In difesa del pensiero di Costanzo Preve in quanto pensiero filosofico


La persona più, non tanto titolata, quanto dotata per difendere le tesi filosofiche di Preve è, ovviamente, Preve stesso: arrogarmi il ruolo di difensore d’ufficio sarebbe quanto mai sciocco, in considerazione della manifesta inferiorità della mia dotazione filosofica. A me interessa piuttosto il percorso delineato dalle persone che gravitano attorno a questo blog ed è solo in funzione di un possibile contributo alle loro analisi che presento alcune riflessioni, svincolate dalle tesi sostenute dal nostro, per concentrarmi sulla loro radice, nell’ipotesi che proprio questa radice possa risultare indigesta.
Per cominciare direi che quando Preve si scaglia con durezza contro i detrattori della filosofia, o meglio contro i negatori di uno spazio conoscitivo autonomo della filosofia, lo faccia per una sorta di eccesso di legittima difesa. Costanzo è filosofo professionista e ciò significa che, al di là del tempo che materialmente dedica allo studio, al dialogo e alla scrittura, la sua testa è probabilmente dentro la filosofia in modo permanente, quasi ad identificarsi con essa. Per inciso, non credo che ciò valga per tutti i filosofi, ma è una valutazione soggettiva e imponderabile. Negare verità alla filosofia è quindi negare la verità dell’esistenza di Preve in quanto filosofo, certamente, ma se il fenomeno di identificazione di cui parlo realmente sussiste, ciò significa negarne anche in larga parte la verità come individuo concreto nel mondo. Da qui la reazione forte, riscontrabile nelle interviste in cui lo si interpella a proposito delle tesi di GLG: è come sentir urlare “la filosofia è in quanto io sono” e “io sono in quanto la filosofia è”.
Se, come credo, la filosofia è attività di formulazione del mondo nel pensiero, è indubbio che essa sia attività permanente del pensiero stesso, e in ciò Costanzo ha ragione, pur se la filosofia, in quanto pratica tendente al dispiegamento puro delle facoltà razionali, può sempre, potenzialmente, tendere a scivolare, sovrapporsi, sconfinare, raddoppiare altri rami della conoscenza dotati di maggiore potere applicativo nelle umane vicende: la scienza, intesa come decodificazione del mondo nel pensiero, l’arte, intesa come immaginazione del mondo nel pensiero, la religione, intesa come antropomorfizzazione del mondo nel pensiero (per gli atei) o come immersione del mondo nel divino (per i credenti), e così via.
Qual è allora il problema della filosofia? E’ solo una questione di autonoma identità? Secondo me il problema è il medesimo di ogni forma di conoscenza: la formulazione del mondo nel pensiero produce pensiero che produce pensiero fino a scollarsi completamente dal mondo, e l’assenza del mondo nel pensiero, la sua autoreferenzialità, facilmente si capovolge in pratica masturbatoria per iniziati.
I testi sacri del passato sostituiscono le riviste porno in dipartimenti universitari ossificati. La pratica filologica con interpretazione esclusiva del Verbo si sposa con il mandare avanti e indietro all’infinito il video hard per rimirare compulsivamente la scena culminante dell’orgasmo a comando erogato da attori professionisti.
Questo è però un rischio connaturato alla natura stessa della pratica filosofica ed è quindi comprensibile che a qualcuno ogni tanto girino i coglioni, e se girarono a Marx in un’epoca in cui tra i riferimenti filosofici c’erano autentici giganti come Fichte, Kant e Hegel, come possono non girare a La Grassa nell’epoca dei Vattimo, Negri, Galimberti e compagnia?
Ma il rischio di degenerazione masturbatroria/autoreferenziale non è esclusiva prerogativa della filosofia: ogni attività umana è in continua tensione tra l’abisso della terra e la vertigine del cielo in virtù dell’umana coscienza anticipata della certezza della propria fine biologica, che genera il doppio pericolo di morte prematura per sepoltura nichilistica o di dissoluzione prometeica, e se è il pensiero a poter generare un ponte che consenta all’uomo di espandersi dalla terra al cielo anziché allungarsi e frantumarsi una volta diventato troppo sottile, allora perché non riconoscere che non
solo la filosofia ma ogni attività dell’uomo, in specie nel pensiero, è sottoposta agli stessi rischi di autoreferenzialità, nichilismo e prometeismo?
Perché non riconoscere che quando la scienza (gli scienziati) elaborano i propri costrutti basandosi unicamente su altri costrutti scientifici e sulle applicazioni tecniche derivate o derivabili, la scienza stessa si può capovolgere nel regno della tecnica quale struttura impersonale di dominio dell’uomo sull’uomo e di questi sulla natura?
Perché non riconoscere che quando la religione elabora sé stessa quale perpetua interpretazione di testi rivelati, si può sempre capovolgere nel regno dell’accesso esclusivo al divino e, quindi, al fondamentalismo e all’intolleranza?
Perché non riconoscere che ogni forma di conoscenza che elabora sé stessa unicamente su ciò che da essa stessa è prodotto, genera il proprio doppio astrale in una dimensione iper-uranica di impotenza, nel migliore dei casi, di pioggia di meteoriti sul mondo nel peggiore, e ciò solo per la presunzione di voler esplorare il cielo senza tenere i piedi ben radicati nella terra o di affondare nella terra senza mai vedere il cielo?
Quanto fin qui affermato è però immediatamente confutato dal fatto che il distacco del pensiero dal mondo è solo apparenza e illusione, perchè il mondo continua ad agire nel pensiero, essendo il mondo l’unico luogo in cui l’uomo agisce e da cui l’unica possibilità di distacco è la morte biologica: immaginare una relazione uomo-mondo univoca è, di nuovo, pura illusione pratica nel sorriso ebete dei Bush, dei Veltrusconi, dei Sarcozzi e nel vuoto iper-individualismo narcisistico post-occidentale.
Ma se il mondo agisce nell’ombra del pensiero, nell’inconsapevolezza e nell’incoscienza, cosa di esso se non le strutture di dominio cristallizzate nelle diverse epoche, in quanto maggiori manifestazioni di forza, agiranno sul pensiero?
La sensazione è che la progressiva settorializzazione dei rami del sapere, funzionale alla facilitazione dell’incremento delle sue applicazioni pratiche (la tecnica in senso lato), favorisca il processo di autoreferenzialità del sapere stesso e il suo asservimento agli unici fenomeni permanenti e complessivi delle società umane: le strutture di dominio riprodotte da gruppi di dominanti in perenne lotta per la supremazia, magistralmente svelati da La Grassa con una vera rivoluzione copernicana rispetto alla precedente concezione marxiana di lotta di classe, decentrando il conflitto capitale/lavoro in favore della centralità del conflitto strategico tra dominanti.
La filosofia, per sua natura, si pone come sapere unificante nell’attribuzione di senso e nella ricerca di universali non sottoposti all’azione corrosiva del tempo: è quindi una potenzialità da preservare nonostante il pessimo servizio reso oggi dai filosofi “dominanti”, tra i quali certo non si può iscrivere il nostro Preve.
In questa ricerca a volte si pone come manifesta, come in Preve, a volte come implicita, come in Marx o nello stesso GLG (non me ne voglia), proprio perché attività permanente del pensiero che formula il mondo in sé stesso e delinea percorsi di liberazione, provvisori, distruttibili, ma in potenza svincolati dal particolare.
In questo modo, per me, la difesa del pensiero di Preve in quanto pensiero filosofico, si identifica con la difesa del pensiero di quanti tentano, come in questo blog, di delineare percorsi di liberazione attraverso la formulazione del mondo nel pensiero, per quanto multiforme il pensiero possa essere.
Rinunciare anche a ragion veduta e dopo mille delusioni a una qualche forma di conoscenza e alle sue potenzialità, ovviamente ormai non più assommabili nello stesso concreto individuo ma
almeno in gruppi amicali, di studio, di lotta o quant’altro è come rinunciare ad un arto nella corsa e, nella mia personale visione, rinunciare alla filosofia è come guidare con un occhio bendato: si va avanti ugualmente, magari anche bene, ma in difetto di lateralità e profondità.
Sasha