IN TEMA DI MULTICULTURALISMO di M. Tozzato

Dall’inizio degli anni Novanta il tema del multiculturalismo è stato oggetto di notevole attenzione da parte degli intellettuali, filosofi e scienziati sociali, ed è anche diventato un tema particolarmente importante per l’agenda politica dei vari partiti. In Italia, in particolare, la Lega Nord ha efficacemente costruito le sue basi di consenso partendo dalla rivalutazione – sino a toccare temi puramente ideologici e demagogici – degli elementi specifici e tradizionali delle varie comunità locali e regionali. Negli ultimi tempi, come è ben noto, si sono materializzati per il partito di Bossi dei notevoli successi elettorali proprio a partire da proposte che si avvicinano molto ad approcci razzisti e xenofobi; presso i lavoratori operai e il piccolo lavoro autonomo questo atteggiamento ha avuto un riscontro favorevole presentandosi come la difesa degli interessi della classe lavoratrice italiana nei confronti degli stranieri. Da una parte quindi la Lega si contrappone alla componente “finiana” del PDL perché sembra svalutare l’identità nazionale a favore delle comunità locali, mentre dall’altra, nei confronti dei lavoratori, essa è pronta a sventolare la bandiera tricolore che, nel caso specifico, verrebbe a sintetizzare la somma “aritmetica” di tutte le etnie autoctone d’Italia.

Per introdurre alcune considerazioni generali sul multiculturalismo può essere utile accennare all’interpretazione data a questa categoria sociologica da parte dei due approcci politici, per certi versi contrapposti, del Liberalismo e del Comunitarismo. Così scrive, ad esempio, il prof. Davide Fricano in un recente saggio apparso in internet:

<<A parere dei liberali l’appartenenza culturale è privata, essa cioè può essere frutto di auto-attribuzione e non può influire sui diritti pubblici. In altre parole, la diversità culturale (che nelle società multietniche si presenta sempre più come un dato di fatto cui è vano, oltre che insensato, porre rimedio) non può costituire un ostacolo alla partecipazione alla vita pubblica. Il diritto di cittadinanza prescinde dall’identità culturale. Ma se dovesse emergere (come ormai accade sempre più frequentemente nel panorama storico) il problema di raffrontare quest’ultima con l’identità politica, secondo il comunitarismo il liberalismo fallirebbe perché la neutralità dello Stato in merito alle concezioni del Bene promosse dalle varie culture (tollerandole tutte) cozzerebbe con l’esigenza delle culture minoritarie di ottenere non soltanto tutela e riconoscimento pubblico, ma soprattutto valenza politica.>>

Perciò – mentre la prospettiva che privilegia la società  mette l’accento su un sistema che è visto come un raggruppamento basato su vincoli esteriori e retto da un contratto stipulato per pura convenienza – i comunitaristi subordinano il senso di appartenenza politica al riconoscimento della loro identità etnica e culturale. Così continua, poi, Fricano:

<< Da questo punto di vista la sopravvivenza della cultura prevale sulla tutela dei diritti individuali. Poiché soggetti dei diritti e della libertà non sono considerati gli individui, ma i gruppi in cui sono inseriti per tradizione, l’essenza culturale di una comunità risulterà violata se, anziché aver cura dei diritti del gruppo, si terranno in considerazione prevalentemente i diritti civili individuali. Si tratta in fondo di valutare se rispettare il "principio della dignità universale", in virtù del quale si ritengono gli uomini tutti uguali perché ci si basa su ciò che in essi appare uguale, oppure il "principio delle differenze" (per il quale sono le peculiarità a dover essere valorizzate). Il secondo principio corre il rischio di degenerare in discriminazione, il primo – invece – nega le differenze appiattendosi nell’omologazione ad una monocultura egemone (perpetrando così una forma di discriminazione più sottile perché, sotto la presunta uguaglianza, dà vita ad una società disumana, cieca rispetto alle diversità).>>

Queste discussioni possono essere valutate anche rispetto alla problematica dell’”indipendenza” nazionale, nel contesto della configurazione geopolitica globale, la quale costituisce una delle questioni maggiormente riprese e dibattute nell’ambito delle riflessioni portate avanti da RipensareMarx. Appare evidente che la possibilità per tutte le culture e le etnie presenti in uno Stato di assumere una vera e propria “valenza politica” può esacerbare alcuni tipi di conflittualità interna che renderanno più fragile il sistema-paese nell’ambito dei rapporti di forza e della competizione internazionale. Sostituire allo “Stato di diritto” liberale la nozione tradizionale di “impero” non risolve il problema anche se con esso si vorrebbe (si pretenderebbe) di conciliare la massima autonomia delle singole culture con la centralità del potere supremo. Questa nozione di “impero” è di solito “impastata” di “trascendenza” e vorrebbe rappresentarsi come istanza “incontrovertibile” a garanzia del Bene mondano (e oltremondano) di tutte le singole comunità. È ovvio che la regalità “sacra” risulta per definizione Vera, Buona e Giusta e come tale, in termini “logico-ontologici”, non può mai confliggere col mondo “profano” delle comunità e degli individui che sono ad essa, “per natura”, subordinati. Un tentativo di mediazione tra le due contrapposte prospettive del liberalismo e del comunitarismo è stato operato dal filone che possiamo definire “interculturale”. A questo proposito Fricano – commentando le riflessioni di un recente saggio (2006) dello studioso Pannikar il quale afferma che il multiculturalismo <<parrebbe far emergere l’idea di una cultura superiore che con generosa benevolenza ammetta al proprio interno il contributo delle altre>> – così si esprime:

<< Obiettivo ideale sarebbe […] conseguire uno stato di "relatività culturale" equidistante sia dall’assolutismo dominante dell’omologazione, sia dal relativismo particolaristico. L’assunto del principio da lui sostenuto è la constatazione realistica dell’impossibilità che ogni popolo prescinda dalle proprie categorie culturali nell’articolare i criteri di valutazione delle altre culture. L’importante però è che vi si ricorra con la netta consapevolezza di non pretendere di imporre quelle categorie come se fossero le uniche esistenti o idonee ad essere utilizzate. […]Se è vero che Pannikar tende, per ovvi motivi, ad esaltare il dato positivo ed ottimistico del dialogo tra le culture, ossia la sua potenziale ricchezza e fattibilità, è altrettanto vero che ammette quanto difficoltoso possa rivelarsi l’itinerario di attuazione di questo dialogo. Le culture in questione dovrebbero infatti reciprocamente dichiararsi disposte a persuadersi vicendevolmente ad accogliere e rielaborare principi, valori, norme e caratteri estranei ai propri orizzonti tradizionali.>>

Effettivamente anche questa “terza via” appare prevalentemente un esempio di “buona volontà” e di “speranza nel meglio”; la possibilità che in una dimensione di coesistenza di culture e etnie non si costituisca un centro predominante appare nelle condizioni sociali e geopolitiche attuali fondamentalmente utopistico. Allo stesso tempo si potrebbe addirittura affermare che una situazione democratico-comunitaria metterebbe in grave pericolo l’istituzione centrale che i fautori della democrazia politica liberale (formale) considerano decisiva: lo Stato-nazione. Nella fase attuale – in cui stiamo, probabilmente, avanzando sulla strada del multipolarismo – lo Stato apparirà sempre più come l’agente decisivo per il conflitto geopolitico e tutte le forze e le istanze che potrebbero indebolirlo saranno sicuramente contrastate.