INTERVISTA A EMILIANO BRANCACCIO

Docente di macroeconomia presso l’Università del Sannio (di G. Repaci).

 

1. Professor Brancaccio, ormai è quasi certo che la recessione dell’economia statunitense durerà per almeno tutto il 2008, e mentre Bernake continua a tagliare i tassi d’interesse, Trichet sembra sordo dinanzi alle richieste dei governi di diminuire il costo del denaro. Secondo lei la già debole economia italiana soffrirà per la crisi? Pensa che questa crisi possa cambiare l’indirizzo economico dominante oppure crede che le Banche Centrali continueranno sulla strada del neoliberismo e le sue politiche deflazionistiche?

 

Da anni ci interroghiamo sulla tenuta di un sistema mondiale sempre più asimmetrico, fondato sulla espansione e sul relativo deficit commerciale americano, sul finanziamento di questo deficit tramite dollari, e sulla corrispondente politica deflazionista e votata all’esportazione di tutti gli altri. Questo sistema scricchiola da tempo, per vari motivi, di classe oltre che internazionali. Basti pensare al fatto che siamo probabilmente giunti al limite delle capacità di indebitamento privato e di spesa di milioni di lavoratori, americani e non solo. A ciò si aggiunga che i rapporti di credito e debito sono divenuti sempre più articolati e fragili anche tra le stesse istituzioni finanziarie: in questi anni pochi istituti in attivo hanno erogato crediti a tanti istituti in passivo, creando pertanto le condizioni ideali per una propagazione dei fallimenti. E’ dunque possibile che una crisi dei consumi della classe lavoratrice americana, associata a una crisi di fiducia sul dollaro, possa innescare un effetto a catena sull’economia mondiale. Una eventuale recessione generalizzata non agirebbe tuttavia in modo uniforme sull’economia globale. Pensiamo ad esempio a quel che potrebbe avvenire in Europa. Una crisi generale colpirebbe molto più duramente i paesi “periferici”, cioè quelli caratterizzati da una minore concentrazione e centralizzazione del capitale, da una conseguente minore produttività e che tendono quindi ad accumulare sistematici deficit esteri. La crisi dunque agirebbe più sull’Italia e sui paesi del Sud Europa, rispetto alla Germania e agli altri paesi cosiddetti “centrali” del continente. Con una prospettiva del genere, è difficile che la Banca centrale europea cambi linea d’azione. Anzi, la stretta monetaria agevola le crisi in periferia, e quindi favorisce le acquisizioni da parte dei centri ed accelera così i processi di ristrutturazione e centralizzazione dei capitali ai quali la BCE punta esplicitamente da tempo. Faccio notare che la struttura asimmetrica della crisi, che qui abbiamo appena tratteggiato, è decisiva anche per rilevare l’insipienza del globalismo naif di questi anni, da alcune frange egemoni del movimento di Seattle a Toni Negri. Se si vuole capire davvero qualcosa del capitale dei giorni nostri, occorre sempre partire dalla sua struttura asimmetrica, cioè dai rapporti di dominio e di soggezione che tuttora vengono a determinarsi tra i singoli stati, oltre ovviamente che tra le classi che vi risiedono. Parlare genericamente di “Impero”, di “moltitudini” o addirittura della “superpotenza del movimento pacifista”, è semplicemente ridicolo oltre che inutile.

 

2. E stato dimostrato da numerosi studi che non vi è alcuna relazione tra aumento della flessibilità/precarietà e quello dell’occupazione. Come mai a suo avviso i governi, anche quelli di centrosinistra, continuano allora a proporre come soluzione al problema della disoccupazione la precarizzazione del lavoro?

 

L’assenza di correlazioni tra precarietà e disoccupazione è una evidenza ampiamente riconosciuta dalla letteratura scientifica (al riguardo, mi permetto di rinviare ad un confronto che ho avuto con Giavazzi e Ichino su Liberazione dell’ 1, 4, 6, 8 settembre 2007). E’ invece robusta la correlazione tra maggiore precarietà del lavoro e minore crescita salariale. Ed è proprio questa correlazione la vera determinante delle politiche di flessibilità di questi anni. In Italia, in particolare, siamo di fronte a un capitalismo frammentato, caratterizzato da una bassa crescita della produttività, da un incremento dei costi relativi, da una perdita di competitività e da una conseguente tendenza ad accumulare deficit con l’estero. Ebbene, per tentare di arginare questa tendenza, da decenni si attaccano le protezioni dei lavoratori e si cerca per questa via di schiacciare il più possibile i salari. I costi sociali di questa politica sono stati immensi, eppure i risultati sul fronte dei conti esteri non si sono visti: oggi ci ritroviamo infatti con i salari tra i più bassi d’Europa, ma l’accumulo di disavanzi commerciali non si è affatto arrestato, anzi. Il fallimento è palese, tuttavia non mi pare che in merito si registrino ripensamenti. Ad esempio, all’interno del Partito democratico è ormai nettamente maggioritaria la volontà di passare all’attacco del contratto nazionale e dell’articolo 18. Questa incapacità del capitale nostrano di cambiare linea d’azione di fronte ai suoi fallimenti è sicuramente angosciante, eppure dal punto di vista dell’analisi politica essa ha un suo fascino. In fondo, è da comportamenti capotici di questo tipo che scaturiscono le “emergenze”, e magari anche le relative occasioni politiche.   

 

3. Dagli anni 80, inseguito alla crisi del modello vetero-keynesiano, si è affermato anche nella sinistra il modello economico neoliberista che ha provocato immensi danni al tenore di vita delle fasce più deboli della popolazione. Quali crede che siano state le cause di tale crisi ed è oggi riproponibile un nuovo keynesismo come risposta al modello neoliberista dominante?

 

Le ragioni della crisi del compromesso keynesiano e socialdemocratico degli anni ’60 e ’70 sono molteplici, e sono state esaminate da più parti. In ambito marxista solitamente si ritiene che quel compromesso sia imploso a seguito della progressiva concentrazione e centralizzazione del capitale a livello internazionale, della connessa apertura globale dei mercati, e quindi della frammentazione del lavoro e della riduzione dei margini di autonomia delle politiche economiche nazionali. Questa lettura nella sostanza è corretta. Si trascura tuttavia il fatto che l’apertura dei mercati si è verificata a sbalzi e a scossoni, in concomitanza con precisi eventi geopolitici. A questo riguardo, ritengo che andrebbe maggiormente indagato il legame tra la crisi dell’Unione sovietica di Breznev – della quale emerse palese l’incapacità di inseguire gli Stati Uniti nella corsa all’egemonia politico-militare – e la svolta monetarista del 1979-80. La questione assume un certo rilievo se si ritiene – come io credo – che la minaccia sovietica entrasse in modo niente affatto trascurabile nella “funzione di produzione” del compromesso keynesiano e socialdemocratico dell’Europa occidentale. Ed è chiaro che, seguendo questa linea di ragionamento, si arriva pure a rispondere alla domanda sull’attuale praticabilità di un nuovo compromesso socialdemocratico. Se si accetta l’idea che esso in buona parte dipese dall’esistenza del blocco sovietico, allora è evidente che la questione proprio non si pone, è politicamente anacronistica. Il fatto tuttavia che quel compromesso non abbia più alcun senso, non significa che non si debbano sfruttare tutte le crepe negli attuali assetti capitalistici e di potere per render praticabile un’alternativa politica. Supponiamo ad esempio che si profili all’orizzonte una coalizione di interessi a favore dell’applicazione della vecchia clausola keynesiana della “valuta scarsa” e del relativo protezionismo contro i paesi in sistematico surplus commerciale. Oppure immaginiamo un’azione coordinata dei paesi periferici dell’Unione monetaria contro il vincolo del deficit pubblico al 3% del Pil, al fine di finanziare col debito pubblico i disavanzi strutturali con l’estero. Queste al momento sono mere ipotesi politiche. Tuttavia in prospettiva si tratta di eventi niente affatto implausibili. Eventi che, nel caso, andrebbero favoriti, alimentati. Con buona pace di Negri e Baudrillard, responsabili della scelta – conformista e grossolanamente secondinternazionalista – di sostenere il SI al referendum sulla Costituzione europea.    

 

4. L’anticapitalismo in seguito alla crisi del modello sovietico di pianificazione centralizzata è uscito dalle agende politiche della maggior parte dei partiti politici della sinistra europea che al limite ripropongono il vecchio riformismo della socialdemocrazia classica. E possibile a suo avviso ridare slancio ad una nuova teoria anticapitalista? E se si come?

 

In primo luogo una forza anti-capitalista dovrebbe dar senso al suo antagonismo esaminando realmente i fatti del capitale, un esame al quale le forze della sinistra hanno da tempo rinunciato. I fatti sono importanti, poiché soltanto dalla loro analisi è possibile individuare le contraddizioni interne al capitale, ed è quindi possibile tentare di sfruttare le “emergenze” che derivano da quelle contraddizioni. L’ondata di normativismo etico-religioso che pervade oggi la sinistra – e che suscita persino dei dubbi sulla stessa espressione: “sinistra” – verte sull’erroneo convincimento che il sistema sia solido, ben strutturato, inattaccabile, e che l’unica cosa sensata da fare sia quindi solo di adeguarsi, magari aggrappandosi a un po’ di spesa sociale e sopravvivendo a colpi di prebende e al limite di clientele. Ma la realtà è che il sistema è in continuo tumulto, è instabile, ed in esso si aprono di continuo crepe e fratture. Non voglio con ciò fare del facile bordighismo, non è questo il punto. Dico solo che le crepe si formano, e che per tornare ad imparare a sfruttarle, io credo si dovrebbe tornare ad indagare sui grandi temi marxiani, a partire da quelli relativi alla concentrazione e centralizzazione del capitale. Non vorrei esser frainteso, in quel che dico non c’è nessuna nostalgia teleologica: ma ritengo sia scientificamente lecito tornare a parlare di una “legge di tendenza” situata al fondo di questi fenomeni. L’idea di una “legge” di concentrazione e di centralizzazione capitalistica è entrata in crisi, in ambito marxista, una volta abbandonata la vecchia teoria del valore-lavoro. E’ possibile tuttavia oggi riannodare i fili delle ricerche passate, per iniziare a ragionare su uno schema inedito, su una struttura che permetta di disvelare la logica specifica delle centralizzazioni. Non è una questione accademica, si badi. La centralizzazione dei capitali e le relative strategie di controllo, sospensione e sostituzione del mercato, rappresentano al tempo stesso le chiavi della potenza e della crisi di questo capitalismo. Un capitalismo che usa il mercato ma che cerca al tempo stesso di affrancarsi da esso. In fondo, il mercato è per i poveri cristi, molto più che per i cosiddetti “large players” della finanza internazionale.  

 


5. Nelle librerie va a ruba l’ultimo libro di Serge Latouche “La scommessa della decrescita”. La Grassa ha già espresso in varie occasioni il suo dissenso per un certo antimodernismo che sfocia poi nelle tematiche della decrescita. Qual è la sua opinione in proposito?

 

Condivido il dissenso di La Grassa. Personalmente ho espresso la mia valutazione su un certo ambientalismo di sinistra, sulla decrescita e su Latouche in un articolo di qualche estate fa che suscitò un dibattito piuttosto acceso (Liberazione, 27 luglio 2005). In esso sostenevo in fondo delle cose elementari. E cioè che se qualcuno parla di decrescita – vale a dire di crescita negativa del prodotto sociale – come concreto obiettivo di politica economica, allora o è un bolscevico che mira nuovamente alla pianificazione centralizzata in un sistema chiuso o semi-chiuso  – e allora ovviamente tanto di cappello – oppure è uno che semplicemente farnetica. La ragione è evidente: l’abbattimento della produzione sociale, quale atto politico deliberato, richiede necessariamente uno sforzo pianificato, indipendentemente dal giudizio positivo o negativo che possiamo poi esprimere su di esso. In quell’articolo chiarivo pure che il conflitto sull’uso della natura, così come il conflitto di genere, sono questioni che possono essere coerentemente analizzate solo da un punto di vista materiale e di classe, che è e resta a mio avviso il punto di vista scientifico, e l’unico sul quale si possa contare per riprendere l’egemonia sul concetto di “modernità”. Del resto basta guardarsi intorno: i disastri ecologici, così come il riaffiorare degli antichi vincoli del patriarcato, si distribuiscono in modo tutt’altro che uniforme nella società. Le malattie causate dal degrado dell’ambiente, o gli omicidi di donne ad opera di ex-mariti o fidanzati, si concentrano in aree a reddito pro-capite basso e decrescente in termini relativi. La correlazione è impressionante e rende palese l’urgenza di riesaminare l’ambientalismo e il femminismo in un’ottica non più etico-normativa, ma materialista e di classe (perché la classe è una categoria analitica e politica ancora pregnante, contrariamente a quel che pensano alcuni ex-marxisti). Il fatto che invece si parli oggi di “decrescita conviviale” e di altre idee balzane non deve meravigliare. Esse rientrano in quella deriva etico-normativa della sinistra che fa il paio con l’abbandono dell’analisi del capitale, e con il diffuso convincimento all’interno dei gruppi dirigenti che il sistema sia non solo potentissimo, ma anche stabile. In un simile, mortifero stagno politico Negri e Latouche ci sguazzano benissimo. Essi infatti non pretendono nessuno sforzo, né da sé stessi né dal lettore, per tentare di decifrare la reale dinamica del capitale. Il loro presunto anti-capitalismo si beve quindi con estrema facilità, ed è in fondo del tutto innocuo.