IL NUCLEARE E LE SUE ALTERNATIVE di F. D’Attanasio

 

 

LiberoMercato, l’inserto economico-finanziario del quotidiano Libero, ha dedicato, negli ultimi tempi ampio risalto alla questione della politica energetica del nostro paese, con occhio rivolto soprattutto all’energia nucleare. Provo a fare un breve resoconto, ben cosciente della complessità dell’argomento. L’idea che comunque mi sono fatto, leggendo anche altre fonti, è che questa problematica ha svariate sfaccettature, e le divergenze di opinioni, anche dei maggiori esperti, dipendono soprattutto dalla diversa gerarchia dei numerosi aspetti che concorrono a formare poi l’idea complessiva. Ad esempio chi ritiene prioritario la salvaguardia dell’ambiente, perché in qualche modo convinto che sia oramai in atto una tendenza molto pericolosa che possa seriamente mettere in pericolo l’esistenza degli esseri viventi di tutto il pianeta, propende per le fonti rinnovabili; chi invece ritiene non avere la questione ambientale tale portata, tende a dare maggior risalto all’aspetto della convenienza economica e quindi a considerare irrinunciabile l’opzione nucleare.

In realtà, una questione da cui sembra non si possa prescindere, è il vincolo, a cui l’Unione europea dovrebbe sottostare, posto dal pacchetto per la lotta ai cambiamenti climatici noto come “20-20-20”, il che vuol dire:

  1. tagliare del 20% le emissioni di CO2
  2. migliorare del 20% dell’efficienza energetica
  3. produrre il 20% dell’energia da fonti rinnovabili

tutti traguardi da raggiungere entro il 2020.

Ma un primo strappo a tal riguardo, in seno all’Unione, è stato avanzato da un gruppo di sette paesi dell’Est (Ungheria, Estonia, Lituania, Lettonia, Romania, Bulgaria e Slovacchia) i quali chiedono di rivedere la distribuzione degli obiettivi di riduzione delle emissioni per evitare di compromettere la crescita delle proprie economie; gli stessi dichiarano di avere fatto tanto già prima del 2005, anno in cui la Commissione europea ha iniziato a verificare i dati provenienti dai vari Stati membri. Ma critiche e perplessità sono state sollevate da più parti in Europa, non solo per l’entità degli obiettivi da raggiungere che richiederebbero degli sforzi economici non realisticamente sopportabili, ma anche in merito ai parametri adottati per la ripartizione tra i vari paesi delle quote di riduzione delle emissioni. E’ Corrado Clini, dal 1990 direttore generale del ministero dell’Ambiente, in una intervista dallo stesso rilasciata a LiberoMercato, a spiegare come il parametro adottato per la ripartizione del taglio della CO2 si basi sul pil pro capite; ciò ha come paradosso il fatto che vengano penalizzati maggiormente i paesi più virtuosi. Difatti, alla Germania che nel 1990 inquinava il doppio dell’Italia, basando la sua produzione energetica sul carbone, è bastato, per abbattere le emissioni, passare dal carbone al gas. L’Italia, che nel 1990 aveva un livello di efficienza energetica più alto della media europea e un livello pro capite di emissioni più basso della media UE, ha dovuto fare sforzi maggiori, perché già basava la sua produzione sul gas, che inquina 4 volte meno del carbone. Quindi chi ha un’efficienza energetica più alta ed immette meno CO2 nell’aria, deve compiere sforzi economici maggiori per rientrare nel target. E per l’Italia, da questo punto di vista, la situazione è veramente difficile; ciò si evince da uno studio condotto dall’Enea che tramite una attenta valutazione delle politiche e misure decise, operative e quelle ancora allo studio, stima una riduzione possibile di gas serra al 2020 del 7,4% rispetto al 1990, ben lontano dal 13% richiesto dal pacchetto europeo. Si tratta anche, a detta dello stesso Clini, di scelte politiche, difatti alla Francia, che aveva livelli di emissioni leggermente più bassi dell’Italia, non è stata richiesta alcuna riduzione rispetto al 1990.

Ma tenendo conto di questo scenario la domanda è: il gioco vale la candela? Sembrerebbe proprio di no, almeno secondo l’Istituto Bruno Leoni; ma vediamo il perché. L’Europa è responsabile di meno del 20% delle emissioni globali. Un dimezzamento delle emissioni – il che è quasi certamente al di fuori di ogni più rosea e realistica previsione – porterebbe dunque a un abbattimento di quelle globali di meno del 10%. Nel frattempo, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, il consumo globale di energia primaria aumenterà, al 2030, del 55%, e sarà imputabile per i due terzi alle economie emergenti (Cina e India in testa). Le emissioni seguiranno un trend simile, con la conseguenza che al danno si aggiunge la beffa; non solo l’effetto, che si vorrebbe positivo sull’ambiente a livello mondiale, sarà trascurabile, ma aspetto ancor più grave, il pacchetto 20-20-20 risulterà dannoso per l’economia dei paesi europei, sia per l’innalzamento dei costi (enormi) che bisognerà affrontare per il raggiungimento degli obiettivi e sia perché le imprese energivore saranno incentivate a migrare nei paesi a minor costo dell’energia. Ora qui bisognerebbe fare una lunga digressione, di carattere prevalentemente politico, che parta dalla constatazione di come l’Unione Europea debba essere costretta a rispettare tutta una serie di vincoli, di più svariata natura, che nessun altro paese o area geografica del mondo è altrettanto costretta a fare. Mi limito a citare brevemente i parametri di Maastricht, un vero e proprio cappio al collo all’avanzare delle economie dei vari paesi membri, specialmente di quelle più deboli; la priorità assoluta data al risanamento dei bilanci pubblici (con annesso corollario di politiche monetarie, decise dalla BCE e assolutamente non sindacabili da alcunché, eccessivamente restrittive, rispetto ad esempio a quelle avallate dalla FED americana), quale panacea di tutti i mali sociali ed economici, in realtà non sta dando nessun risultato rispetto agli obiettivi dichiarati (si pensi ad esempio al controllo dell’inflazione ed alla stabilità dei prezzi); ma allora le nostri classi dirigenti politiche al servizio di quali interessi lavorano?

Tornando al discorso energetico, quale ruolo, a questo punto può avere l’energia dell’atomo nel tentativo di ridurre in maniera significativa le emissioni di CO2 nell’atmosfera? Fondamentale, sempre secondo Clini, difatti non è assolutamente vero che, contrariamente a quanto sostengono molti ambientalisti, il mondo si stia muovendo verso la dismissione del nucleare (certo qui bisognerebbe rilevare che ciò discende prevalentemente da ragioni, per così dire, meno “nobili” di quelli ambientali, ma sicuramente altrettanto importanti, quali una politica energetica consona il più possibile allo sviluppo e al raggiungimento, da parte del sistema produttivo nazionale di riferimento, di livelli competitivi adeguati). Difatti stanno costruendo una centrale in Finlandia, due nuove in Francia, la Gran Bretagna sta rilanciando il nucleare, il cancelliere Merkel sta ponendo dubbi sugli obiettivi del governo precedente di uscire dal nucleare, dato che allo stato attuale delle cose, in Germania il 25% dell’elettricità proviene dall’atomo. Analogo discorso vale per Cina e Russia; la prima ha in progetto di costruire, entro il 2020, 30 centrali, la seconda addirittura sta puntando alla costruzione delle centrali di quarta generazione, grazie al contributo dell’italiana Del Fungo Giera Energia (ne abbiamo parlato in maniera specifica su questo blog, alcuni giorni fa). D’altronde, per quanto riguarda le fonti rinnovabili, con le tecnologie attuali, facendo il massimo sforzo, moltiplicando per 300 il solare attivo in Italia, per 10 volte l’eolico, raddoppiando la produzione di energia da biomasse da rifiuti, aumentando del 25% quello dell’idroelettrico, noi copriremmo il 10% della domanda di energia primaria al 2020, la metà dell’obiettivo europeo. Anche se, molto probabilmente, questa tendenza potrà essere in futuro migliorata con lo sviluppo di nuove tecnologie, non possiamo comunque a priori sapere dove concretamente, il progresso scientifico in tale settore, ci possa condurre. Addirittura neanche dal carbone sembra che l’Italia possa prescindere; non a caso l’Enel in Cina, grazie al protocollo siglato, tre settimane fa a Pechino, dallo stesso Clini, Fulvio Conti e dal ministro della Scienza e Tecnologia cinese, sta studiando la creazione di impianti che pompano le emissioni di CO2 spingendole nel sottosuolo e imprigionandole in siti geologicamente sicuri, che in genere corrispondono a miniere di carbone già finite o a giacimenti esausti di olio o di gas.

Ma per quanto riguarda il rilancio del nucleare in Italia le difficoltà non sono certo poche, a partire dai costi; difatti affinché sia resa conveniente la creazione di un sistema di sicurezza, controllo e vigilanza a livello nazionale (che di per sé rappresenta una ulteriore difficoltà, dopo vent’anni di moratoria nazionale) bisognerebbe costruire almeno cinque o sei centrali per raggiungere l’obiettivo di produrre diecimila megawatt di potenza elettrica, per un costo complessivo di circa 30 miliardi di euro; una cifra considerevole che difficilmente potrà essere messa insieme da investitori privati senza l’ausilio delle finanze pubbliche (in Finlandia ad esempio, il governo è intervenuto assumendosi i costi dello smaltimento dei rifiuti e del futuro smantellamento della centrale, inoltre ha esercitato una moral suasion per favorire la nascita di un cartello di aziende che si sono impegnate a comprare l’elettricità che verrà fornita dalla centrale stessa). Una ulteriore difficoltà è rappresentata dall’individuazione di siti idonei.

Sulla questione nucleare inoltre, di recente, si è aperto un dibattito se, per un paese come l’Italia, nel caso si concretizzasse la possibilità di riavviare la produzione di energia elettrica dall’atomo, possa essere più conveniente partire subito con reattori di terza generazione o accelerare lo sviluppo tecnologico e l’installazione di quelli di quarta. Questi ultimi sebbene sembrano comunque prospettare tempi di realizzazione più lunghi, presentano dei notevoli vantaggi rispetto ai primi: una maggiore efficienza di sfruttamento dei materiali fissili, con conseguente minor produzione di scorie; la possibilità di utilizzare non solo Uranio, le cui riserve sembra debbano esaurirsi in meno di un secolo, ma anche materiali non fissili (uranio-238 e, in futuro, anche torio), sfruttando i processi di fertilizzazione.

Ma l’aspetto più importante è che le fonti rinnovabili e quella dell’atomo possono essere complementari; difatti il nucleare serve per la produzione di energia elettrica di base, cioè in quella fascia che viene utilizzata sia di giorno che di notte, quindi, ad esempio, le fonti solari sarebbero estremamente utili nelle ore diurne, quando la richiesta energetica schizza a quasi il doppio di quella notturna.     

In definitiva è facile rendersi conto di quanto complessa e delicata sia la questione, certezze ve ne sono veramente poche; comunque una cosa sembra, allo stato attuale dell’arte, essere ragionevole più di ogni altra, vale a dire investire in tutti i settori che in qualche modo sembrano promettere risultati, difatti la ricerca e lo sviluppo non sappiamo a priori dove in futuro ci possano portare. Quindi, niente strali inconsulti, né contro il nucleare, né contro le fonti alternative, l’importante è che tutto venga fatto e deciso all’interno di una quadro politico di riferimento avente come priorità lo sviluppo che non è una iattura ma l’unica alternativa perseguibile, la sola, così come sempre è stato nella storia delle società umane, capace contemporaneamente, di farci progredire e di risolvere i problemi di più svariata natura.