IN EFFETTI MARX NON C'ENTRA di Giellegi

Non ci sarebbe stato niente di male se Wallerstein avesse parlato della situazione di crisi (non quella economica, di tipo congiunturale) come epoca policentrica, cioè l’epoca di transizione tra il predominio di una certa potenza (ad es. l’Inghilterra per parte dell’800) e gli Usa (in senso proprio: dal 1989-91 al 2003; ma, in senso lato e nel mondo capitalistico più tradizionale, già dopo la seconda guerra mondiale). Lasciamo fra l’altro perdere questa bruttissima abitudine di certi scienziati sociali (e anche di certi filosofi) di estrapolare leggi fisiche, chimiche, biologiche, per estenderle alla società (o a generali “concezioni del mondo”); abitudine aspramente criticata, e con argomenti molto sensati e per me definitivi, da Sokal e Bricmont qualche anno fa.

Comunque, è anche possibile accettare che il capitalismo non è un’unica formazione sociale, quella teorizzata da Marx in base all’analisi del modo di produzione del capitalismo inglese, le cui “leggi” egli poi generalizzò per l’intera epoca capitalistica; un’epoca che Marx, è ora di dirlo chiaramente, pensava non sarebbe durata tanto a lungo, ma avrebbe invece iniziato il suo decadimento – con l’enorme sviluppo della società per azioni e i processi (sociali, non tanto economici) della centralizzazione dei capitali – già durante la sua vita. Non si può però così tassativamente affermare che “il capitalismo è alla sua fine”; è al massimo in non radicale mutamento – e forse; perché fino a quando non si capisce che società ne risulti, è pura ipotesi fare una simile affermazione – in forme sociali divise in dominanti e dominati e fondate pur sempre sull’impresa e il mercato.

Al momento, è solo assai probabile (al 90%) che ci inoltreremo in un’epoca multipolare, con il “ritorno delle nazioni”; un marxista serio, e non dogmatico, deve elaborare le nuove categorie teoriche per comprendere questa articolazione di più paesi (formazioni sociali particolari), con la loro specifica interazione conflittuale, nell’ambito di quella mondiale. Annunciare solo la “fine del capitalismo” è veramente vaticinio e nulla più; e sembra pure esserci una volontà di istupidire chi ha dato fin troppo credito a tanti intellettuali ultra-rivoluzionari. Certo, scontiamo il vuoto dell’analisi marxista, e questi personaggi si fanno passare per allievi del grande storico Braudel. E’ ora di svegliarsi: questi intellettuali sono abbastanza pericolosi, come il nostro Negri, per la confusione teorico-politica che creano, distraendo forze da un’indagine più puntuale (non a caso si riconoscono fra loro all’“odore” come nella “commedia degli Zanni”).

Dove il gioco mostra in modo particolare la corda è quando Wallerstein afferma che, in situazioni di crisi come questa, diventa importante e decisiva “la nostra azione individuale”. Eh, no, mi sembra un errore poiché non è certo rilevante l’azione individuale, bensì semmai quella di forze organizzate. Inoltre, queste ultime non conseguono proprio alcun risultato se prima non è giunta a maturazione un’oggettiva situazione di acutizzazione del conflitto interdominanti – nella fase multipolare in cui si lotta per una nuova supremazia – e se la forza organizzata “di rivolgimento” non si è ben attrezzata: non solo nel coordinamento dei suoi comparti “di combattimento”, ma anche come teoria in grado di analizzare e capire la struttura del campo in cui si svolge il conflitto e quella delle forze in campo. Uno storico, che si pretende allievo di Braudel, dovrebbe poi sapere che le forze in azione nella storia perseguono certi obiettivi, ma poi quelli effettivamente realizzatisi – nell’intreccio dei più vari e complessi conflitti – sono costantemente diversi. Questo è accaduto con la Rivoluzione francese, con quella sovietica, con quella cinese, con la “vittoria” dei comunisti nordvietnamiti, con i cubani, ecc. Insomma, tutta la storia è piena di tentativi di forze organizzate (dei dominanti come dei dominati) di andare verso X, finendo inevitabilmente in Y o Z o altro.

Il marxismo – non dottrinario, cioè non trasformato in pura ideologia o di legittimazione di un dato potere installatosi oppure di disperato aggrapparsi ad una immutabile identità (una particolare forma di religiosità) – ha appunto insegnato a non basarsi né su ciò che gli uomini (e i gruppi umani vari) pensano di se stessi né sugli scopi (sempre “alti”) che perseguono, al fine di comprendere invece i risultati del concreto processo storico, risultati sempre molto, ma molto, più “bassi” di quelli agognati, i quali ultimi sono spesso solo sogni ad occhi aperti. Quindi abbiamo molto da imparare da Marx; un po’ meno da Wallerstein (e Arrighi). Lasciamo da parte questi intellettuali e ricominciamo a studiare seriamente, perché quest’epoca – certo di crisi, ma nel senso dell’apertura del conflitto policentrico tra dominanti, in specie nella sua forma geopolitica di scontro tra “nazioni” – lo esige. Si aprono possibilità, si verificano crepe e faglie. Chi veramente “ama” i dominati (ma sarebbe meglio ci fosse meno amore e più ragionamento) la smetta con i “ragli” roboanti su “grandi prospettive” secolari o simili; si rimetta invece alla lezione dei “fatti” dell’oggi, sempre interpretabili (ecco perché occorre una teoria adeguata), ma che sono molto duri nel deludere sempre le nostre aspettative; per cui dobbiamo essere continuamente all’erta, pronti ad analizzare e correggere i nostri errori di valutazione, nonché le correnti “reali” che, indipendentemente dagli errori, portano in direzioni non pensate né volute da noi. Ogni volta, ci si deve fermare e riposizionarsi, ristudiando il campo e le forze in campo.

Mi sento quasi umiliato a dover ripetere queste cosucce perfino banali (almeno per un marxista); ma quando si vede cosa scrivono questi intellettualoni paludati – e sempre, lo ripeto, in “annusamento” e “incipriamento” reciproci, e che straripano sui media “ufficiali”, di grande diffusione, quindi quelli dei dominanti – bisogna rassegnarsi anche a queste lezioncine ormai dimenticate da quasi tutti. E debbo anche ripetere, perché i sordi sono in infinito numero, che non è quello finanziario l’aspetto prevalente delle crisi – in quella del 1929, il più drammatico momento si presentò a fine ’31 e, ancor più, nei primi mesi del ’32 – poiché esso è al massimo il segno premonitore e l’annuncio dell’avvio di una fase tendenzialmente multipolare, quella dell’apertura di nuove possibilità storiche, mai realizzate nella loro interezza da nessuna forza politica (organizzata), e il cui conseguimento non può nemmeno essere tentato – se non in un impeto di follia – da alcuna “azione individuale”, di quelle evocate da Wallerstein. Nemmeno Pisacane, nemmeno Guevara, e altri dello stesso genere (e dello stesso eroismo) – pur cadendo comunque in una sorta di “romanticismo rivoluzionario” – pensavano in termini di un’azione così “primitiva”. E forse, tenendo conto delle delusioni accumulate sia dal primo che dal secondo, furono “suicidi” mascherati, sacrificio ricercato per fornire una testimonianza.