IL FALLIMENTO DELL’”ECONOMICA” COME SCIENZA “ESATTA” – (Prima parte)

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Sul Sole 24 ore del 07.01.2017 sono apparsi un paio di articoli che discutono di un fatto che risulta da tempo assodato, anche tra i non addetti ai lavori, ma rispetto al quale non vengono quasi mai tratte le debite conclusioni. La scienza economica nella versione portata avanti dai “professionisti” che la praticano risulta totalmente incapace di previsioni minimamente attendibili, sia per quanto riguarda lo sviluppo e la crescita in senso stretto (produttiva, occupazionale, finanziaria ecc.) sia, soprattutto, relativamente alle conseguenze più complessive concernenti l’andamento e l’evoluzione delle dinamiche sociopolitiche più generali. Così L. Maisano riporta lo stato d’animo di un autorità in materia:

<<“Noi economisti siamo in crisi”. Andrew Haldane, chief economist della Banca d’Inghilterra, strappa il velo sul dibattito che sottotraccia si trascina dalla crisi di Lehman. Con un atto di pubblico pentimento confessa di credere che il fallimento (relativo) nella previsione delle dinamiche economiche sia una realtà incontestabile. […]Individua anche le ragioni all’origine di analisi scorrette. “I modelli su cui ci basiamo sono fragili e irrazionali, i problemi sono emersi quando il mondo è cambiato radicalmente e quei modelli si sono rivelati inadeguati per valutare comportamenti profondamente irrazionali”.>>

Proprio gli economisti “ortodossi” – per la quale la società è composta da “atomi” individuali che interagiscono tra loro  a partire dalle due fondamentali “istituzioni” che sono l’impresa e il mercato – potrebbero comprendere meglio di altri, io penso, che il risultato del caotico movimento di queste particelle deve per forza presentarsi come del tutto imprevedibile. Haldane sembra capirlo, ma allora perché continua a  ritenere, allo stesso tempo, che si tratti soltanto di un mancato adeguamento di modelli matematici astratti ? L’economista britannico ritiene, inoltre, che si sia sostanzialmente ripetuta la situazione che aveva preceduto la “grande crisi” iniziata nel 1929, con la differenza che questa volta non si intravvede nessuno che possa sviluppare delle idee innovative come, in quella contingenza, seppe fare Keynes. In definitiva, come è stato spesso rilevato anche da altri, Haldane è costretto ad ammettere che gli economisti non sono in grado di fare meglio dei meteorologi per quanto riguarda, soprattutto, le previsioni a medio e lungo termine. Se facciamo riferimento, per esempio, ai recenti sviluppi che hanno caratterizzato il Regno Unito abbiamo tutti visto quanto scalpore ha fatto l’apparente radicale smentita delle previsioni che davano per scontata dopo la Brexit, secondo la Bank of England, l’innescarsi di una recessione quasi immediata “mentre il 2016 si è chiuso sugli scudi e il 2017 sta cominciando assai meglio del previsto”. Nonostante questi sviluppi ritenuti imprevedibili non si può affermare, però, con sicurezza che le cose continueranno in questo modo per gli inglesi, soprattutto se si comincia finalmente a tenere in debito conto i fattori più propriamente “politici”:

<< La confusione su “quale Brexit ?” in cui si crogiola il premier Theresa May e l’aver rinviato di otto mesi l’avvio del processo di recesso che tutti immaginavano avvenisse subito, sono elementi che hanno complicato la carte degli economisti . E per converso tranquillizzato, sul breve almeno, i consumatori che continuano a spendere, sostenendo una crescita che si giova, inoltre, di un pound indebolito. Proprio la tenuta dei consumi dal 2008 ad oggi, secondo Haldane, è uno dei comportamenti più “irrazionali” che gli economisti non avevano immaginato.>>

Questo continuo tirare in ballo l’irrazionalità dimostra solamente che Haldane non riesce proprio a raccapezzarsi  nonostante la sua eccellente preparazione “tecnica”. Eppure dovrebbe apparire ovvio che il sistema sociale risulta costituito da varie “sfere” e da un numero notevole di istituzioni e associazioni che non sono solo di tipo economico ma anche afferenti a funzioni  politiche, amministrative, ideologiche, culturali, ecc.. E soprattutto – nonostante che i risultati differiscano inevitabilmente dai fini che ci si prefigge – il momento “politico”, in senso lato, risulta in ogni ambito quello decisivo perché la competizione economica è soltanto o una forma dimidiata di conflitto oppure un aspetto, peraltro importante, di uno scontro strategico più complessivo tra gruppi sociali e/o Stati. Il capo economista della Banca d’Inghilterra è costretto, comunque, come è riportato nella conclusione dell’articolo ad ammettere la necessità che l’economia si apra “ad altre discipline” per “ampliare i propri modelli di analisi” e riuscire a “interpretare dinamiche incomprensibili se lette solo con la lente di un approccio convenzionale”. E d’altra parte tutti sanno che i “grandissimi” nella storia del pensiero economico – tra i quali viene unanimemente inserito anche Marx  per il quale vale in ogni caso ciò che ha più volte ripetuto La Grassa riguardo il significato e la collocazione della critica dell’economia politica – come Smith, Schumpeter, Keynes, Hayek, ecc. hanno sviluppato in realtà delle teorie della società in cui avevano uguale dignità la  filosofia e  la scienza politica (e del diritto) come anche riflessioni epistemologiche e storiche. Il peso dell’ideologia e della collocazione politica ha, comunque, sempre pesato molto anche nelle importanti costruzioni delle menti più creative così che, ad esempio, un Weber, che si considerava discepolo di Nietzsche, ha vissuto in maniera sofferta il contrasto tra la sua mentalità scientifica rigorosa, la sua formazione liberale e l’attrazione da lui provata per l’ideale di un potere politico carismatico “illuminato” e “taumaturgico” mentre Schumpeter, che pure interpretava il capitalismo come un processo dinamico, rimase affascinato dal modello matematico, sostanzialmente “statico”, di Walras al punto da definire l’opera maggiore di quest’ultimo ”la magna carta della teoria economica come scienza autonoma che ci assicura che il suo contenuto è un cosmo e non un caos”.  Gli economisti “tecnici” in quanto tali dovrebbero, ad ogni modo, fare riferimento, per poter sviluppare meglio le loro analisi, ad autori e visioni del mondo più ampie e complessive. Solo in questa maniera sarebbero in grado, almeno in parte, di muoversi nei complicati meandri della realtà effettuale della società e di avanzare ipotesi sensate sui possibili sviluppi futuri.

Mauro Tozzato 14.01.2017