fianco degli USA sulla questione Kossovara, in primo luogo, ma anche per ciò che concerne i rapporti con i paesi emergenti ad est e la ridefinizione delle regole di partecipazione degli Stati occidentali nelle alleanze militari come la Nato, senza tralasciare i nostri compiti negli scenari di guerra ancora aperti come l’Afghanistan) per i nostri padroni può essere molto più duttile una soluzione di grande coalizione. Siamo un paese di frontiera, indebolito e senza autonomia decisionale, ma questo è un bene per chi vede nell’Italia un argine naturale nei confronti di quella parte dell’est del mondo che reclama nuovamente il suo posto nella Storia. Certo da noi non si possono fare rivoluzioni colorate, ma anche il grigiore acromatico di una classe politica inetta (e per questo inevitabilmente succube) può essere utile allo “scopo”.

 

Montezemolo, il Prodi dell’industria

articolo di Lodovico Festa – domenica 27 gennaio 2008, 09:28

In un momento di particolare difficoltà per il Paese è bene che anche gli industriali facciano sentire (…)

L’invito a rimandare significa soltanto cacciare l’Italia in un pantano. D’altra parte questo giochicchiare con i sistemi elettorali per fini politici e trasformistici è tipico dello stesso Montezemolo che è passato dal sostenere un sistema chiaramente maggioritario al proporzionale alla tedesca solo per le sue tramette politiche. Anche la nuova verve moralistica montezemoliana presenta un intollerabile punto di doppiezza: mentre è encomiabile l’impegno degli industriali siciliani a contrastare il pizzo verso i mafiosi ed è perfino comprensibile che venga posto il problema della presidenza Cuffaro. È incredibile nello stesso tempo far finta di niente sulla Calabria dove oltre metà del consiglio regionale è inquisito. E soprattutto è inaccettabile l’atteggiamento di Montezemolo sulla Campania. Infatti, il nostro mentre ricorda che i rifiuti a Napoli sono il più duro attacco all’immagine dell’Italia nel mondo, poi chiede le dimissioni di Cuffaro per i suoi cannoli e non quelle di Antonio Bassolino per i guasti combinati in quattordici anni di predominio su Napoli e Campania.

Il fatto è che Montezemolo e quelli della sua squadra, siano calabresi o campani, sono fatti così: intransigenti solo quando si discute di politici di centrodestra. Montezemolo ha inaugurato il suo mandato appoggiando Antonio Fazio contro Giulio Tremonti e contribuendo in tal modo agli errori del centrodestra sulla spesa pubblica. Ha dato il suo sostegno (suo e dei suoi amici) decisivo a far decollare la sciagura Prodi. Ha svicolato l’11 aprile 2006 quando doveva chiedere con forza un governo di unità nazionale perché non c’era una maggioranza. Ora farebbe bene se non a stare zitto, almeno ad affrontare i problemi con un minimo di umiltà.