GIRA E RIGIRA di G. La Grassa

Mi scuso con il lettore, ma girerò un po’ intorno, partendo comunque da avvenimenti a noi vicini. Per un momento dimentico le tristezze della situazione economica e politica, deteriorata fortemente in tutti i sensi. Prenderò le mosse dalle interviste di Cossiga di cui ho parlato nell’ultimo intervento, ma solo come spunto per riflessioni che vagoleranno in direzioni varie. Secondo me, il senatore a vita non parla tanto per amore di paradosso (e di umorismo, che pur possiede); inoltre dice e non dice, e quel che dice lo porta spesso su un livello che concerne più che altro i caratteri delle persone e la casualità di eventi quotidiani; in questo modo, sono convinto mascheri ben più precise valutazioni “oggettive” della situazione politica odierna.

Non so se dietro di lui si muovano veramente delle forze più organizzate (non credo), ma penso esprima comunque degli stati d’animo e delle intenzionalità ancora assai incerte che baluginano in certi “ambienti” (così si denominano quando sono ancora ondivaghi e non organizzati secondo precisi obiettivi), che immagino si trovino pure all’interno dei famosi “distaccamenti speciali di uomini in armi”, quelli che per un marxista sono il “nocciolo strutturale” dello Stato (per dirla in termini gramsciani, sono la “coercizione” di cui è “corazzata” l’“egemonia”); e senza i quali non esisterebbe uno Stato ma solo organi di amministrazione della “cosa pubblica”. Questo è l’elemento decisivo, dimenticando il quale coloro che conoscono assai male Marx (e i seguaci) lo accusano di utopia per aver pensato il comunismo quale società senza Stato, evidentemente credendo che egli intendesse parlare di una società senza alcun organo amministrativo dotato dei poteri (e anche delle gerarchie e prerogative) necessari; invece, più semplicemente, appariva incredibile a Marx, come a qualsiasi persona dotata di buon senso, immaginare una società non più divisa in classi (dominanti e dominate) – sempre che si creda nel suo possibile avvento – con la presenza di corpi speciali armati addetti alla repressione, che non può che essere attuata per conto di chi intende affermare il proprio predominio. Lo Stato, nelle società divise in classi, è il precipuo campo su cui viene combattuto il conflitto per questo predominio da parte dei vari gruppi di dominanti; e, in tale conflitto, si formano appunto e si consolidano i suddetti corpi speciali. Secondo la mia opinione, si può e si deve oggi criticare la concezione marxista, ma innanzitutto conoscendola e non attribuendole castronerie (come hanno fatto tanti sessantottardi, assai poco conoscitori di Marx se non attraverso la lettura di alcuni brani dei Grundrisse, qualche testo “giovanile” e poco altro).

Tornando al presente, gli ambienti non ben definiti, di cui si fa in un certo qual modo espressione Cossiga, sono opposti a quelli che hanno quale “portavoce” Di Pietro, con il suo rinnovato disegno di riprendere la strada del 1992-93. Un disegno, quello di questi ultimi ambienti, più pericoloso e autoritario dei fluidi e ancora poco formati progetti dei loro avversari. In effetti, ripercorrere la strada giustizialista è un modo molto rozzo e schematico di risolvere i complessi problemi della società italiana, in cui un ceto finanziario e industriale corrotto e vampiresco tenta di sopravvivere ad un deficit crescente di egemonia, oggi enfatizzato ulteriormente dalla crisi generale che avanza. Si tratta di metodi che si avvalgono di un apparato giudiziario fazioso e solleticato nei suoi deliri di potenza, con l’intenzione di ulteriormente rafforzarsi mediante ampio uso di apparati fortemente repressivi quali le carceri, il controllo capillare di vari organi specializzati nello spionaggio dell’intera collettività (e degli avversari in primo luogo), la calcolata (secondo tempi e modalità) diffusione di notizie diffamatorie, alcune vere altre false, senza poter discernere bene le une dalle altre; con il loro corteggio di ricatti, di cedimenti e “confessioni” estorte ai più deboli e implicati, con la promessa di salvarli se collaborano, rivelando ora veri ora presunti delitti degli avversari da distruggere o da intimorire e condizionare, ecc.

La base “sociale” per un simile “partito” – solo in fieri e che speriamo venga presto spazzato via – è costituita dal largo ceto piccolo borghese (con plebei aggregati), dedito a lavori inutili o a spizzico e tuttavia troppo largamente remunerati in sede “pubblica” (tipica caratteristica italiana), ceto che difende con i denti i suoi privilegi parassitari tramite il “moralismo”: ideologia dei mediocri e semifalliti, che si esaltano l’un l’altro, elogiandosi e scambiandosi reciprocamente attestati di essere i migliori, i più puri, gli eletti in una società di incolti e di immorali. Personaggi sempre in stato di esaltazione ed eccitazione, che inneggiano alle emozioni e ai “forti sentimenti”; in realtà, si tratta solo di bassi livori e di acredine verso chi costruisce qualcosa e si dà da fare per vivere non da saprofita come loro, ma contribuendo alla crescita della società. I moralisti sono i detriti sociali che alimentano le crociate, che si credono una élite mentre sono in realtà inetti e del tutto nocivi allo sviluppo sociale, capaci di prosperare soltanto sulle macerie fumanti di ciò che essi fanno di tutto per radere al suolo. I moralisti sono la peste di una società, il cancro da estirpare con tutti i mezzi – chirurgici – a disposizione.

Per uno scherzo della storia (italiana) – che di brutti scherzi è sempre prodiga – essi si presentano come “sinistra”, ma seguono un demagogo populista che vagheggia progetti polizieschi e autoritari. Vanno combattuti e fermati come il pericolo principale, soprattutto in una situazione ormai mondiale di difficoltà e di possibile grave crisi; perché è nello sfacelo di un tessuto sociale, nel suo marcire e divenire purulento che essi trovano alimento. Questa tumida piaga deve essere ripulita e asciugata con i migliori “disinfettanti” a disposizione.

 

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Meno pericoloso sembra l’altro “stato d’animo”, pur sempre confuso e dai contorni mai ben delineati, il che non incute molta tranquillità. La speranza di un Cossiga, o di chi per esso, è di poter ancora utilizzare – in una dimensione di moderato autoritarismo e di subalternità più addolcita rispetto al paese predominante, gli Usa – il solito D’Alema, accoppiandolo però al Cavaliere (poiché l’eliminazione di quest’ultimo rischia di favorire “gli altri”). Già tale personaggio – si dice – fu usato da Cossiga (non certamente da solo, però, e nemmeno con “pochi amici”, perché nessuno può credere a simile panzana) all’epoca in cui si ritenne necessario appoggiare gli Stati Uniti nella loro aggressione alla Jugoslavia. La vanità dell’uomo lo rende malleabile e usabile – e anche gettabile, se necessario – come quando si mise a straparlare, in linguaggio orwelliano, di “difesa integrata” (bombardamenti pesanti al seguito degli americani), si gonfiò il petto di fronte alle pacche sulle spalle del generale Wesley Clark, che lo elogiò per la sua coerenza (servilismo senza dignità) e per la sua promessa, nel caso ci fosse stato bisogno dell’impresa di terra, di inviare 18.000 soldati italiani sul teatro di guerra.

D’Alema ha certo un che di machiavellico, nel senso di non essere affatto un moralista; questo, che sarebbe un pregio, non riesce tuttavia ad esserlo per la sua mediocrità. Si fa troppa confusione sul machiavellismo, come fosse solo la stupida e scipita reiterazione del motto: il fine giustifica i mezzi. Se uno, preso da una terribile stitichezza, si decide a prendere mezzo litro di olio di ricino, non per questo è un perfetto esempio di questo inseguire un fine con ogni mezzo possibile, foss’anche il peggiore. Il “Principe” machiavellico deve essere personaggio – attorniato da un gruppo di capaci e fortemente motivati – di alte ambizioni e di grandiosi progetti. Nessuno si illude che egli agisca per il bene dell’Umanità o, meglio, del popolo su cui ha “giurisdizione”. Egli agisce per sé e per il suo “gruppo dominante”; tuttavia la sua proposta, i suoi obiettivi, sono di tale ampiezza da essere pure parzialmente vantaggiosi per una cerchia di popolazione assai più vasta, quella che gli garantisce così un’adeguata, e necessaria, presa egemonica tramite una serie di valori (ad alta carica ideologica) comunemente condivisi; e condivisi con tale forza che si è disposti a molto rimetterci pur di affermarli, accettando nel contempo gravi rischi e conseguenze negative, fino al proprio annichilamento, in caso di sconfitta.

Un “Principe” siffatto agisce per affermare una propria indipendenza, poiché solo questa gli può consentire di perseguire gli alti obiettivi (certo anche personali o, meglio, del suo gruppo dominante), che saranno sempre in conflitto con quelli di altri, dovranno forzare le situazioni per occupare gli spazi (non in senso semplicemente geografico, mi auguro sia chiaro) in cui adesso stazionano altri. Certo, quando non si hanno tutte le forze necessarie, si può e si deve giostrare all’interno delle contraddizioni altrui, ma senza mai schierarsi come uno zerbino ai piedi di altri dominanti stranieri; esattamente come ha fatto D’Alema nel 1999, ed è sempre disposto a farlo a mio avviso; così come fa Berlusconi e il centrodestra in una gara “tra giganti” a chi è più fedele (tra lui e i “sinistri”), e a chi serve meglio e con maggior furbizia e duttilità gli interessi della nation prédominante. Si giostra tra le contraddizioni di coloro che si considerano pur sempre avversari del progetto di allargamento degli spazi di manovra per realizzare i propri interessi, sapendo allearsi e confliggere secondo le circostanze e sempre guidati dall’alto obiettivo. Dove siano in Italia politici del genere, non lo so proprio; non ne vedo nemmeno di nani. Al momento, si svolge una battaglia tra servi. Di questo fatto teniamo conto, e valutiamo quali siano i più pericolosi, soprattutto nella situazione di crisi attuale.

Per il momento, sembra ancora di notare che chi è al Governo si mette a fare quello che criticava dall’opposizione, e viceversa. Ridicolo, ad esempio, vedere la sinistra in piazza con i sindacati di polizia per i tagli alle forze di sicurezza, quando il “suo” precedente Governo aveva trattato queste forze come dei paria, nemmeno fornendo loro mezzi sufficienti per utilizzare la strumentazione (scarsa) di cui erano dotate; a parte gli stipendi miserabili come, tuttavia, quelli della stragrande maggioranza degli altri lavoratori.

 

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Se, come tutto lascia al momento prevedere, entreremo nella crisi di cui si parla da mesi e mesi, nessuno deve credere che esista il modo di compiere il miracolo di esserne esenti o di approfittarne per accrescere le proprie ricchezze e tenore di vita a spese degli altri. Detto meglio: all’interno di ogni paese (di ogni formazione particolare), ci saranno strati (e talvolta non troppo ristretti, ma mai credo oltre il 20% della popolazione) che si arricchiranno. Ciò non accadrà però sul piano delle varie formazioni particolari nell’ambito di quella mondiale. Se crisi sarà, si vedranno come minimo rallentamenti generali, anche delle dinamiche società “a est” (Cina, India, ecc.); e tutto ciò in una situazione in cui, all’interno di tali paesi, esistono ancora tra i vari gruppi sociali gravi contraddizioni e frizioni non risolte, anzi magari enfatizzate proprio dai precedenti alti ritmi di sviluppo, che non si verificherà mai in modo armonico, non sarà mai come una macchia d’olio che si espande con continua e costante gradualità (queste modalità esistono solo nel cervello distorto di alcuni sociologi ed economisti fuori della realtà).

Ciò cui si assisterà, in caso di crisi, non sarà nemmeno il crollo generalizzato del sistema (sottinteso: il capitalismo), come pensano altri idioti che si autodefiniscono marxisti, che si stringono nei loro ghetti di sette insensate annuncianti la prossima catarsi universale, veri testimoni di Geova (un povero Marx ridotto a stupido profeta delle loro visioni malate). Si verificheranno invece – sempre in base a quale sarà la gravità effettiva della crisi (al di là delle chiacchiere, ormai veramente senza senso né tanto cervello, dei vari “guru” dell’economia) – acutizzazioni delle tensioni sociali all’interno di molte formazioni particolari, anche di capitalismo avanzato, con il ritorno del modello piramidale della distribuzione del reddito dopo tanto parlare di quello a botte. Soprattutto, però, si accentueranno i problemi dello sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari, con vari mutamenti del sedicente “ordine” (oggi aperto disordine) internazionale.

Detto in modo sintetico e senza tante spiegazioni al momento, credo vi saranno – sempre a seconda della gravità della crisi (nessuno sa fare serie previsioni in merito) – alcuni sommovimenti sociali, ma nessuna vera rivoluzione dal basso, nei paesi a capitalismo avanzato; e chi ancora pensasse all’accerchiamento delle “città” (i paesi più sviluppati) da parte delle “campagne” (aree depresse, ancora non lanciate nello sviluppo, ecc.), sarebbe un semplice mentecatto cui dare un calcio nelle palle non appena se ne incoccia uno. Immagino semmai un più acuto scontro internazionale tra formazioni (paesi) di un notevole peso e forza, e una serie di rimescolamenti dei vari gruppi dominanti all’interno di queste formazioni; gruppi che certo trascineranno nel “mulinello” del loro conflitto reciproco i ceti dei dominati, utilizzandoli e non perdendo troppo il controllo degli stessi (al limite, ove fosse necessario, usando qualche “muscolo” di più). Tutto questo, lo ripeto a scanso di equivoci, se proprio la crisi divenisse assai grave, questione al momento nient’affatto decidibile in questi termini definitivi.

Grave o meno che sia la crisi, non se ne può però dedurre che, durante il suo decorso, ci si approssimerà più rapidamente alla situazione da me detta policentrica. Sia chiaro che ribadisco quanto sostenuto da molto tempo in qua: più grave sarà la crisi, tanto più essa potrà essere considerata un indice – non l’unico e indiscutibile – della tendenza alla situazione suddetta. Ciò non equivale minimamente ad affermare che allora essa è più vicina alla sua realizzazione. La crisi avrà il suo epicentro negli Usa; ma tale paese è ancora talmente più (pre)potente che, se sarà guidato da gruppi strategici capaci (è ora di finirla di prendere gli americani per degli inetti), potrebbe rovesciare le più gravi conseguenze su altri e quindi prendere altri anni di respiro prima dell’affermarsi della tendenza in oggetto. Insisto nel consigliare di leggere il documento (da noi pubblicato qualche tempo fa): Joint Vision 2020 (il complesso militare americano si prepara per il futuro).

L’Italia è un paese che da solo può far poco, ed è inoltre – devastato com’è stato dalla mentalità di anarchia e disordine dei debosciati di sinistra – un vaso di coccio tra quelli almeno di plastica dura (di acciaio ne vedo pochini pochini). Tuttavia, non si tratta certo di sperare di salvarsi dalla crisi, grave o meno che essa sia. Il problema sarà sempre come se ne esce; nello sviluppo ineguale dei capitalismi (formazioni particolari), in quale posizione ci collocheremo nei prossimi anni? Si resta certo allibiti di fronte alla perdita di tempo in discussioni sulla sicurezza o sulla giustizia; quest’ultima non richiede tanti marchingegni istituzionali, ma la volontà e capacità politica di assestare un colpo decisivo al “partito giustizialista” del “populista demagogo” (così come l’ha definito Cossiga), con messa in riga della magistratura. L’emergenza è oggi ben altra; voglio vedere dove andrebbe a finire la sicurezza se la società si spampanasse sotto l’urto di una crisi più grave di quanto previsto.

Certe decisioni buone oggi, già domani potrebbero diventare cattive. Soprattutto, però, è da sciocchi non capire che certe decisioni vanno provate prima di sapere se sono effettivamente buone o invece poco efficaci nella contingenza, sempre storicamente specifica, in cui vengono prese; certamente occorrerebbe che gli artefici delle stesse fossero anche duttili nel modificarle ove si dimostrassero dannose o non produttive degli effetti voluti. Tuttavia, bisogna innanzitutto prenderle, senza le defatiganti discussioni tipiche di una “democrazia” esausta e sbriciolata come la nostra. Questa non è democrazia, ma indecisione, mediazione continua per accontentare tutti, per impedire manifestazioni di intralcio e boicottaggio orientate dai meschini interessi della propria frazione politica (cioè elettorale, cioè cattura-voti per godere dei tanti emolumenti di queste “democrazie parlamentari”), manifestazioni che in certe situazioni di emergenza, mi dispiace, vanno considerate in effetti come disfattiste e quindi trattate con modalità che non sono quelle dei tempi normali.

Basta poi con la politica (a spizzico) della domanda, quale presunto traino di una ripresa che non viene; semmai, così agendo, si aggiunge alla depressione l’inflazione, creando la peggiore delle crisi possibili. E’ invece necessario prendere le mosse dalla produzione, dalla sua struttura sistemica, incrementando i settori che aprono nuovi spazi di utile e vantaggioso conflitto, con tutti i vari corollari – non solo economici o di ricerca scientifico-tecnica, pur certamente importante – che ne seguono. Basta, inoltre, con le stupidaggini del “siamo sulla stessa barca, tutti collaborino, ne usciremo tutti insieme, nessuno pensi a salvarsi da solo”, ecc. Certo che bisogna collaborare, incontrarsi, cercare soluzioni comuni; tuttavia chi va più preparato agli incontri, e può buttare sul piatto qualche forza in più, strappa maggiore “collaborazione” (un po’ più pencolante verso i suoi propri interessi). E una forza maggiore non si ottiene strappando uno zero virgola qualcosa in più di Pil tramite il dar fiato alla domanda – altra questione è quella sociale relativa ai salari e alle remunerazioni del lavoro autonomo di cui ho già detto in altri scritti; ma è un’altra faccenda, non la si confonda con le necessità inerenti al tentativo di rilanciare l’economia – bensì dotandosi dei mezzi necessari per allargare il proprio spazio, adesso occupato da altri (che tenteranno, a loro volta, di allargare i loro). Solo così, alla fine del periodo di crisi – perché c’è sempre la fine della stessa, non esiste la catastrofe finale e generale, con palingenesi totale e con “gli ultimi (i diseredati) che diventeranno i primi”; simili sogni da “Paradiso terrestre” lasciamoli a chi ama fantasticare – se ne uscirà in condizioni meno peggiori di altri; quindi in condizioni relativamente migliori, tenendo conto del generale arretramento che provoca una qualsiasi crisi se è veramente di notevole acutezza.

Oggi, siamo appunto ad uno snodo del genere. Non vediamo forze politiche capaci di affrontare in Italia un’eventuale crisi, se fosse grave come in molti stanno pensando; in modo da situarci, alla fine d’essa, nelle appena considerate meno peggiori (relativamente migliori) posizioni nell’ambito dello sviluppo – in questo caso, temporaneo desviluppo – ineguale (dei capitalismi) provocato dai processi congiunturali. Si riuscirà, in corso d’opera, a cambiare cavallo? Il che, “a casa mia”, significa rompere il gioco degli specchi tra destra e sinistra per far emergere una diversa forza politica determinata e assai “cattiva”, forse addirittura feroce, di quelle che meriterebbe questo paese abitato da tanti “Alberto Sordi” (parlo dei personaggi interpretati, non dell’attore che mi è sempre piaciuto molto). Una massa di fetenti piagnoni, buonisti, o invece arroganti e prepotenti perché ricchi di soldi ma non di cervello, di anarcoidi e tendenzialmente asociali, privi del senso dei propri doveri, di volontà di impegnarsi, con l’emozione facile e irriflessiva, scervellati, dotati di sufficiente stupidità, unita spesso a ipocrisia, per “simpatizzare” con i sedicenti diseredati (in realtà meri disadattati e asociali), con ciò mortificando le intelligenze più attive e fattive, potenzialmente capaci di immaginazione creativa. Bisogna legnare questa massa di inutili, eventualmente sfoltirla e, con l’esempio giusto, terrorizzare e costringere all’impegno i rimanenti, impedendo loro di continuare a menar il can per l’aia, creando disordine e sconnessione sociale.

 

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Per concludere, mi piace ricordare per l’ennesima volta ciò che furono i comunisti quando il loro movimento era in avanzata, vivo e vitale. Adesso è finito, non ci sono più comunisti, al massimo quelli che, con termine però impreciso, possiamo indicare come “cattocomunisti”, vera regressione dal serio impegno lavorativo e del fare al “magna-magna” e allo sperpero di “denaro pubblico”. Non si tratta di ceti operai, solidi e preparati (non rivoluzionari parolai e gradassi), bensì di “informi ammassi” di futili farfalloni, autentica “insostenibile leggerezza”: non però dell’“Essere”, del “Nulla” invece. Si credono il nerbo del Mondo mentre non sanno combinare alcunché di utile e positivo; si credono colti e intellettuali, ma sono rimasti infantili e distruttivi (i bambini lo sono spesso) come nel ’68 e, in crescita esponenziale, nel ’77. Continuano con le solite scemenze di allora e di sempre, che credono siano grandi novità, tali da rifare l’esistenza umana.

Sono l’esatto corrispondente, sul piano culturale, della GFeID, questi gruppi finanziari e industriali parassiti (e succubi di altri sistemi socio-economici, “stranieri”), che se ne servono per i più bassi servigi tesi a realizzare i loro meschini scopi di mera sopravvivenza. Abbiamo invece bisogno di una società diversa, solida, laboriosa, indipendente, impegnata nella produzione e nella innovazione. Certo, tutto ciò esigerebbe anche radicali trasformazioni dei rapporti sociali, ma non sognati, non tesi all’“armonia generale”, alla mera solidarietà, ad un “comunismo” dell’ordine del fantastico e dell’ipocrisia. C’è purtroppo tanto tempo per ripensarci.