IL CAPITALISMO CINESE NELL’ARENA DEL MULTIPOLARISMO GLOBALE

Cina

 

Sul Sole 24 del 28.11.2015 appaiono alcuni articoli che discutono della possibilità che la Cina, paese membro del Wto dal 2001, passati 15 anni, possa acquisire a fine 2016 lo “Stato di Economia di Mercato (MES), la stessa etichetta che qualifica gli Usa e i paesi dell’Unione europea”. Si tratta, per la Ue, della decisione se mantenere o no le misure antidumping e i dazi e le tariffe sull’import nei confronti dei prodotti cinesi come provvedimenti che sarebbero necessari, ancora oggi, per garantire una concorrenza “leale”. Anche perché molti commentatori ritengono il gigante asiatico ancora in transizione dal vecchio “modello comunista” senza aver superato quello che può essere ritenuto un “mercatismo primordiale”; spesso, però, si riconosce che il primato del profitto d’impresa è ormai assodato e le principali carenze riguarderebbero l’effettiva situazione concernente i principi “democratici” della tutela dei “diritti, della protezione sociale e del rispetto dell’ambiente”. Si tratterebbe , ad ogni modo, per quanto riguarda l’Italia, di rendersi conto che in questa questione ne va proprio del nostro “interesse nazionale”. Ma volendo inquadrare meglio il problema vediamo cosa scrive l’economista Stefano Manzocchi, impostando un discorso più generale sulle cosiddette “economie di mercato”:

<<… suggerirei una rilettura del volume ormai classico di Peter Hall e David Soskice sulle varietà dei capitalismi. Gli autori sostengono che vi sono almeno due tipi di economie di mercato, quelle liberali di tipo anglosassone e quelle «coordinate» dell’Europa centrale dove lo Stato non si limita a regolare i mercati ma vi interviene in modo diretto e talvolta pervasivo. A queste due categorie si potrebbe aggiungere un modello del Sud Europa, dove la terzietà dell’intervento della pubblica amministrazione è per lo meno dubbia, e probabilmente anche un modello di capitalismo latinoamericano>>.

In realtà la contrapposizione tra i “modelli” capitalistici “anglosassone” e “renano” risale almeno a Michel Albert e al suo noto saggio ed, infatti, in una recensione al medesimo, scritta nel 1993 (sul Corriere), troviamo il seguente commento:

<<L’ ultimo libro di Michel Albert (Capitalismo contro capitalismo, appena tradotto dal Mulino) ci propone uno scenario più rassicurante: la storia non e’ finita, non viviamo in un mondo monolitico, uniformemente dominato dal dio Denaro. “Il capitalismo e’ molteplice, complesso come la vita. Non e’ un’ ideologia, ma una pratica”, spiega l’ ex commissario al piano francese e presidente delle Assurances Générales de France. Questa diversità tende alla polarizzazione tra “due grandi tipi di capitalismo d’ importanza comparabile e tra i quali e’ aperta una partita ancora tutta da giocare”. Da un lato il modello americano, o meglio “neoamericano”, che ha ritrovato un’ identità forte dopo la rivoluzione reaganiana: libertà assoluta per i capitali, esaltazione del profitto a breve termine, nessuna pietà per i deboli e gli sconfitti. Dall’ altro il capitalismo “renano”, meno individualista e più disciplinato, che cerca di coniugare efficienza e protezione sociale: una strada che dalle rive del Reno e dalla Germania di Bonn, si snoda fino al Nord Europa e, con qualche variante, al Giappone. Chi vincerà ? Albert , non solo per sciovinismo europeista , tifa apertamente per il secondo modello. Ma deve riconoscere che finora e’ stato il primo a mantenere saldamente il comando>>.

Questo impostazione risentiva, ancora, di una situazione in cui la difesa dello “Stato sociale” e delle conquiste dell’”economia del benessere” pareva potersi declinare in maniera forte attraverso un progetto politico complessivo, denominato spesso in maniera vaga come “Terza Via” ( tra il fallito modello del socialismo di stato pianificato dal centro e il nuovo ordine sociale neoliberale nuovamente trionfante). In realtà, ancor prima della Grande Depressione iniziata nel 2008, il principio liberale aveva progressivamente eroso quello democratico – nonostante la parvenza elettorale che sembrerebbe assegnare ancora una quota di potere, se non altro di resistenza, alla “maggioranza” della popolazione – con le conseguenti ricadute nello status e condizioni di vita del “ceto medio” e dei gruppi sociali “non decisori”. Ma tornando all’articolo di Manzocchi vediamo come l’autore imposti l’analisi dei prodromi della situazione attuale attraverso la messa in evidenza delle

<< conseguenze dell’ingresso della Cina nel Wto, con l’ascesa prepotente del gigante asiatico che nel 2000 contava per il 3,9% dell’export mondiale (più o meno come l’Italia) ed oggi è il primo paese esportatore con il 12,4% (l’Italia è passata al 2,8). La concorrenza cinese ha messo in crisi interi settori e filiere della manifattura occidentale, costringendo le aziende a ridefinire il loro business pena la scomparsa e agendo da leva potente di selezione tra imprese vincenti e perdenti. Inoltre, l’ingresso della Cina nel Wto ha indotto molte aziende occidentali ad investire intensamente in quel Paese per conquistarne il mercato, spesso con lo strumento della joint venture con entità cinesi che il governo del Celeste Impero suggeriva, più o meno, come unica possibilità. Assumendosi il rischio di diritti di proprietà mal definiti e con la conseguenza di spostare verso l’alto il livello di qualità e di innovazione dei partner cinesi, pronti a trasformarsi in concorrenti>>.

In secondo luogo il professore della LUISS considera l’impatto della crisi mondiale che ha stremato interi comparti e poi ridotto l’universo industriale di alcuni Paesi occidentali tra cui il nostro, con quel processo di selezione talvolta estrema che si era già avviato. Tutto questo mentre la crescita cinese sembrava mantenersi costante o addirittura in rafforzamento

<<con quella di altri “emergenti”, e le opportunità di quei mercati offrivano un parziale rifugio per le imprese più avanzate, quelle esportatrici. Oggi siamo ad un nuovo punto di svolta, con molti “emergenti” in difficoltà e con la Cina che attraversa una faticosa doppia transizione, verso tassi di crescita più bassi e verso un mix di Stato e mercato (basti pensare ai recenti interventi del governo per stabilizzare le borse valori in altalena)>>.

Beh, con tutto il rispetto per l’esimio professore mi pare proprio che il mix di Stato e mercato caratterizzi la Cina sin dall’inizio del “nuovo corso” inaugurato dal grande (volenti o nolenti non possiamo non definirlo tale) Deng Xiao Ping; si tratta soltanto di una nuova forma di “miscela” in cui la regolazione dei mercati finanziari e monetari e delle politiche economiche verso l’estero sostituisce quella della produzione diretta dei beni che viene sempre più liberalizzata. Tutto ciò comporta una “gestione” politica delle dinamiche economico-sociali più flessibile e adeguata alle nuove condizioni di un paese che sta diventando sempre più “maturo”. Manzocchi, poi, sintetizza le conclusioni del suo discorso con alcune puntualizzazioni riguardanti le manchevolezze dell’economia di mercato cinese concernenti in particolare il credito alle imprese, concesso sovente con criteri non propriamente economici, la presenza di interi settori sussidiati e le forti restrizioni per gli investitori esteri. Ed, infine, come considerazione effettivamente decisiva il professore ricorda che in Europa

<<si confrontano come sempre interessi diversi: quelli dei Paesi che producono soprattutto servizi e finanza e per i quali la Cina è soprattutto un cliente, Regno Unito in testa, e che non saranno ostili a concedere quello status; quelli dei Paesi manifatturieri per i quali la Cina è soprattutto un concorrente, Italia in primo luogo, e che si oppongono a quella concessione. Un compromesso sembra l’esito più probabile, l’augurio è che sia di alto livello>>.

La paura delle conseguenze dell’apertura completa dei mercati Ue alla Cina sembra, in effetti, molto forte presso gli addetti ai lavori anche perché vengono diffuse previsioni quantitative catastrofiche riguardo ai danni che l’industria italiana e tedesca potrebbero subire soprattutto in termini occupazionali. Dall’altra parte alcuni paesi temono ritorsioni da parte cinese con l’innesco di una vera e propria guerra commerciale e l’interruzione del negoziato sugli investimenti che è stato, da poco, faticosamente iniziato. Proprio sul Sole 24 ore del 29 dicembre è, però, apparsa la notizia, che ci si doveva aspettare, della presa di posizione Usa negativa riguardo alla possibile “apertura” della Ue alla Cina. Carmine Fotina in un articolo intitolato L’assist americano parla delle preoccupazioni di vasti settori dell’industria europea e in particolare di quelli della siderurgia, della chimica, della ceramica, del tessile-abbigliamento e della meccanica. In Italia sarebbero a rischio interi poli territoriali di livello internazionale: il distretto della viteria e bulloneria, della bicicletta, dei radiatori ecc.. Certo non si tratta di settori “di punta” ma riguardano, comunque, attività che utilizzano quelle tecnologie “intermedie” che sono sempre risultate decisive per il nostro paese. Così Vittorio Da Rold commenta, “ringraziando”, il suggerimento e l’esortazione di Washington:

<< L’industria europea che lotta contro la concessione alla Cina dello status di economia di mercato trova un influente alleato nel governo americano di Barack Obama. Gli Stati Uniti hanno messo in guardia l’Europa dal concedere alla Cina lo “status”: farlo metterebbe a rischio gli sforzi per prevenire che le aziende cinesi inondino i mercati europeo e americano con prodotti a basso prezzo in modo scorretto. Una presa di posizione chiara e netta, come ha riportato, citando fonti dell’amministrazione americana, il Financial Times, secondo il quale gli Stati Uniti ritengono che la concessione possa «disarmare unilateralmente» le difese commerciali europee contro la Cina>>.

Il punto è che, di fatto, una decisione Ue che contrastasse con le scelte dei suoi maggiori partner commerciali che sono, oltre agli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e l’India ovvero gli altri “satelliti” economici maggiori degli Usa scombinerebbe le carte in tavola alimentando il caos geopolitico. I tentativi, in questa fase critica, di non alimentare le spinte multipolare da parte delle maggiori potenze conosce dei chiari limiti in una situazione oggettiva in cui si manifesta empiricamente il flusso squilibrante di cui parla La Grassa.

All’inizio di dicembre si è poi parlato e scritto parecchio sul nuovo ruolo che la moneta cinese andrà a ricoprire nel mercato internazionale. Sempre sul Sole 24 ore (01.12.2015) Ben Shengling, infatti, scrive:

<<Dopo cinque anni di continuo sviluppo del business del renminbi (3) crossboard (1), l’internazionalizzazione della moneta di Pechino ha intrapreso un nuovo viaggio, grazie anche alla strategia “One belt One road”(2), all’Asian Infrastructural Investment Bank, al sorpasso dello yuan sullo yen come quarta valuta più scambiata al mondo>>.

Shengling, professore della Zhejiang University, inserisce opportunamente alcune osservazioni

critiche riguardo alla politica economico finanziaria degli Usa:

<<I bassi tassi di interesse americani distorcono l’andamento dell’economia mondiale, la cui essenza è il trasferimento di ricchezza fra Paesi e gruppi di potere. Uno scarto dell’1% del tasso riduce di 30 miliardi di dollari all’anno gli interessi delle riserve cinesi, mentre i bond governativi Usa si apprezzano. Questo meccanismo può portare al surriscaldamento, a bolle degli assets e a sinergie sbagliate>>.

Il 16 dicembre la Federal Reserve ha alzato di 25 punti (portandolo in un range da 0,25-0,50%) il tasso di riferimento il quale risulta essere il primo intervento sui tassi dal dicembre 2008 e il primo aumento dal luglio 2006 ma anche questo provvedimento non risulta così decisivo come la prospettiva dell’economista cinese farebbe presumere; gli Usa mantengono una supremazia politica legata a un vantaggio soprattutto militare e tecnologico (innovazioni di prodotto) notevole e questo si riverbera anche nel rapporto tra valute perché anche sterlina e euro, per non parlare dello yen, sono tuttora in condizioni di netta inferiorità. Come al solito però prevale una visione economicistica che offusca il vero contesto del confronto multipolare. Comunque il 30 novembre il Fondo monetario internazionale ha approvato l’inclusione dello yuan (3), la moneta cinese, nel paniere delle valute di riserva. La decisione è stata presa dal consiglio esecutivo, che riunisce i rappresentanti dei Paesi membri dell’istituzione di Washington, e ha aggiunto lo yuan a dollaro, euro, yen e sterlina (rispettivamente con le quote del 10,92%, 41,73%, 30,93%, 8,33% e 8,09%) come componente dei diritti speciali di prelievo, la valuta di riserva dello stesso Fmi. A questo punto mi tocca inserire una altra lunga citazione del professore perché mi sembra riassumere in maniera molto sintetica la situazione economica cinese attuale:

<<Dopo quarant’anni di riforme, l’immaturità dell’economia e della finanza frenano l’internazionalizzazione. Con l’ingresso nell’era del New Normal (4), l’upgrade industriale è urgente. Nel 2014 gli investimenti cinesi all’estero e i capitali investiti in Cina si sono avvicinati per la prima volta alla parità. Emerge la finanza in rete. Il sistema finanziario cinese è grande, ma non forte, e squilibrato. Manca un mercato dei capitali a più livelli, e il mercato azionario è dominato dalla speculazione. Le holding finanziarie a controllo statale sono enormi, ma poco competitive e quelle minori faticano a sopravvivere. Le banche, soprattutto le cinque grandi banche commerciali, occupano la maggiore percentuale degli assets del sistema finanziario. Nel giugno 2014, la dimensione delle attività bancarie occupava il 90% degli assets delle strutture bancarie, di borsa, futures e assicurazioni. Inoltre la società e le imprese sono afflitte dalla pressione finanziaria, soprattutto in ambito micro. C’è la sfida della mancanza di personale qualificato, che si frappone alla soluzione dei problemi>>.

Concludiamo questo intervento con alcune considerazioni che prendono spunto da un intervento di G. Rossi sul Sole del 06.12.2015. Lo studioso ricorda, prima di tutto, che la libera circolazione internazionale del renminbi, ratificata dal FMI, è stata preceduta

<< a livello nazionale da una serie di riforme di grande rilievo ai fini di garantire l’importanza della legalità. Tra queste, oltre al nuovo diritto societario, è assai rilevante la revisione del 15 marzo 2015, della legge sulla legislazione del 2000, nella quale si stabilisce gerarchia e competenza di leggi, regolamenti e rapporti degli organi dello Stato, quasi ad evitare la caotica confusione della cosiddetta governance del libero mercato occidentale globalizzato>>.

Questo è tipico del prof. Rossi: le criticità economiche e in particolari quelle finanziarie dovrebbero essere risolte tramite il diritto il quale sarebbe in grado di impedire che ciclicamente il capitalismo vada incontro a quelli squilibri che, invece, ne hanno caratterizzato lo sviluppo e che per tutti i pensatori di una certa levatura sono risultati socialmente e storicamente necessari e inscritti nella dinamica strutturale dei rapporti sociali “realmente” e non solo “giuridicamente” capitalistici.

Rossi ritiene, inoltre, che il «Beijing Consensus» rappresenti in prospettiva l’unico ordine internazionale potenzialmente alternativo allo «Washington Consensus» e ai “valori americani” che egemonizzano l’occidente. Alla classica opposizione tra il capitalismo di libero mercato e il capitalismo di Stato andrebbe sostituito perciò

<<quello tra capitalismo delle cosiddette democrazie liberali e il capitalismo confuciano; il presidente Xi Jinping lo va quotidianamente rivendicando, per la creazione di un’armoniosa società globale>>.

Più realisticamente ci permettiamo di osservare che attualmente i maggiori problemi per gli Usa vengono dalla Russia e dagli sviluppi geopolitici possibili nel quadrante mediorientale. La strategia del caos, letta e teorizzata da La Grassa, è risultata indispensabile fino a questo momento proprio per impedire che in quel cruciale “spazio intermedio” si coagulassero e venissero a stabilizzarsi rapporti di forza internazionali pericolosi per la supremazia Usa.

(1)Un’operazione cross border è una transazione che implica l’acquisto e la vendita di strumenti finanziari negoziati in mercati non domestici oppure la partecipazione di controparti residenti in Paesi diversi.[Dal Sole 24 ore]

(2)<<Come scritto dalla stampa cinese, «secondo il rapporto di lavoro del governo presentato dal premier Li Keqiang, il 5 marzo scorso, la Cina lavorerà con i paesi interessati per sviluppare la «Cintura economica della Via della Seta» e la «Via della Seta marittima del 21° secolo», conosciuta anche come strategia «Belt and Road».  Le antiche rotte commerciali sono un percorso via terra dalla Cina, passando per l’Asia centrale e la Russia, verso l’Europa, e un percorso strategico attraverso lo Stretto di Malacca in India, il Medio Oriente e l’Africa orientale. Le iniziative hanno cominciato a prendere forma nel 2014 con un focus sulle infrastrutture. «Renderemo le zone interne e di confine della Cina più aperte al mondo esterno», ha scritto il premier Li nel rapporto>>. Simone Pieranni – 02.04.2015

(3)Il renminbi (o yuan) è la valuta avente corso legale nella Repubblica Popolare Cinese. Il renminbi è emesso dalla Banca Popolare Cinese, l’autorità monetaria della Repubblica Popolare Cinese. (Wikipedia)

(4) <<È il mondo che ci aspetta, finanziariamente parlando. Gli investitori che sperano nel ritorno a breve dei rendimenti pre-crisi, rimarranno delusi. Almeno questo è il pensiero di Bill Gross, autorevole gestore del fondo Pimco Total Return, espresso in occasione della consueta Morningstar Investment Conference, tenutasi gli ultimi giorni di maggio a Chicago.
Gross prevede infatti un nuovo scenario economico all’orizzonte, caratterizzato da una lenta crescita economica, rendimenti per gli investitori più bassi che nel passato e un livello di disoccupazione e di inflazione più alto. Le ragioni che stanno alla base di questa nuova e prolungata tendenza sono la maggiore regolazione dell’economia da parte dei governi, l’accesso più difficoltoso al credito e il crescente tasso di risparmio (che porterà quindi ad un abbassamento dei consumi)>>. (da Internet anno 2009)

Mauro Tozzato 01.01.2016