GLOBAL TRENDS 2025: A TRANSFORMED WORLD di G.P.

 

Abbiamo dato una passata veloce al documento strategico redatto dal National Intelligence Council americano, avente per titolo Global Trends 2025: A Transformed World”. Così come abbiamo fatto per il Joint Vision 2020, cerchiamo qui di elaborare qualche considerazione su questo lavoro per capire come gli Stati Uniti si preparano ad affrontare (ovviamente, parliamo di documenti che solo limitatamente scoprono i reali piani americani essendo quelli più importanti del tutto segreti e, crediamo, molto meno aleatori, in alcune previsioni, di quello presentato in questa sede) la nuova situazione mondiale. La nostra attenzione si è focalizzata soprattutto sulle questioni riguardanti gli assetti geopolitici, le politiche energetiche e gli aspetti militari di tale proiezione,  poiché consideriamo questi tre pilastri quali punti nodali per la comprensione dei futuri cambiamenti della architettura planetaria, in funzione dell’avanzata di una fase policentrica (ma restiamo su realistiche supposizioni di uno o due decenni) ormai inevitabile.

Più volte abbiamo detto che alla rinascita e alla riemersione, sullo scacchiere geopolitico, di nazioni come la Russia o l‘Iran ha contribuito la combinazione di due elementi tra loro interconnessi: una leadership che ha saputo liberarsi dalla corruzione e dalla subordinazione alle potenze straniere (con gli Usa che spingono costantemente, attraverso le operazioni di accerchiamento geografico o di indebolimento dell’unità culturale originaria, per accrescere il loro controllo sulle elite di questi paesi) e, in secondo luogo, l’incidenza delle maggiori risorse economiche (grazie allo sfruttamento delle risorse energetiche) che, in una prima fase, sono bastate al rafforzamento delle strategie di difesa delle sovranità nazionale.

La congiuntura fortunata, dal punto di vista dei prezzi delle risorse naturali, come il petrolio o il gas, ha permesso a questi paesi e alle loro classi dirigenti di risollevarsi e di riappropriarsi, almeno in parte,  delle sfere d’influenza finite sotto il controllo occidentale. Ciò, ovviamente, vale in particolar modo per la Russia, la quale, dopo i funesti anni del periodo elciniano ha conosciuto una grande ripresa grazie al nuovo corso putiniano (seguito anche dall’attuale presidente Medvedev, a conferma del fatto che i singoli uomini sono portatori, più o meno intelligenti, di un disegno più complesso nascente all’interno dei circoli dominanti russi) ha potuto far sentire il fiato sul collo non solo alle ex-repubbliche sovietiche, attratte dall’orbita americana, ma anche alla stessa Europa (da qualche tempo sotto la costante minaccia del centellinamento delle forniture di gas da parte di Mosca), forzata a rivedere i rapporti bilaterali col gigante est-europeo, dopo un ciclo di disinteresse, di provocazioni e di trattamenti volti a deprimere le sue aspirazioni di autonomia.

Le recenti affermazioni dei diversi leaders europei su questioni di politica internazionale molto sentite dai russi (a salvaguardia del loro spazio vitale) e rispetto alle quali il colosso caucasico aveva più volte manifestato il suo dissenso (vedi l’allargamento della Nato a Georgia e Ucraina e l’approntamento dello scudo spaziale tra Repubblica Ceca e Polonia), lasciano presagire un ammorbidimento delle posizioni occidentali, con l’ingombrante quanto indispensabile vicino. Ma l’“ingombro” non è affatto tale, per quanto venga così percepito, e fatto percepire al grosso delle opinioni pubbliche continentali, da quella parte dell’elite europea sub-dominante legata indissolubilmente agli alleati d’oltre-atlantico. Questa valutazione autolesionista più che rispondere a reali interessi europei è il riflesso delle forti pressioni americane su tali elite incapaci di reagire (e forse nemmeno intenzionate a farlo da quanto dipendenti dagli Usa), che fanno dell’ Europea una zona cuscinetto per il contenimento della Russia, ma al prezzo elevatissimo di un generale e non più sostenibile indebolimento delle sue strutture economiche, sociali, politiche.

Dal documento emerge chiaramente l’importanza delle politiche energetiche di Russia e Iran che hanno scardinato i rapporti di forza consolidati a livello geopolitico, a tutto danno degli interessi geostrategici Usa, con la conseguenza che quest’ultimi si trovano ora a dover rivedere la propria posizione e il sistema di dominio con il quale hanno sin qui gestito, in maniera pressoché incontrastata, la fase monocentrica post Guerra Fredda.

Tuttavia, il medesimo documento coglie alcuni elementi di debolezza della strada energetica perseguita tanto dalla Russia che dall’Iran, ed è su questi fattori che, con ogni probabilità, gli americani si concentreranno per debilitare la spinta e la penetrazione strategica di dette nazioni in aree che i padroni del mondo ritengono ormai di loro pieno appannaggio. Se fino ad oggi i prezzi elevati delle risorse naturali hanno favorito un riequilibrio economico tra attori globali, grazie ai superprofitti derivanti dalla esportazione di materie prime ed energetiche, questa situazione di vantaggio “posizionale” non durerà a lungo e potrebbe presto esaurirsi in virtù di alcuni mutamenti sui quali gli Usa spingeranno servendosi della loro forza dissuasiva e contrastiva. In primo luogo, molto dipenderà da come Russia e Iran si serviranno di questa accumulazione di capitali per perfezionare la loro presa sul potere nazionale e migliorare le loro strategie difensive. La politica energetica messa in campo dai due Stati ha fornito la forza necessaria per allentare la morsa dal giogo USA, ma non è certo sufficiente per contrattaccare o per esercitare una pressione duratura sugli assetti geopolitici dati, al fine di demoralizzare l’azione statunitense. In questo senso, l’uso dell’arma energetica è fondamentale per proiettarsi, con slancio vigoroso, nel recupero in potenza, all’interno di un area circoscritta, generalmente coincidente con la propria sfera d’influenza, ma per mantenere queste posizioni occorre  poi attivare ben altre politiche e proiettarsi su obiettivi di più lungo periodo. Per questo motivo occorrerà che questi paesi si dimostrino in grado di investire giudiziosamente i profitti accumulati, imponendo una grande modernizzazione all’intera formazione sociale nazionale, al pari di quello che è avvenuto ed avviene nei paesi occidentali più avanzati: accrescendo la professionalità e la specializzazione del capitale umano autoctono, creando una struttura finanziaria all’altezza dei nuovi compiti e dando maggiore robustezza e dinamicità a tutta la struttura economica interna. E non solo. Bisognerà, inoltre, premunirsi nei confronti dei modelli culturali dominanti di matrice democratica, fabbricando un forte consenso interno, consolidando un modello condiviso di sviluppo e di appartenenza (un’unità culturale ed ideologica organizzata) da opporre al way of life occidentale. Infine, si deve portare a maggiore razionalizzazione un progetto di alleanze internazionali, anche dal lato strategico-militare, rinsaldando, su queste basi, un fronte unito con i paesi non allineati agli Usa e con quelli che si trovano in situazione di maggiore indecisione (per interessi nazionali da salvaguardare) nell’alleanza con quest’ultimi. Ovviamente, la ricerca scientifica, (applicata tanto al settore civile che militare), resta determinante per non lasciare agli Usa il primato tecnologico, che, come citato nel documento, è oggi ancora una sua dote distintiva ed esclusiva (almeno in alcuni settori di punta).

Lo scritto, non a caso, analizza la debolezza rinveniente dal tentativo di fondare esclusivamente sul prezzo del petrolio la rinascita potenziale di un paese (ed è il caso di Iran e Russia), ed anche laddove questo avviene si lascia intendere che sarà sempre possibile agire con manovre di disturbo (è chiaro che questo il testo non lo dice esplicitamente) per impedire che la forza economica trovi uno sbocco nell’opzione politica e nell’azione strategico-militare più performativa.

Cosa accadrebbe, infatti, se il prezzo del petrolio improvvisamente crollasse a 50-60 dollari al barile?  Per l’Iran, per esempio, il documento sostiene che un tale crollo porterebbe le masse ad esercitare più intense pressioni sul regime, il quale non potrebbe calmierarne il malcontento con misure populistiche, non avendo più a disposizione risorse in abbondanza per attuare politiche redistributive. Inoltre, ciò impedirebbe di implementare i programmi di intelligence e di sicurezza nazionale volti ad incrementare il potere regionale nella propria area di pertinenza. Certo, per la Russia la questione è un po’ diversa avendo questa dimostrato di essere in grado di far meglio agire, in coordinazione, le forze del mercato di origine capitalistica (merci e imprese che assicurano la maggiore dinamicità del sistema economico) con un sistema politico massimamente decisionista, seppur nell’ambito di una certa proceduralità democratica (meno imbrigliata di quella occidentale) che non rende tale paese alieno al resto della Comunità Internazionale. Lo stesso non vale per l’Iran, dove il contesto di commistione politico-religiosa, determina un controllo più oppressivo sulla società civile accrescendo con ciò, soprattutto tra i giovani e gli studenti, il possibile ma nefasto radicamento dei modelli libertari occidentali, percepiti come più inclusivi e meno vessatori di un sistema confessionale che vuole controllare ogni aspetto della vita individuale. Questo è indice di una certa debolezza del modello iraniano per cui, per il futuro, detto paese, dovrà essere in grado di organizzare forme di identificazione e di partecipazione più inclusive dei diversi settori sociali (il che non vuol dire accettare il modello democratico), volte a ridurre le divisioni interne e la possibilità che il nemico possa insinuarsi in tali divisioni per giocarle contro l’unità nazionale e lo Stato.

In sostanza, il testo stilato dalla N.I.C. mette in primo piano i possibili cambiamenti strategici che si verificheranno lungo le strade della politica energetica dei vari paesi e che “produrranno un certo numero di nuovi allineamenti o raggruppamenti con importanza geopolitica”. Ancora la Russia – la quale ha necessità di controllare il gas del Caspio per meglio soddisfare la domanda europea e non solo – farà di tutto per mantenere nella sua sfera d’influenza i paesi dell’Asia centrale e, come affermato dal N.I.C., ci sono tutti i presupposti perché ciò abbia luogo.

La Cina, invece, rafforzerà i suoi legami con l’Arabia Saudita, in quanto unico paese in grado di soddisfare la sua crescente sete di petrolio, ma cercherà, al contempo, di stringere migliori rapporti con Teheran per non dipendere da un solo fornitore. L’Iran, dal canto suo, tenterà di avvicinarsi ancora di più alla Russia, solidificando i rapporti che già intrattiene con quest’ultima nel campo delle forniture militari. Anche l’India, per motivi energetici, farà delle aperture alla Birmania, all’Iran e ai paesi dell’Asia centrale. Su questo iniziale terreno d’intesa economica saranno poste le premesse per un avvicinamento dei diversi attori geopolitici, con l’auspicio che, nel più lungo periodo, le istanze economiche possano sfociare in un più solide alleanze politiche e militari. Ma come dicevamo non basta la comunità d’intenti sull’energia a far sedimentare una vera alleanza anti-Usa che dipenderà, soprattutto, dall’incontro delle strategie politiche di questi paesi e dall’effettiva condensazione dei loro interessi strategici, per una progressiva sottrazione di egemonia alla superpotenza americana.

Anzi è lo stesso  documento del NIC a prospettare un indebolimento di questa prospettiva nell’eventualità che i principali paesi occidentali riusciranno a ridurre la loro dipendenza delle fonti energetiche classiche. La ricerca tecnico-scientifica si starebbe, difatti, indirizzando verso soluzioni alternative al gas e al petrolio, ad oggi ancora rallentate dagli elevati costi infrastrutturali e da quelli eccessivi di riconversione dei precedenti impianti. Ma questa è la tendenza…

Nonostante il momentaneo impasse, la previsione ci dice però che questo spostamento verso fonti alternative segnerà un vero e proprio sovvertimento degli assetti geopolitici mondiali, con la marginalizzazione del ruolo di paesi come l’Arabia Saudita, la quale sarà costretta, per l’aumento delle tensioni interne, a fare maggiori concessioni al popolo, con riforme economiche e sociali volte a modernizzare il paese. Lo stesso vale per l’Iran (che però già preme sull’acceleratore nucleare per usi civili e militari) e per gli altri paesi del Golfo che dovrebbero riconvertirsi in hub commerciali e in mete di turismo, sostenendo tale trasformazione con l’ampiezza finanziaria dei loro fondi sovrani. (qui, a dirla tutta, le previsioni americane disegnano uno scenario poco verosimile).

Fuori dal Medio-oriente, il paese più colpito dal cambiamento nell’utilizzo delle fonti energetiche sarà la Russia, soprattutto se essa resterà ancora così legata alle esportazioni di materie prime ed energetiche, potendo persino perdere lo status di media potenza continentale. Sorte peggiore dovrebbe toccare alle cosiddette (dagli occidentali) petro-dittature di Venezuela e Bolivia che, secondo il rapporto, dovrebbero addirittura disfarsi completamente sotto il peso del malcontento popolare e degli scarsi risultati produttivi.

Per concludere riportiamo ciò che il rapporto del NIC ritiene sarà il futuro della superpotenza USA. Senza alcun dubbio gli americani subiranno un’erosione della loro egemonia che dovranno ribilanciare all’interno dell’alleanza con gli altri paesi occidentali (cedendo su alcuni punti ma richiedendo un coinvolgimento più pesante degli alleati), per un’opposizione più forte verso quei paesi che cominciano ad ergersi ad avversari geopolitici veri e propri. Anche in campo militare gli Usa conserveranno, fino al 2025, una certa supremazia, ma si troveranno a fronteggiare nemici più agguerriti e armati che utilizzeranno tattiche militari “irregolari” per aumentare i disagi nelle sue zone d’influenza: “gli avversari potenziali degli Stati Uniti cercheranno di livellare il campo perseguendo strategie asimmetriche per sfruttare le vulnerabilità militari e politiche degli Stati Uniti”. Inoltre, gli storici alleati degli Usa, Giappone e Israele, potrebbero risentire dei conflitti crescenti nell’area asiatica e mediorientale, arrivando a dubitare (e quindi modificando il loro atteggiamento) delle capacità degli stessi di garantire loro la sicurezza dei decenni passati.