Il disco rotto (di Giuseppe G.)

In un breve articolo del Corriere di lunedì 11 dedicato all’importante convegno annuale organizzato dal “Cercle des économistes” a Aix en Provence, tutta l’attenzione del giornalista viene assorbita da due episodi: dall’appello “non disinteressato”, chiosa il giornale, di Zhu Min, prossimo vicedirettore cinese del FMI, rivolto all’Europa e alle sue banche, ad aprirsi e ricapitalizzarsi accettando l’ingresso dei fondi sovrani cinesi; dal richiamo pressante di Mario Monti, nella sua relazione, a combattere il ritorno dei nazionalismi e degli egoismi particolaristici, concludendo gli ormai annosi negoziati di Doha sull’ulteriore integrazione nei mercati mondiali di settori, dall’agricoltura ai servizi, sino ad ora trascurati dalle liberalizzazioni, intensificando il processo di integrazione e liberalizzazione dell’economia europea, vero fondamento dell’unità continentale.

Il giornalista, a mio parere, deve aver sofferto di una qualche forma di strabismo, legato alle aspettative politiche della nostra borghesia politicamente corretta della quale il giornale è diretto rappresentante. Ho cercato nel palinsesto i vari relatori, per attingere alle fonti originali; non ho trovato il nome di Monti, né tanto meno la sua relazione. Si è trattato, probabilmente, di un più modesto intervento in uno scenario, comunque, dove, a giudicare dai nomi dei partecipanti, la rappresentazione dello stato dell’economia mondiale e delle terapie da seguire non deve essere stata così univoca come si vorrebbe lasciare intendere.

Un esame approfondito delle relazioni potrà sciogliere, in futuro, ogni dubbio in proposito.

L’impronta dell’articolo, pur tuttavia, rivela, sia pure in maniera involontaria, un aspetto di fondo importante.

Entrambi i protagonisti dell’articolo sono fautori dell’apertura economica.

Il primo la sostiene con la sfrontata e pacata ipocrisia di un esponente di un paese sovrano, la Cina, orgoglioso della propria autonomia, cosciente del fatto di aver saputo approfittare delle aperture di mercato, selezionando gli interlocutori e dettando le condizioni della collaborazione economica nei suoi vari aspetti: controllo rigido dei flussi finanziari vincolati alla acquisizione delle tecnologie, alla creazione di indotto e capacità imprenditoriale, a forme di collaborazione tra proprietà pubblica e comunitaria e imprenditoria privata. Un paese che ha compreso, inizialmente, il valore propedeutico di un accordo politico con la superpotenza dominante senza cadere nella trappola dell’applicazione dogmatica dei principi liberisti nonché le opportunità offerte da una forma di imperialismo che, a differenza di quello inglese e di quelli colonialisti di fine ottocento, consentiva, almeno sino ad ora, una relativa libertà di rapporti tra paesi periferici; una visione, quella cinese, probabilmente ancora prevalentemente economicista, inizialmente efficace, ma che attualmente sta mostrando seri limiti con la svolta di Gates-Obama di cinque anni fa. L’ultimo piano quinquennale e qualche paletto messo agli americani in Pakistan lasciano intravedere, comunque, la percezione di questi limiti.

Più importante per noi, per evidenti ragioni di vicinanza e immediatezza, analizzare l’atteggiamento del secondo, di Mario Monti.

Un esponente tecnocrate economista, con un importante passato di commissario alla concorrenza della UE, un presente di accademico capofila dei circoli europeisti più ortodossi e di forti legami con Goldman & Sachs e Trilateral Commissionchairman , in un viatico da cui pare ultimamente impossibile prescindere per accedere ai più importanti incarichi istituzionali in Europa o governativi in Italia, come sembra probabile in caso di governo di emergenza o con una nuova maggioranza politica. I più solerti o quantomeno più appariscenti nel promuovere l’esponente sono, ancora una volta, i rappresentanti del PD, soprattutto quella componente tecnocratica che più si è agitata nel perseguire la nomina di Mario Draghi alla direzione della BCE. Appariscenti non significa necessariamente determinanti; questo appare, del resto, la conferma del destino inesorabile di un partito il cui ruolo, a prescindere dagli esiti elettorali, appare sempre più ancillare nel pur desolante quadro politico nazionale.

Il bersaglio grosso, all’indice dell’anziano templare, è la ripresa dei nazionalismi, la spada per centrarlo e fiaccarlo è la progressione del modello attuale di Unione Europea e la sua riproposizione a livello mondiale, l’alternativa è un cosmopolitismo veicolato dal mercato unico europeo e mondiale.

È il leit-motiv ricorrente da oltre trent’anni in Europa; ha conosciuto il proprio apogeo celebrativo negli anni ’90; ha iniziato a perdere vistosamente la propria sicumera deterministica da circa sette anni sino a doversi difendere con qualche affanno dalle critiche più disparate, alcune ben fondate, altre di impronta romantica e reazionaria.

Mario Monti, da par suo, continua indefessamente a ripetere le vecchie tesi come un disco di vinile rotto.

Chi ricorda il glorioso long playing (LP), rammenta anche l’iniziale effetto ipnotico generato dalla ripetizione ossessiva del brano registrato in un solco interrotto.

Per questo motivo l’economista deve essere stato scelto da Barroso, Presidente della Commissione Europea, per elaborare “una nuova strategia per il mercato unico al servizio dell’economia e della società europea”.

Con le sue centodiciotto pagine di documento, il nostro ha prontamente e ossequiosamente risposto all’appello.

L’elaborato merita una attenta riflessione più che per la qualità dell’analisi e delle proposte, in gran parte banali, perché rivelatore della visione e della strategia politica propria degli europeisti deterministi ad oltranza.

Il documento, ben imbeccato dalla lettera di incarico di Barroso, parte dalla constatazione della crescente diffidenza e ostilità verso l’attuale progetto europeista, additando nel risorgente nazionalismo dei singoli paesi la causa del rallentamento del processo di integrazione.

Il nazionalismo, in realtà, diventerebbe l’ideologia in grado di coagulare gli interessi retrivi e localistici con il malessere e le preoccupazioni di forze sociali le più disparate, capaci di condizionare pesantemente i governi nazionali e di indurli ad una più accesa e sorda difesa delle proprie prerogative.

Si parte dai “rent-seeker” (cercatori di rendita), veri paladini degli interessi corporativi contrapposti all’universalismo del mercato unico, per proseguire con le preoccupazioni dei consumatori, non adeguatamente tutelati dagli attuali meccanismi di mercato, con quelle dei cittadini in difficoltà nel vedersi riconoscere i diritti legati alla famiglia, allo studio, alle successioni, con quelle ambientali e quelle sociali, queste ultime legate alla difficoltà di attuazione delle politiche redistributive e agli squilibri e alle minacce ai diritti acquisiti, più apparenti che reali, secondo il giudizio imperterrito del relatore, determinati dalla mobilità della forza lavoro e dalla delocalizzazione delle attività, con questo gettando un rassicurante colpo di spugna sul pesante dualismo sempre più presente nelle società e con caratteristiche particolarmente odiose nei paesi più arretrati, privi di attività strategiche o, almeno, di rilevanza intermedia, laddove i ceti parassitari risultano di gran lunga meglio tutelati dei settori produttivi; si conclude, infine, con le preoccupazioni delle imprese: quelle grandi scontente della mancanza di reciprocità di condizioni tra Unione Europea e altri importanti paesi del mondo in materia di concorrenza, sostegno pubblico e così via; le piccole e medie (PMI), il vero nocciolo duro dell’economia europea, sempre secondo il relatore, combattute tra la difesa delle proprie nicchie locali e nazionali e la richiesta di un mercato unico più agibile e fruibile.

All’analisi sociale fa da interessante corollario l’approccio storico sostenuto dagli stati europei, suddivisi di fatto in tre gruppi, durante il processo di integrazione. Ai paesi del blocco continentale ad “economia sociale di mercato”, fautori di politiche redistributive e di interventi diretti dello stato a sostegno dell’economia e delle singole aziende e i più convinti sostenitori, almeno inizialmente, del processo di integrazione europea, si contrappongono i paesi anglosassoni, in realtà la Gran Bretagna, ostinatamente scettici e restii nella prosecuzione del processo di integrazione, in realtà i veri vincitori nella affermazione dei principi informatori del processo intrinsecamente legato e determinato dalla costruzione preliminare e prioritaria del mercato unico. A questi due gruppi principali si aggiunge quello dei nuovi arrivati, per lo più di piccole dimensioni, importante per l’aperto sostegno alle attuali politiche comunitarie e per la diligenza con cui applicano le normative.

L’analisi ovviamente non è fine a se stessa; mira, invece, ad individuare i punti di sofferenza e a discriminare le forze apertamente ostili da quelle critiche ma suscettibili di essere ricondotte alla causa.

In realtà i punti deboli e le contraddizioni delle tesi di fondo minano profondamente la solidità delle argomentazioni e del progetto politico, esponendolo a un destino incerto e impaludato in continui ed estenuanti compromessi oppure a scelte tanto più autoritarie quanto meno validamente argomentate.

La stessa posizione sui nazionalismi, più che una critica appare un esorcismo teso a ridurre ogni critica all’attuale europeismo a una difesa retriva di interessi localistici e allo spauracchio della riproposizione dei nazionalismi sciovinisti degli anni ’30 portatori di guerre e distruzioni; quello stesso utilizzato dall’antifascismo rituale nostrano per perpetuare la propria dipendenza maturata con il dopoguerra e protrattasi, in maniera sempre più decadente e retriva, ai giorni nostri.

Non vi è alcuno sforzo mirante a confutare le tesi di una rifondazione dell’unione sulla base di accordi tra stati in condizioni operative relativamente più omogenee, basata su una opzione autonoma dalle pretese atlantiche e sulla costruzione di una identità politica e culturale che permetta in tempi ragionevoli l’edificazione di apparati statali e istituzioni sovrane su insiemi di attuali stati europei.

Ai nazionalismi, quindi ad ideologie e strategie politiche più o meno lucide, si contrappone asimmetricamente la costruzione di un mercato unico al servizio del consumatore, il vero sovrano della Comunità. Il modello adottato e da perfezionare è quello anglosassone con qualche concessione alle politiche redistributive, così come esorta il relatore, ma solo per addivenire ad un accordo politico tra tutti gli stati. In realtà il modello non è quello anglosassone, troppo debole per poter vivere di luce propria; di fatto è quello liberista americano di cui il britannico è solo un appendice con la funzione di guardiano e sabotatore di ogni istanza con qualche parvenza autonomista; come pure il sistema americano è il principale referente, dice la Commissione, il principale promotore e fautore, diciamo noi di “conflitti e strategie”, di questa Comunità Europea. Il relatore, come pure la Commissione Europea (CE), sono profondamente convinti di ciò, come pure del fatto che la costruzione politica dell’Europa debba solo seguire quella del mercato.

La contrapposizione principale sarebbe, quindi, tra il consumatore sovrano e gli interessi localistici e lobbistici. La CE deve essere il garante di questa sovranità perfezionando i meccanismi di mercato, rimuovendo gli ostacoli amministrativi, temporali e spaziali al libero accesso, provvedendo alla infrastrutturazione della rete.

Dalla debolezza di fondo di questa impostazione derivano alcune direttive corrette ma, tutto sommato, spesso di importanza marginale rispetto ai problemi essenziali; ma anche prese di posizione al limite della farsa.

Ai lobbisti di provincia, i reali deterrenti del processo di unificazione, si contrappongono i valori universali difesi dalla Commissione.

La CE ed il suo apparato burocratico, in realtà, rappresentano la sintesi perfetta di una istituzione lobbistica, addirittura superiore a quella del sistema politico-strategico americano.

Di nomina intergovernativa, anche se con l’approvazione del Parlamento Europeo, organizzata in una pletora incredibile di comitati e settori, investita del potere di emanazione di disposizioni, direttive e regolamenti soggetti in minima parte al controllo del Parlamento, ma priva di un proprio apparato esecutivo e coercitivo ne fanno il terreno ideale di incontro e di scontro di interessi lobbistici senza quella minima trasparenza e manipolazione e quella minima preoccupazione di costruzione di blocchi sociali secondo le modalità proprie delle democrazie occidentali.

È la forza e soprattutto la debolezza di questo importante apparato, di conseguenza la debolezza di questo processo di integrazione europea in gran parte eterodiretto da oltreatlantico.

Alla ricerca della maggior autonomia operativa possibile, una aspirazione tipica di ogni apparato, la Commissione deve, attualmente, i propri margini di contrattazione e cooperazione con il Consiglio Europeo a due fattori: al peso delle lobby finanziarie, industriali e degli apparati statuali in primo luogo americani e al carattere pletorico dell’attuale Unione a venticinque stati che le consente di far leva sul fervente europeismo filoamericano e liberista dei paesi dell’Est-Europa; quest’ultimo, una delle leve non a caso evidenziate nel documento di Mario Monti per rafforzare il ruolo della Commissione Europea, ma anche quella più confessabile. Non è un caso che la CE, negli ultimi quindici anni , si sia sempre distinta nelle posizioni più oltranziste filoamericane in politica estera (Afghanistan, Iran, Iraq, Libia, Georgia, Ucraina), nei suoi ostracismi verso la Russia, nella apertura economica unilaterale a paesi di stretta osservanza occidentale (Corea) e nel tentativo di cessione di vere e proprie fette di sovranità alle istituzioni americane (cessione dei dati sensibili dei cittadini europei all’intelligence americana).

La sovranità del consumatore e del mercato unico sono, in realtà, la vera e propria foglia di fico, la manifestazione della realtà più superficiale utile a giustificare le scelte di allargamento a ventisette stati diversissimi tra loro, di coincidenza sempre più stretta della Comunità Europea con l’ombrello della NATO, nonché le dinamiche di asservimento progressivo dei paesi minori alle potenze regionali e a quella dominante da cui queste dipendono.

Attualmente il ruolo della Commissione Europea appare in lento declino rispetto al nuovo peso e interventismo che si sono assunti direttamente i centri strategici di Germania, in primo luogo e di Francia e Gran Bretagna.

È una diretta conseguenza della politica del gruppo strategico coagulatosi attorno a Gates-Obama.

Il documento, in realtà, persegue due finalità: una generale che è quella dell’individuazione del blocco sociale in grado di sostenere l’attuale processo di integrazione in evidente crisi di consenso, una particolaristica legata alla necessità di potenziare o almeno preservare, nel quadro dei conflitti in corso, il ruolo della Commissione.

I punti in cui il documento supera la propria genericità e il carattere di pamplet propagandistico sono, non a caso, quelli riguardanti le proposte di allargamento fattuale dei settori soggetti al mercato unico (digitale, agricolo, finanziario e bancario, dei servizi), di snellimento e uniformità delle normative tese a agevolare l’integrazione e, soprattutto, l’avvio deciso della green economy e l’individuazione delle piccole e medie aziende come il vero nocciolo duro su cui intervenire per superare le resistenze protezionistiche e poggiare gli ulteriori sviluppi del processo. Tutte proposte e indirizzi con una impressionante analogia e affinità con quelle oggetto di trattativa nei negoziati di Doha, non a caso sostenuti a spada tratta dal relatore; come una analogia impressionante la hanno con la nuova attenzione ai ceti medi imprenditoriali rivolta dalla sinistra.

Le priorità assegnate alla “green economy”, all’energia alternativa e alle PMI rappresentano, in realtà, il carattere subalterno e falsamente progressista di queste scelte.

L’attenzione unilaterale e massiva volta alle energie alternative comporta, tra l’altro, la necessità di concentrare risorse massive su settori in grado di garantire, in futuro, solo una piccola parte del fabbisogno energetico e su tecnologie sperimentali che potrebbero essere rapidamente svalorizzate dal futuro sviluppo tecnologico; pare, più che altro, un recupero a buon mercato delle forze ambientaliste alla causa europeista.

Le difficoltà stesse di costruzione di un blocco sociale siffatto fondato sui ceti imprenditoriali medio-bassi sono enormi, non fosse altro per il forte radicamento territoriale delle PMI sulle quali l’analisi soffre della mitizzazione del ruolo del mercato estero. In Italia, ad esempio, secondo paese esportatore in Europa, le PMI che svolgono prevalente attività commerciale con l’estero sono poco più di un migliaio, a detta della Marcegaglia, presidente di Confindustria.

Si riducono inesorabilmente nella misura in cui il rapporto ignora totalmente il ruolo della grande industria, specie di quella strategica.

Il settore viene considerato solo per rintuzzare le critiche di evanescenza del ruolo internazionale della Comunità, di mancanza di sostegno e per ribadire che l’unica politica possibile è quella di convincere gli altri paesi ad adottare le stesse pratiche liberiste e di mercato libero.

Siamo al punto cruciale del rapporto, rivelatore della natura di questa costruzione.

L’industria strategica per mantenersi e svilupparsi ha bisogno di scelte politiche autonome e sovrane, di istituzioni forti ed autorevoli per sostenerla all’estero e all’interno, di una concentrazione di risorse e strutture che hanno a che fare in minima parte con le logiche del mercato libero.

La Comunità Europea queste strutture non le ha, né prevede di averle, precludendosi ogni possibilità di costruzione autonoma.

Racconta la favola di Silicon Valley come esempio liberista da imitare, ignorando il ruolo dello stato, delle spese militari e della ricerca universitaria nel determinare lo sviluppo e il predominio tecnologico americano.

Tutto viene demandato alle residue risorse dei singoli stati nazionali europei con la fissazione spesso arbitraria di paletti limitativi, di scorpori e di processi di frammentazione.

La politica finanziaria di rientro drastico dei deficit pubblici, di coordinamento fiscale in un contesto di liberalizzazione finanziaria esterna e di assenza di sovranità monetaria consentirà solo a pochissimi paesi e in maniera del tutto insufficiente di sopravvivere in maniera autonoma.

Le rassicurazioni capziose, contenute nel rapporto, sul mantenimento della sovranità fiscale, garantita dalle attuali politiche, non sono altro che la riduzione degli stati nazionali più deboli al ruolo di semplici gabellieri per conto terzi.

L’apologeta di periferia continua a ripetere le tesi contro ogni evidenza, contro ogni analisi che evidenzi i dualismi sempre più esasperati e accentuati dall’introduzione del mercato e della moneta unica; sopravvaluta i successi di quello che appare, nell’Est-Europa, poco più di un saccheggio del patrimonio professionale costruito con la formazione scolastica del blocco sovietico; ignora le stesse correzioni di rotta in corso nella madre patria del liberismo oltranzistico, tendente a riconoscere un ruolo agli stati, un po’ per la pressione esercitata dalle nazioni emergenti, un po’ perché il centro imperiale stesso ha bisogno di una qualche forma di protezionismo che garantisca una formazione sociale più equilibrata e sostenibile.

Probabilmente il ritornello continuerà sino a quando una mano, la manina d’oltreoceano, sposterà la puntina sul solco successivo e la musica potrà proseguire secondo i nuovi registri assegnati.

In realtà, il mercato interno unico è sempre stato favorito dai centri strategici che hanno a cuore la creazione di un paese e di uno stato indipendente e autonomo in un contesto internazionale sempre più conflittuale; ha goduto, però, della protezione necessaria secondo il grado di sviluppo della struttura economica e soprattutto di una strategia politica, di un sostegno diretto dei settori strategici e di una sovranità sugli strumenti corrispondente allo spazio geografico di azione degli stati.

L’esatto contrario di quello che è, oggi, l’Unione Europea, comprese le scelte sciagurate di allargamento; più che una costruzione di una Europa forte, appare una politica cosciente di mantenimento di stati europei sempre più deboli.

Non a caso i discepoli di questi tecnocrati, sempre più in auge anche nel Bel Paese, favoleggiano di istituzioni sovranazionali, postnazionali o quant’altro dall’identità indefinita, ignorando bellamente la storia dei processi di formazione degli stati, come pure il fatto che il cosmopolitismo dei centri strategici europei poggi ancora saldamente sui legami e sul sostegno dei singoli stati nazionali europei e americani piuttosto che su istituzioni prive di peso statuale; iniziano a riconoscere l’importanza delle scelte politiche ed istituzionali; riducendole però a giochi formalistici e subordinandole ancora una volta a scelte di tipo economicistico.

Da queste basi bisognerà ripartire per riproporre un processo unitario che poggi chiaramente su quegli stati nazionali attuali con un minimo di omogeneità strutturale e ambizione di autonomia politica e che dia priorità alla strategia politica piuttosto che alle presunte virtù dell’inerzia economicista e liberista.

La religione ed il determinismo europeisti sono stati sconfitti, almeno nei livelli di consenso; ricondotto finalmente sul terreno delle scelte politiche, bisognerà sconfiggerlo nelle sue proposte e soprattutto nei suoi gruppi i quali nascondono il loro asservimento in un cosmopolitismo atomistico e formalistico.

Il destino dell’Europa comunitaria e dei suoi stati nazionali è altrimenti segnato: quello di essere un semplice corollario politico ed economico di altre strategie, per il momento solo americane, in futuro anche di altri protagonisti.

Quello che sta succedendo all’Italia, ormai un terreno di conquista, potrebbe essere il prodromo di tanti altri paesi attualmente ringalluzziti dalla consumazione delle briciole concesse dal padrone benefattore.

 

http://ec.europa.eu/bepa/pdf/monti_report_final_10_05_2010_it.pdf

 

http://www.selpress.com/confapi/immagini/110711A/2011071131839.pdf

 

sandro gozi- il governo dell’europa- il mulino