Intervista politico filosofica a Costanzo Preve

Professor Preve, in controtendenza rispetto all’interpretazione dominante, lei ritiene che Marx non sia un materialista ma un idealista. Può spiegarci le motivazioni teoriche della sua tesi?
Lei sostiene, al contrario della scuola althusseriana, che Marx non è tornato da Manchester sbarazzandosi del concetto di alienazione, ma lo ha innestato nella teoria del valore fino a farne un’unità inscindibile. Quindi, mi corregga se sbaglio, Marx avrebbe innestato una teoria filosofica che dipende da un’antropologia e da una dialettica risalente agli antichi greci su una teoria economica che invece ha presupposti utilitaristi e che quindi è per sua natura indifferente od ostile alla dialettica. Come è possibile questo?
Nell’Introduzione a Per la Critica all’economia politica Marx scrive “Nel senso più letterale, l’uomo è uno ~ o o v 7c o 1 t ti t x o v, non solo un animale sociale, ma anche un
animale, che solo in società può isolarsi”. Come mai nonostante lo stesso Marx abbia dato una definizione della natura umana (l’uomo è un animale sociale, Gattungswesen, cioè un ente naturale generico) così precisa, per molto tempo, i marxisti hanno rigettato la concezione di natura umana dicendo che era un’invenzione piccolo- borghese e reazionaria?
E possibile oggi un ritorno al “vero” Marx?
A suo avviso il pensiero filosofico di Marx può essere ancora utilizzato in senso anticapitalista, oppure è opportuno abbandonarlo completamente?
Lei ha detto che il comunismo di Marx è un’utopia scientifica. Può meglio spiegarci questa tesi?
Qual’è la sua opinione sul concetto di “reificazione” (Verdinglichung) formulato da Georg Lukàcs nel 1923?
Qual è la sua opinione sul marxismo “lagrassiano” e sul pensiero di Gianfranco La Grassa in generale?
Qual è la sua opinione sulle recenti critiche mosse a Massimo Bontempelli da Giovanni Petrosillo sul sito Ripensare Marx?
PRIMA DOMANDA
Ho dedicato alcune centinaia di pagine in mie recenti pubblicazioni, in cui rimando coloro che sono veramente interessanti ad approfondire la questione, che qui per ragioni di spazio non potrò che sfiorare. E tuttavia, poiché in filosofia ciò che può essere detto può essere detto in modo sintetico e riassuntivo, proverò a chiarire la questione.
1. In primo luogo, il fatto che da più di un secolo si discuta sulla natura dello statuto teorico della filosofia di Marx non è dovuto a stupidità o malafede dei commentatori, ma ad un fatto di base. Se infatti Marx avesse esplicitato il suo statuto filosofico, e non lo avesse lasciato allo stato implicito e contraddittorio, questa discussione avrebbe trovato un esito comunemente accettato.
Si può commentare Kant o Hegel, ma nessuno dubita che il primo sia stato criticista ed il secondo idealista. E nessuno ne dubita perché questi due distinti signori hanno esplicitato e chiarito oltre ogni possibilità di dubbio il loro statuto filosofico. Ma Marx non lo ha fatto, probabilmente perché non lo riteneva necessario. E’ probabile che Marx sostenesse implicitamente la fine della filosofia come attività specifica, in una prima fase perché superata ed “inverata” nella prassi rivoluzionaria
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trasformatrice, ed in una seconda fase perché superata ed “inverata” nella scienza, e cioè nella nuova conoscenza scientifica “positiva”.
Che cosa ne penso io? Si tratta di sciocchezze, la prima tardoromantica e messianica, e la seconda positivistica. La filosofia è un attività specifica e permanente dell’uomo, e non può essere in quanto tale “superata”. Solo delle specifiche filosofie possono essere “superate”. La filosofia no. Comunque, tutti dicono sciocchezze, e Marx non può sottrarvisi. Era mica un Dio! Il genio è soltanto chi dice meno sciocchezze degli altri.
2. La tesi per cui lo statuto filosofico di Marx è una forma di idealismo della prassi, derivata da Fichte, non è affatto nuova. Il primo ad averla esplicitata in modo chiaro è stato Giovanni Gentile fin dal lontano 1899, in un libro dedicato alla filosofia di Marx, tuttora leggibile con profitto. Molti commentatori, soprattutto anglosassoni, e quindi non “appesantiti” da remore politico ideologiche, hanno scritto saggi in cui argomentano la derivazione diretta di Marx da Hegel. Lo spazio mi impedisce però di citarli e di commentarli come meriterebbero.
3. La bibliografia sui rapporti fra Hegel e Marx è sterminata. Per farla breve, distinguerò qui tre posizioni principali:
Prima Posizione. É quella radicalmente ostile ad Hegel senza compromessi, che ritiene che tutto quello che c’è di buono in Marx c’è perché ha rotto radicalmente con Hegel e con i suoi presupposti “idealistici”. Citerò qui nell’ordine, in modo completo: Bernstein, i professori socialdemocratici kantiani di inizio Novecento, il galileismo morale di Della Volpe, la filosofia di Manuel Sacristàn, la scuola di Althusser e dei suoi seguaci italiani Turchetto e La Grassa, eccetera.
Seconda Posizione. É quella che ritiene che in Hegel ci sia una contraddizione fra il metodo dialettico rivoluzionario ed il sistema metafisico conservatore, per cui bisogna prendere con riserva il primo e rifiutare il secondo. In altri termini, come ha detto Marx, bisogna rimettere sui piedi ciò che Hegel aveva messo sulla testa. Questa seconda posizione è stata la più diffusa nella storia della filosofia marxista: Engels, il Lenin dei Quaderni Filosofici, Lukàcs, Bloch, eccetera.
Terza Posizione. Dico subito che è la mia. É quella che ritiene che Marx non abbia affatto “rovesciato” Hegel (un cubo rovesciato resta sempre un cubo), ma abbia semplicemente applicato la logica dialettica hegeliana ad un nuovo oggetto logicamente costruito, il concetto di capitale, a sua volta ricavato dopo aver già concettualizzato fin dal 1845 la successione dei modi di produzione sociali. La successione dei modi di produzione sociali (1845) è quindi l’involucro teorico in cui viene posteriormente concettualizzato il concetto di capitale.
É chiaro che sono un “esponente radicale” della terza posizione teorica. Per me la logica dialettica di Hegel e Marx è pressoché identica. Certo, Hegel è “borghese” e Marx “comunista”. Ma queste diverse posizioni politico-ideologiche non riguardano la comune base filosofica, di tipo logicoontologico-dialettico, basta sul rifiuto della separazione kantiana fra categorie dell’essere e categorie del pensiero, e sul ritorno alla classica posizione di Aristotele.
A questo punto, ma solo a questo punto, può iniziare il chiarimento.
4. Il pensiero filosofico di Marx è una forma di umanesimo filosofico integrale. Qui il discorso si farebbe lungo, ma lo compendierò in due soli punti.
In primo luogo, è un umanesimo filosofico integrale perché l’uomo è un essere per sua natura finito. L’unico comunismo possibile è allora un comunismo della finitudine, come giustamente ha rivelato il grande marxista francese Andrè Tosel. E, come dice Hegel, il finito è ideale, e deve essere indagato e determinato attraverso la dialettica idealistica. É il capitalismo che invece ha una norma di accumulazione illimitata. Il pensiero di Marx è quindi un umanesimo perché mette in rapporto dialettico un ente finito, l’uomo, che vive in un ambiente anch’esso finito (la natura terrestre con i
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suoi limiti ecologici ed ambientali), con un processo infinito ed indeterminato, l’accumulazione capitalistica, il moderno apeiron di Anassimandro, che se non fermiamo in qualche modo ci presenterà il conto (nel linguaggio di Anassimandro, ne pagheremo il fio).
In secondo luogo, bisogna distinguere lo statuto epistemologico e lo statuto filosofico del pensiero di Marx, cosa che la scuola di Althusser non può fare, perché parte dal presupposto positivistico della loro identificazione. Da un punto di vista epistemologico il pensiero di Marx non è un umanesimo, perché non si fonda sul concetto di Uomo in Generale (su cui si basava invece il robinsonismo capitalistico, con la teoria della proprietà privata originaria legittimata dal lavoro del primo uomo originario, Adamo-Robinson), ma si basa su quattro concetti strutturali (modo di produzione, forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologia). Da un punto di vista filosofico, invece, il pensiero di Marx è un umanesimo integrale, per le ragioni esposte brevemente nel punto precedente.
Il pensiero di Marx si inserisce in una filosofia della storia, che è fondamentalmente quella di Hegel, anche e vi porta modificazioni radicali (la lotta di classe, il comunismo come esito delle contraddizioni del capitale, eccetera).
Questa filosofia della storia è a mio avviso maggiormente aporetica (nel senso dato da Santo Mazzarino alla concezione di “storia” dei greci) di quanto sia di tipo messianico-teleologico, secondo l’interpretazione di Lówith. Ma qui si aprono due distinti problemi. In primo luogo, se il Marx realmente esistito avesse o meno una concezione tragico-aporetica oppure messianico-escatologica della storia universale temporalmente e geograficamente unificata in un solo concetto trascendentale-riflessivo (Koselleck). Tema filologicamente affascinate, ma a mio avviso non decisivo.
In secondo luogo, e questo è il punto più importante, se il pensiero di Marx possa sopportare senza dissolversi la sua riformulazione rinunciando alla categoria messianico-positivistica (l’ossimoro è voluto) di necessità in favore della categoria aristotelica di potenzialità oggettiva di una sostanza sociale (dynamei on). In sostanza, di una filosofia della storia di tipo aporetico e non necessitato. A mio avviso, questo non è solo possibile, ma addirittura obbligatorio, se non vogliamo gettare il bambino della critica dell’economia politica con l’acqua sporca della filosofia messianiconecessitaristica della storia, frutto dell’innesto della categoria positivistica di legge storica sul vecchio substrato del messianesimo giudaico-cristiano.
Quando si parla di “idealismo” bisogna capire di che cosa stiamo parlando. In sintesi, vi sono due tipi di idealismo, nella tradizione filosofica occidentale:
L’idealismo antico bimondano, formulato e sistematizzato da Platone. Esso è bimondano, perché distingue il mondo ideale dal mondo sensibile, legati insieme dalla conoscenza dialettica e dalle categorie di imitazione (mimesis) e di partecipazione (metexis). Esso è bimondano, perché è pensato sulla base del modello delle proporzioni della matematica e della geometria (Pitagora), per cui i rapporti sociali umani e comunitari, e le “idee” morali e politiche che devono servire da canone imitativo, vengono pensati sulla base dei rapporti fra entità numeriche necessariamente eterne e sottratte allo scorrimento del tempo
L’idealismo moderno monomondano, formulato e sistematizzato da Hegel. Esso è monomondano perché non si basa sul dualismo fra enti matematici eterno ed immutabili (Platone), ma si basa sulla storia come unico concetto di tipo trascendentale e riflessivo. E così come l’idealismo bimondano di Platone si fondava su Pitagora, per cui la sua ricaduta politico-comunitaria non poteva che essere l’immutabile “stato ideale” conforme all’idea eterna di Bene, nello stesso modo l’idealismo monomondano di Hegel deve voltare le spalle a questa concezione fissistica per basarsi sulla storia intesa come il teatro temporale della presa di coscienza progressiva dell’umanità della propria autocoscienza (cfr. Fenomenologia dello Spirito, che a mio avviso è il presupposto filosofico implicito di tutta la filosofia di Marx, e devo la comprensione di questo fatto
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alla grande ombra di Jean Hyppolite). Da qui bisogna partire, se vogliamo che la connotazione di Marx come “idealista” non resti una semplice battuta “straniante”.
7. Ricapitoliamo: perché – senza con questo affermare arrogantemente che Marx era “sicuramente” idealista – è bene proporre un riorientamento gestaltico ed uno straniamento interpretativo che insinui che Marx fa parte molto di più della storia dell’idealismo che di quella del materialismo (su cui tornerò più avanti)?
Vediamo:
Perché Marx si pone sul piano monomondano della storia universale concepita come solo concetto (Begriff, in senso hegeliano, e non certo “fenomeno” in senso kantiano), di tipo trascendentale riflessivo, e questo concetto è per sua natura “ideale”.
Perché Marx costruisce il suo apparato concettuale non certo in base alla nozione empiristica di “idea” (Locke), ma in base alla scienza della logica hegeliana, a sua volta basata sul ristabilimento del concetto greco di unità di categorie dell’essere e di categorie del pensiero (unità che caratterizza peraltro anche Spinoza, generalmente non classificato come “idealista”), unità rotta soltanto dalla parentesi ideologico-gnoseologica di Kant.
Perché i concetti di capitale e di modo di produzione capitalistico vengono costruiti idealmente, e non riproducendo il molteplice empirico della società circostante.
E vi sarebbero molte altre ragioni, ma per il momento fermiamoci qui.
8. C’è però una possibile obiezione, che formulerò così: caro signore, quello che dice è certamente stimolante, ma c’è un dato che taglia la tesata al toro, e cioè che Marx si autocertifica soggettivamente come materialista, e lo ha scritto molte volte. Ora, non sarà così presuntuoso da saperne su Marx più dello stesso Marx?
Buona obiezione. E tuttavia non risolutiva. L’autocertificazione è un metodo per le concessione di documenti burocratici, ma non è un criterio definitivo nella ricostruzione dei profili filosofici degli autori del passato. Se lo fosse, ogni interpretazione critica diventerebbe impossibile. Per questa ragione l’interpretazione di Marx non coincide – e non può coincidere – con la ricostruzione filologica da “fotocopia” con quello che ha “veramente detto”. E pensiamo alle interpretazioni divergenti di Platone, dallo scetticismo accademico alla religione neoplatonica. E’ del tutto normale che anche Marx venga sottoposto a questo tipo di esame.
9. Tralasciando qui le varie definizioni di Materia e di Materialismo (per cui rimando ad un buon dizionario filosofico, non essendoci qui lo spazio per esaminarle analiticamente) distinguo due modi diversi ed incompatibili di ricostruire la storia del materialismo.
Primo approccio. La storia del materialismo viene unificata concettualmente in un flusso categoriale omogeneo, da Democrito ad Epicureo fino ai professori “atei” Onfray e Odifreddi. Il minimo comun denominatore in questo caso è quasi sempre di fatto l’ateismo e la critica alle pretese conoscitive, normative e morali delle religioni. La variante più diffusa è quella gnoseologica di Engels, che ha determinato l’insegnamento della storia della filosofia come scontro bipolare di Idealismo e Materialismo per tutto il periodo del comunismo storico novecentesco (1917 – 1991). Credo che in Cina, Cuba e Vietnam sia ancora così. Questa grande-narrazione, proiezione ideologica del bipolarismo antagonistico Borghesia(idealista)/Proletariato(materialista), ha caratterizzato Stalin, di cui Onfray e Odifreddi (immagino senza neppure virtuosamente sospettarlo) sono quindi allievi diretti.
Secondo approccio. E’ quello proposto dalla studiosa greca Maria Antonopoulou, da me accettato, che rifiuta la grande narrazioni dai presocratici ad oggi, ritenendola improponibile perché non omogenea. Il materialismo in senso moderno nasce soltanto a metà del Settecento, nell’ambito della genesi del pensiero borghese. Eliminate le fondazioni categoriali della sostanza (Locke) e della casualità (Hume), viene idealmente unificato il tempo (attraverso la categoria di lavoro astratto), l’attività umana (attraverso la categoria di lavoro astratto), ed infine lo spazio (attraverso
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la categoria di materia, che permette di pensare lo scorrimento della merce in uno spazio unificato, privo della precedente “sorveglianza” da parte della divinità trascendente).
Io accetto totalmente questo secondo approccio, anche se qui manca lo spazio sufficiente per motivarlo adeguatamente. In ogni caso, rifiuto la grande narrazione omogenea da Democrito alla Turchetto. So che essa piace agli “atei” nemici di Ratzinger ed amici di “Micromega”, ma non è il mio caso.
10. Il concetto di materia può essere filosoficamente declinato in molti modi di cui ne enumererò qui solo due:
Modo epistemologico. Questo riguarda esclusivamente la “materia” delle scienze naturali, antiche e moderne, e le tecniche di scoperta in campo fisico, chimico e biologico. Non è possibile estendere questo uso epistemologico e metodologico fuori dalle scienze naturali propriamente dette, e cioè nei campi delle scienze sociali e della filosofia.
Metodo metaforico. In questo caso l’uso del termine “materia” allude sempre a qualcosa d’altro, che si tratta di individuare e di discutere.
Nell’ambito del pensiero che si riferisce a Marx, e che è quello che ci interessa qui, e trascurando altri significati secondari (ad esempio materia metafora della fragilità umana, tipo il Leopardi di Timpanaro e di Luporini), il termine “materia” rimanda a quattro significati metaforici, distinti anche se interconnessi:
Materia come metafora di studio della società in base alla distinzione fra la struttura (forze produttive e rapporti di produzione) e la sovrastruttura (ideologia) di un modo di produzione. In questo caso materialismo è semplicemente sinonimo di strutturalismo. Tanto vale allora, per evitare ideologiche confusioni, chiamarlo semplicemente strutturalismo.
Materia come metafora di realismo gnoseologico, e cioè di teoria della concorrenza che presuppone l’anteriorità dell’esistenza degli oggetti rispetto al soggetto che li conosce. Il realismo gnoseologico adottato da Engels (mentre Marx non ne ha mai parlato) come teoria “ufficiale” della conoscenza del marxismo, è una rispettabile teoria, che però tratta la società (luogo di un processo idealistico di passaggio dalla coscienza all’autocoscienza – perché, che cos’è il comunismo se non questo?) come se fosse un oggetto fisico da rispecchiare. Questa teoria del riflesso (Widerspiegelung) è ricavata formalmente da Aristotele (per cui tuttavia non poteva esistere una storia universale) e da Tommaso d’Aquino (per cui la conoscenza rispecchia ciò che deriva da un oggetto esterno presupposto come estraneo o precedente l’uomo, e cioè ovviamente Dio). Questo curioso “materialismo” coincide quindi con la teoria della conoscenza di tutte le teologie e le filosofie religiose, e non a caso il gesuita Wetter ha sostenuto in un libro fondamentale che questa teoria è molto più affine alla religione dell’idealismo hegeliano, che è molto più pericoloso. E lo credo bene! Da Hegel deriva Marx, mentre da una religione teistica deriva invece una religione atea dell’inesistenza di Dio e deterministica della necessità teleologica del comunismo!
Materia come metafora della prassi rivoluzionaria, contrapposta all’”idea” come metafora di chiacchiere interminabili di intellettuali. E’ la concezione espressa nelle (inedite) Tesi su Feuerbach di Marx, che hanno poi dato luogo un secolo dopo alla teoria dell’estinzione della filosofia, che dovrebbe integralmente “realizzarsi” attraverso la prassi rivoluzionaria stessa. Chi è filosoficamente educato ci riconoscerà facilmente l’idea messianico-religiosa di fine della storia.
Materia come metafora della inesistenza di Dio. E quindi liberarsi delle imposture, dei miracolo, delle superstizioni, del grande giudice ultraterreno e dell’ingegnere progettista spaziale. Viva Darwin! Abbasso il creazionismo! Ateismo scientifico! Abbasso i pretini e i pretoni! Viva i fascicoli speciali della rivista Le Scienze!
Aspetto che qualcuno mi spieghi che cosa c’entra questo legittimo ateismo con la marxiana critica dell’economia politica. Sono tutt’orecchi.
12. Il discorso sarebbe appena iniziato, ma ovviamente bisogna qui tirarne le conclusioni. Io ho
sostenuto in alcuni saggi che lo statuto filosofico del pensiero di Marx è idealismo puro, derivato
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direttamente e senza mediazioni da Hegel, con la sola aggiunta che Marx vi ha introdotto un nuovo oggetto di pensiero e di studio, e cioè il modo di produzione indagato come totalità espressiva integrale, e nello stesso tempo strutturata ed articolata (ausgegliedert) in struttura e sovrastruttura. L’ho fatto perché era necessario provocatoriamente oppormi alle tiritere sul materialismo, e introdurre il sospetto che porta prima al dubbio iperbolico, e poi in alcuni miracolosi casi al riorientamento gestaltico. Ma sono però disposto anche ad ammettere che la metafora del materialismo (solo però nel caso (A) e nel caso (C), non certamente negli inutili e dannosi casi (B) e (D), da isolare e trascurare) ha buoni effetti conoscitivi, che integrano felicemente l’approccio idealistico.
Quindi: prima scienza della logica, e poi struttura e prassi. Il resto possiamo lasciarlo – direbbe Marx – alla critica roditrice dei topi.
SECONDA DOMANDA
Qui ci stiamo avvicinando ad un punto essenziale, ed andrò avanti per punti sintetici.
La tesi sull’unità di teoria filosofica dell’alienazione e di teoria economica del valore, inizialmente proposta da Lucio Colletti, è stata poi accettata da Claudio Napoleoni, ed era nota negli anni settanta come tesi Colletti-Napoleoni. Io l’accetto nell’essenziale, con qualche specificazione che accennerò più tardi. Prima ricordiamo le due rispettive interpretazioni divergenti di Colletti e di Napoleoni, e poi passeremo alla mia, che parte dalla loro, ma non è eguale.
Lucio Colletti, partito come allievo e continuatore di Galvano della Volpe, ha difeso a lungo la tesi scientista del marxismo come “galileismo morale”, e cioè come scienza sociale ricavata integralmente dal modello delle scienze della natura moderne. Questo implicava una critica radicale di Hegel, e quindi anche di tutta la tradizione marxista vista come troppo “conciliante” con Hegel (Engels, Lenin, materialismo dialettico, Lukàcs, Bloch, i francofortesi, Marcuse, e via demonizzando). Si tratta della posizione specularmene opposta alla mia, come ho chiarito nella mia precedente prima risposta, e come ha esposto Alessandro Monchietto in una recente tesi di laurea dedicata ad un esame “contrastivo” fra le mie posizioni e quelle di Colletti.
L’esito è stato un suicidio filosofico. La scoperta dell’intreccio dialettico inestricabile fra teoria filosofica dell’alienazione e teoria economica del valore fa cadere necessariamente ogni pretesa di “scienza pura” e di galileismo morale. E Colletti è stato così onesto da tirarne fuori le conseguenze, e di abbandonare integralmente Marx, per sposare uno scientismo integrale ed un ostentato rifiuto della filosofia in quanto tale.
Claudio Napoleoni ha adottato l’interpretazione di Colletti, ma ne ha poi tirato conseguenze politiche e filosofiche assolutamente opposte. La teoria dell’unità di teoria filosofica dell’alienazione e di teoria economica del valore gli è servita per distinguere fra critica dell’economia politica (basata appunto su questa unità) ed economia politica critica, che ignora invece questa unità dialettica, e si limita a trarre conseguenze sindacali e politiche distributive egualitarie dal modello utilitarista classico di Smith e di Ricardo, non modificato nell’essenziale, ma anzi assunto come base di partenza.
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Se si accetta questa tesi – come io faccio – allora l’analisi parte proprio da qui. Ne risulta subito che quella di Marx non è filosofia al 100% e neppure economia al 100%, ma una terza cosa, che ne la facoltà di economia ne la facoltà di filosofia possono tematizzare all’interno dei loro “steccati” disciplinari. Di qui sono nate diatribe, equivoci, fraintendimenti a catena, perché gli specialisti in filosofia ed in economia, se non accettano di problematizzare le loro competenze disciplinari ed i loro codici teorici, non possono letteralmente capire che cosa dice Marx.
Marx non è stato certamente il primo ad interrogare filosoficamente l’economia. Il primo è stato Aristotele con la distinzione fra economia e crematistica, tanto apprezzata da Karl Polanyi. Ma Marx è stato il primo in epoca moderna ad osare un’operazione inedita e rischiosa, l’innesto di una critica dialettica di origine hegeliana su di una struttura concettuale di origine utilitaristica.
Io lo ammiro molto per averlo fatto. Personalmente, sono un dilettante nel campo specifico chiamato “economia politica”, ma ritengo invece di capirci qualcosa nel campo chiamato critica dell’economia politica. Ma dove sta il nucleo teorico essenziale della marxiana critica dell’economia politica?
In sintesi, direi che sta nello smascheramento dialettico della pretesa di naturalità della produzione capitalistica. Questa pretesa, affermata da Adam Smith nel suo capolavoro del 1776, ha come presupposto la teoria della natura umana di David Hume, che considera “natura umana” l’insieme di comportamenti mercantili basati sulle reciproche attese del venditore e del compratore, attese del tutto destoricizzate e fatte diventare strutture psicologiche permanenti. Se si riassume il punto di vista psicologico-utilitarista di Hume, cadono sia le teorie del diritto naturale (giusnaturalismo), e del contratto sociale (contrattualismo), sia le utopie comunistico-egualitarie dei comunisti settecenteschi (Morelly, Mably, Babeuf, Meslier, eccetera), ma cade anche la posteriore teoria di Marx sul comunismo. Lo scambio capitalistico, lungi dal dar luogo all’alienazione (Entfremdung) ed alla reificazione (Verdinglichung), diventa la forma sociale naturale in cui avvengono i rapporti umani.
In questo senso Marx ha ragione dicendo che “per la borghesia in passato c’è stata storia, ma ora non c’è più”. Ed è proprio così. L’ideologia borghese si fonda su di una naturalizzazione della storia, il che da luogo inevitabilmente ad una ideologia della fine capitalistica della storia. A differenza di come dice Popper, il pensiero di Marx è l’unico modo di tenere aperta la storia, e di non farla “chiudere” in una fine capitalistica della storia stessa, concezione oggi urlata in tutti i modi da i (provvisori) vincitori di questa seconda restaurazione (Alain Badiou).
Nel 1867, nel primo libro del Capitale, Marx dà un riscontro filologicamente incontrovertibile alla tesi prima accennata. Il concetto di feticismo della merce, infatti, è proprio il concetto teorico che fonda l’unità di teoria filosofica dell’alienazione e di teoria economica del valore. Tutti i dellavolpiani e gli althusseriani sono profondamente irritati dal fatto che ritratta di un concetto del Marx maturo, e vorrebbero farlo scomparire, se potessero. Ma non possono, devono tenerselo, e allora il loro odio scientistico vera la filosofia diventa i fatto un odio verso lo stesso Marx. Eppure il concetto è del 1867, non del 1844.
Feticismo della merce significa che nel modo di produzione capitalistico, a differenza che in quelli precedenti, la generalizzazione della forma di merce porta all’incorporazione integrale dei valori d’uso degli oggetti nei valori di scambio delle merci, che diventano così il feticcio della società capitalistica. Marx definisce la società capitalistica una “immane raccolta di merci”(sic!), e definisce la merce un “arcano”, ed una “cosa imbrogliatissima, piena di metafisica e di capricci teologici” (questo è Marx, non Marcuse o Adorno, consueti oggetti di odio per gli odiatori professionali della filosofia).
Marx ragiona sempre in modo differenziale-contrastivo, ed il punto è allora di contrapporre il feticismo della merce come oscurità della coscienza con i casi storici in cui la realtà sociale dei valori d’uso è trasparente alla coscienza. Se nel capitalismo i rapporti sociali fra gli uomini vengono feticizzati come rapporti fra cose, che cosa avviene nei casi in cui non c’era questa feticizzazione?
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Marx elenca quattro casi, che qui per ragioni di spazio posso solo citare senza poter discutere come meriterebbero: (a) Robinson nella sua isola, che si trova in una situazione idealtipica in cui non esiste nessun valore di scambio, perché è completamente solo e non potrebbe scambiare nulla con nessuno; (b) il “tenebroso medioevo europeo”, in cui regna la dipendenza personale castale diretta, e le prestazioni personali classiste in natura non devono travestirsi da scambi di equivalenti; (c) l’“industria rusticamente patriarcale di una famiglia di contadini”, in cui il lavoro sociale è diviso secondo i sessi e secondo l’età; (d) infine, l’associazione di uomini liberi che lavora secondo un piano, unendo le proprie diverse forza-lavoro in un’unica forza-lavoro sociale. Qui tutto ridiventa trasparente e privo di mediazione totemica nel feticismo delle merci.
Questa quarta determinazione è particolarmente importante per il discorso che stiamo facendo.
6. In tutte le cose Marx ragiona in modo differenziale e contrastivo, che è in effetti il solo modo per non cadere nei discorsi sulla natura umana in generale (Hume), sulla produzione in generale (Smith), e sulla morale in generale (Kant). Ragiona in modo contrastivo quando parla dei modi di produzione sociali (primitivo, asiatico, schiavistico, feudale, capitalistico), o quando parla dei profili antropologici (dipendenza personale ,indipendenza personale, libera individualità). Ed il concetto di feticismo delle merci gli permette di pensare in modo contrastivo la società socialista dei liberi produttori differenziandola da quella capitalistica. Essa è trasparente (e quindi formalmente simile a Robinson, al tenebroso medioevo europeo e all’industria rusticamente patriarcale), ma a differenza di questi tre casi non si limita ad essere “trasparente” (anche la produzione schiavistica lo è, il che non significa che sia buona), ma è ostile alle forme di alienazione storica, sia pure trasparenti (padrone e schiavo, uomo e donna, eccetera). É quindi impossibile anche solo pensare in modo contrastivo la differenza fra il feticismo delle merci e l’alienazione capitalistici, da un lato, e la società dei produttori indipendenti, dall’altro ,se non disponessimo di concetti filosofici.
Lo capiscono questo i negatori della pertinenza di concetti come l’alienazione ed il feticismo delle merci, che vorrebbero una critica dell’economia politica totalmente” depurata “di concetti filosofici? Me lo sono chiesto a lungo, ed a lungo ho cercato di convincerli razionalmente, usando argomentazioni razionali, secondo l’etica della comunicazione dialogica, vecchia di duemila e cinquecento anni, e fondata dall’ateniese Socrate. Ma oggi non me lo chiedo più. L’arte è lunga, la vita è breve, e chi è cieco non potrà mai vedere i colori. Non si può costringere a guardare un quadro chi non lo vuole guardare.
Per quanto mi riguarda, resto un convinto sostenitore della fondazione filosofica della critica dell’economia politica.
TERZA DOMANDA
Delle nove domande che compongono questa intervista , e che mi permettono di chiarire alcune mie posizioni(cosa di cui sono grato all’intervistatore), questa terza è di gran lunga a la più importante, e quella a cui tengo di più, in quanto “intercetta”il mio approccio filosofico complessivo alla filosofia di Marx. Marx infatti non è soltanto il grande teorico dei modi di produzione e del modo di produzione capitalistico in particolare (su questo punto, infatti ,sono in buona parte althtusseriano e lagrassiano!), ma è anche e soprattutto un filosofo, e più esattamente il portatore di una antropologia filosofica umanistica.
Ma facciamo un passo per volta.
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Il concetto di natura umana in Marx c’è, e si basa sul concetto di ente naturale generico (Gattungswesen) come specificità differenziale dell’uomo rispetto agli altri animali. In fondo, il comunismo di Marx è un comunismo di esseri umani, e non di cani, gatti, cavalli,vermi o scorpioni. Bisogna quindi chiarire questo concetto. Ma, per chiarirlo, non basta per cosi dire”buttarlo li sul tavolo”. Per chiarirlo bisogna ricostruire l’intera tradizione occidentale, di cui Marx è erede (il rapporto fra il marxismo e la tradizione europea è l’oggetto di un mio studio ancora inedito in corso di pubblicazione).
Per ragioni di spazio, mi limiterò all’essenziale, e cioè a ricordare cinque profili antropologici della tradizione occidentale sulla natura umana (i due aristotelici, quello dell’umanista rinascimentale Cusano, quello di Spinoza ed infine quello di Hegel). Dopo, e solo dopo, esaminerò il concetto di ente naturale generico marxiano (Gattungswesen).
Aristotele connota l’essere umano come Animale politico (politikon zoon).É ovvio che questo non significa uomo che si occupa o segue la politica, nel senso di Hilary ed Obama oppure di Berlusconi e di Veltroni. Dal momento che la polis greca era una comunità politica, e non una società industriale individualistica moderna, la traduzione corretta dovrebbe essere animale comunitario, che è politico in quanto la “politica” è una forma regolata di mediazione pacifica dei conflitti sociali dovuti ad interessi economici divergenti (pensiamo in Atene agli abitanti della costa, della pianura e della montagna, mescolati dalla costituzione pitagorica di Clistene).
Quindi, l’uomo ha una natura umana. Questa natura umana è comunitaria,o più esattamente politico-comunitaria.
3.Vi è però anche una seconda definizione antropologica in Aristotele, complementare alla prima. L’uomo è infatti un Animale dotato di logos (zoon logon echon, logon è l’accusativo di logos).
Ma cosa vuol dire logos? In greco logos significa ragione (la ratio latina), linguaggio (da cui dialogos, parola che passa da una persona all’altra), ed infine calcolo matematico e geometrico delle proporzioni. Vi è infine un quarto significato propriamente filosofico, che significa struttura complessiva del mondo e della logica della sua riproduzione (stoicismo) ed un quinto significato, che significa parola di Dio attraverso l’incarnazione del figlio di Dio (inizio del vangelo di Giovanni). Ma questo quinto significato, sia pure espresso in lingua greca, è del tutto estraneo alla tradizione filosofica greca. Si tratta di un concetto messianico orientale e semitico, che usa la lingua greca, come i pakistani oggi usano la lingua inglese, ma che San Paolo ebbe l’onestà di dire che era una “follia per i greci”.
L’uomo è quindi un animale politico-comunitario (politikon zoon), che lo può essere proprio perché possiede anche una ragione, un linguaggio per comunicarla in modo dialogico-razionale, ed infine una capacità di calcolo delle proporzioni geometriche trasferibile al calcolo delle proporzioni di potere e di ricchezza degli uomini all’interno della comunità politica (logon). E da qui parte Marx. Ha avuto quindi parzialmente torto Lenin quando ha scritto che il marxismo ha tre radici e parti integranti (la filosofia classica tedesca, l’economia politica inglese ed il socialismo politico francese). C’è una quarta componente, originaria, fondamentale ed indispensabile, ed è la decisiva componente della filosofia greca, ed in particolare di Aristotele, sulla base pero della preventiva analisi comunitaria della genesi sociale delle categorie del pensiero filosofico.
4.La terza componente deriva dall’umanesimo neoplatonico rinascimentale, ed in particolare dalla concezione dell’uomo come microcosmo divino. Il filosofo Cusano lo ha espresso in modo impareggiabile.
Secondo Cusano non esiste altro fine della creazione attiva dell’umanità all’infuori dell’umanità stessa (non ergo activae creationis humanitatis alius extat finis humanitas). E l’uomo è un essere appunto generico proprio nel senso che poi gli darà Marx, in quanto l’uomo può essere un dio umano o in forma umana, un angelo umano, una bestia umana, un leone o un orso umano, o
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qualsiasi al tra cosa (potest igitur homo esse humanus deus atque deus humaniter, potest esse humanus angelus, humanus leo aut ursus, aut aliud quodcumque).
Il discorso sarebbe lungo, ma lo compendierò in due punti. Primo si tratta dell’antecedente logico e storico della concezione di Marx di ente naturale generico (Gattungswesen), il che fa di Marx un umanista filosofico al cento per cento. Secondo, la genericità umana non è riempimento indifferenziato e “generico” di contenuti politici e sociali qualsivoglia (quodcumque), ma è il supporto (hypokeimenon) di una potenzialità ontologica (dynamei on), e non certo di una aleatorietà casuale contingente (kata to dynaton) della scelta se voler diventare una bestia (leo aut ursus), oppure un microcosmo che imita e partecipa (mimesis e metexis) della ragione divina (humanus deus atque deus humaniter).
Non ho fatto le citazioni in tedesco, greco e la tino per mostrare la mia cultura (che è in effetti fantozzianamente mostruosa). Le ho fatte per mostrare che Marx è erede della tradizione occidentale, e che senza questa eredità non è nulla, e che solo i futuristi positivisti possono non capirlo. Ma costoro, come direbbe Hegel, bisogna lasciarli stare. E per finire con una ennesima citazione Hegeliana: contra negantes principia non est disputandum.
La filosofia umanistica di Spinoza raccoglie questa meravigliosa tradizione, e si limita ad inserirla nella nuova visione meccanicistica del mondo, derivata dalla scienza moderna. La sua non è una filosofia della necessità , come recitano erroneamente molte storie della filosofia (ad esempio quella di Nicola Abbagnano), ma è una filosofia della libertà.
E la libertà è a portata di mano dell’Uomo saggio e razionale, senza neppure il bisogno di costruire uno stato autoritario ed elitario ma anzi applicando la democrazia più radicale (come sostiene Andrè Tosel).E’ proprio la natura “generica” dell’uomo (anche se Spinoza non utilizza questa espressione) che gli permette di diventare saggio. E il saggio di Spinoza assomiglia come una goccia d’acqua (anche se non c’e il termine) alla persona che non acconsente alla propria alienazione (Lukàcs).
Infine, Hegel. E Hegel è il presupposto diretto della concezione marxiana di ente naturale generico (Gattungswesen). Hegel parte dalla critica a Kant, ed alla concezione kantiana, volutamente destoricizzata e desocializzata, di soggetto morale individuale a priori, dotato di libertà del volere come presupposto formale di scelte alternative. Anche l’antropologia di Marx, in realtà, parte dallo stesso presupposto antikantiano.
In alternativa radicale al formalismo aprioristico kantiano, Hegel propone una formulazione alternativa ed incompatibile della costituzione della soggettività. Si tratta della nota dialettica di passaggio dalla semplice coscienza (il sapere immediato) alla autocoscienza storica. Ed è questa concezione hegeliana il presupposto diretto della concezione di natura umana in Marx, mentre le due concezioni aristoteliche, la concezione cusaniana e la concezione spinoziana ne sono il presupposto indiretto, ma comunque sempre essenziale.
Sulla base di questa indispensabile ricostruzione, il concetto marxiano di ente naturale generico (Gattungswesen), può essere allora finalmente correttamente ricostruito. Il discorso sarebbe lungo, ma lo compendierò in tre punti essenziali:
In quanto generica (Gattung), l’uomo può diventare qualunque cosa, orso, leone o uomo stesso.
L’uomo può perdere la propria natura generica, ed alienarsi (Entfremdung). In questo senso, mentre il leone non diventa mai dis-leone, e la tigre non diventa mai dis-tigre , l’uomo può diventare dis-umano. E la disumanità, appunto, è la perdita della capacità di poter usare la propria “genericità” in funzione della sua liberazione e della sua emancipazione.
La genericità, quindi, non è mai solo potenzialità astratta, ma è sempre potenzialità di passare dallo stadio di leone ed orso umano a quella di uomo divino {deus humaniter). Nel linguaggio dell’ultimo Lukàcs, che a mio avviso è colui che ha saputo meglio di tutti comprendere e sviluppare meglio di tutti questo presupposto filosofico marxiano, si tratta della dialettica fra singolarità,
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particolarità ed universalità. Per questa ragione considero Lukàcs (o meglio il Lukàcs dell’Ontologia) il punto più alto della filosofia marxista del Novecento. Rispondendo indirettamente a Weber (disincanto del mondo e politeismo dei valori, e quindi nichilismo e relativismo) , Lukàcs riafferma che esiste una concezione ontologica di natura umana, ed essa (seguendo Aristotele, Cusano, Spinoza e Hegel) è il fondamento di un doppio processo possibile di conoscenza (del mondo) e di emancipazione (della società e dell’individuo, o meglio dell’individuo attraverso la società e della società attraverso l’individuo).
A questo punto, assimilati questi concetti essenziali, base per una interpretazione umanistica di Marx come erede di un “filo rosso” della tradizione filosofica occidentale (personalmente so bene che in Marx c’è una dialettica di continuità e di rottura, ma ritengo appunto che vi sia anche una unità di rottura epistemologica – il modo di produzione – e di continuità filosofica – l’umanesimo, appunto), passiamo ad un punto meno importante, e cioè la riflessione sulla sciagurata scelta del marxismo storico di rifiutare il concetto di natura umana.
Si tratta della figura dello sciocco che sega il ramo su cui è seduto, e cade così nel pozzo di merda sottostante. E’ la figura televisiva del personaggio di Tafazzi, che si picchia da solo furiosamente sui ciglioni una mazza ferrata. E dal momento che c’è sempre una logica nella follia, bisognerà cercarla.
Marx non ha mai dato a mio avviso veramente spunto per questa scelta suicida. Esiste però una sua formulazione infelice della sua sesta tesi su Feuerbach, per cui Marx scrive che “l’essenza umana non è qualcosa di astrattamente immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà è l’insieme dei rapporti sociali”.
Presa alla lettera, questa formulazione può essere interpretata come la negazione del fatto che esiste una natura umana. Se infatti essa è soltanto l’insieme dei rapporti sociali, allora uno dovrebbe concludere che esistono soltanto i rapporti sociali, e la natura umana si riduce a questi ultimi.
La formulazione è infelice, ed a mio avviso contrasta anche con la concezione precedentemente illustrata. L’ente naturale generico (Gattungswesen) si identificherebbe con i rapporti sociali. Questa concezione porta direttamente al sociologismo, allo storicismo, al relativismo, ed alla negazione radicale di ogni teoria della verità. Ma se la natura umana si riducesse integralmente ai rapporti sociali del tempo, mi chiedo: da quale punto di vista questi rapporti sociali stessi potrebbero essere criticati?
C’è qui un circolo vizioso insolubile. Se la natura umana è sempre solo l’insieme dei rapporti sociali, come potrebbe l’individuo Marx nel 1845 dire questo, da un lato, e criticare il capitalismo come alienato (Entfremdung) e sfruttatore (Ausbetung), dall’altro? Da quale punto di vista può criticare la società in cui vive?
É evidente che la formulazione di Marx, così com’è, è inesatta. In realtà bisogna differenziare concettualmente una natura umana, che non si riduce semplicemente ad un insieme di rapporti sociali, ed una essenza umana, che può essere definitiva (scorrettamente ed ambiguamente) come identica all’insieme dei rapporti sociali. Ma se non le differenziassimo, allora si dovrebbe arrivare al pessimismo dello heideggerismo per signore bene di Galimberti, per cui il soggetto (la natura umana) è ormai del tutto incorporato nel dispositivo (Gestell) della tecno-economia contemporanea. Con Goya, il sonno delle categorie filosofiche genera mostri politici.
Più banalmente, l’abitudine del marxista medio di ripetere a pappagallo che non esiste una natura umana non deriva dalla lettera della sesta Tesi su Feuerbach, ma del semplice chiacchiericcio della contrapposizione pittoresca e teatrale di “destra” contro “sinistra”, in cui la critica dell’economia politica diventa un canovaccio per la commedia dell’arte.
Secondo la destra, esiste una natura umana diseguale fra gli uomini, e lo stesso comunismo va
contro la natura umana, che per sua “natura” è proprietaria, disegualitaria, accaparratrice, egoista, e
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quindi incompatibile con qualsiasi progetto socialista e comunista. Di fronte a questa sfida sofistica, la “sinistra”, seguendo Rousseau (da essa sistematicamente confuso con Marx), sostiene che non è vero, che l’egoismo e la mentalità proprietaria non sono affatto innati, ma derivati dall’educazione e dai cattivi rapporti sociali. Questo torneo dialettico non dura solo da duecento anni, come molti credono, ma da molte migliaia di anni. E tuttavia, partendo da una giusta posizione (per cui non è vero che la natura umana è a priori egoista e proprietaria, e quindi capitalista per sempre) si arriva ad una errata posizione (per cui non esiste per nulla la natura umana). In sintesi: si parte da una giusta posizione ideologica, e si arriva ad una errata tesi filosofica.
12. In modo schizofrenico, tipico della confusione teorica di “sinistra”, la tesi dell’inesistenza della natura umana sciolta in un magma storicistico-sociologico, si unisce alla falsa teoria dell’ “uomo nuovo”, o del comunismo come regno dell’Uomo Nuovo. Ma l’uomo nuovo non esiste e non può esistere, ed è solo un incubo di manipolazione burocratica alla Orwell. Il fatto che confusionari generosi come il Che Guevara lo abbiano sostenuto in buona fede non significa certo che possa esistere. L’uomo antropologicamente è sempre lo stesso, anche se storicamente e sociologicamente cambia.
Ma qui devo fermarmi, anche se ovviamente proprio da qui bisognerebbe cominciare.
QUARTA DOMANDA
Un ritorno al “vero” Marx è impossibile, per un insieme di ragioni che elencherò sommariamente.
Il termine “verità” non è un termine filologico, ma è un termine che si applica esclusivamente (Hegel, Adorno, ed a mio avviso anche a Marx) alla totalità dialettica ricostruita con il pensiero. Questa totalità dialettica è puramente concettuale, e non si applica pertanto all’insieme di posizioni di un signore vissuto per sessantacinque anni (1818-1883). Il Vero, quindi, è il Tutto, e solo il Tutto. Il resto è sempre solo certo, esatto, veridico, accertabile, falsificabile, rivedibile, eccetera.
Applicare il termine “vero” all’insieme delle cose dette da Marx è indice infallibile di mentalità religiosa. È infatti tipico di tutte le religioni attribuire ai loro fondatori (Mosè, Gesù, Maometto, Buddha, eccetera) una verità originaria che si tratta sempre di ristabilire. Questo tipo di verità è sempre astorica, storicamente decontestualizzata, ed appunto per questo si tratta sempre di difenderla contro le eresie. Ma Marx non ha fondato una religione, anche se ovviamente non poteva impedire ai suoi successori “religiosi” di interpretarlo in modo religioso come “l’ultima parola perfetta della pienezza dei tempi”.
L’analisi del bordighismo, e cioè della dottrina fondamentalista di Amadeo Bordiga, è particolarmente interessante per studiare dal vivo un esempio di lettura fondamentalistico-religiosa del “vero” Marx.
Marx visse 65 anni (1818-1883). Facciamo l’esempio che avesse potuto vivere duecento anni (1818-2008). É del tutto evidente che avrebbe cambiato posizione a seconda degli sviluppi storici, che per loro stessa natura non possono che verificare e/o falsificare ipotesi fatte sulla loro previsione. Chi “inchioda” Marx ai suoi sessantacinque anni di vita non sa assolutamente che cosa sia una scienza. La scienza infatti, per sua propria natura, supera sempre le posizioni originarie dei suoi fondatori (Copernico, Newton, Lavoisier, Mendel, Darwin, eccetera). É curioso (e mostra indirettamente tutta la loro demenzialità) che i marxisti religioso-fondamentalisti da un lato dicano
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che Marx è uno scienziato meraviglioso privo di orribili presupposti filosofici, e dall’altro interrompano arbitrariamente la sua scienza al 1883, anno della sua morte contingente. Se si cerca una cartina di tornasole per la stupidità, la si trova proprio qui.
In inglese esiste il termine make consistent, e cioè coerentizzare, sistematizzare in forma coerente. Marx non lo ha mai fatto, dal momento che la sua personalità lo portava maggiormente a creare, fare problemi, fare ipotesi, problematizzarle, eccetera, piuttosto che coerentizzare. Egli ha quindi lasciato “incompiuta” la sua opera, come il Torso del Belvedere di Michelangelo. Nei suoi scritti si trovano infatti tesi contraddittorie (ad esempio, tesi hegeliane e tesi anti-hegeliane). Partendo dalla filologia, quindi, una coerentizzazione è impossibile. La filologia, infatti, è sempre ristabilimento storicamente contestuale, e mai puro e semplice ristabilimento di un testo privato della sua dimensione temporale. Questo non vale per il testo letterario, ma il testo filosofico presuppone sempre il contesto storico espressivo in cui fu composto. E questo vale particolarmente per Marx.
Secondo Althusser, Marx è stato il grande fondatore della “scienza della storia”. Althusser intende probabilmente che solo con la teoria strutturale della genesi, sviluppo e tramonto dei modi di produzione sociali nasce veramente la scienza della storia, mentre prima (Vico, Herder, Hegel, eccetera) non si avrebbe ancora una scienza della storia, ma soltanto delle rispettabili, ma sempre ideologiche, filosofie della storia. Marx avrebbe quindi fondato la prima scienza non filosofica della storia.
Sono in radicale disaccordo con la tesi di Althusser. Come ho già avuto modo di dire in risposte precedenti, per me quella di Marx è una scienza filosofica della storia, e non una scienza “positiva” della storia nel senso di Engels e prima di Comte. Rimando allora alla prossima sesta domanda ed al mio concetto di utopia scientifica, concetto del tutto incompatibile (in quanto dialettico) con le tesi di Althusser.
E tuttavia, anche ammesso che si accetti l’interpretazione antifilosofica di scienza della storia di Althusser (o di “galileismo morale” di Della Volpe e Colletti, che gli è a mio avviso molto simile), anche in questo caso non si potrebbe avere un ritorno a Marx, perché la “scienza” (filosofica o positiva che sia) si sviluppa nel tempo, e non può quindi restare ferma e fissata una volta per sempre al suo fondatore.
Comunque la si giri, quindi, e la si interpreti alla Althusser, alla La Grassa o alla Preve, non ha senso dire che si ha una scienza, e poi arbitrariamente inchiodarla per sempre al livello del suo (presunto) fondatore.
5. Personalmente, ho dei dubbi che sia utile dire che Marx è stato il fondatore del primo paradigma scientifico della storia (non importa se nel senso di scienza filosofica alla Hegel-Preve o di scienza positiva priva di presupposti filosofici fondativi alla Althusser-La Grassa). A me sembra che sarebbe più sobrio e realistico limitarsi a dire che Marx fu un momento decisivo nella sviluppo di una considerazione scientifica della storia , sviluppo che è. precedente a Marx. Ancora una volta, il concetto di fondatore mi sembra per sua natura rimandare ad un “mito dell’origine”, di tipo inevitabilmente fondamentatistico-religioso.
C’è poi un ultimo argomento che sconsiglia ogni programma di impossibile “ritorno a Marx”. Marx era un uomo determinato nello spazio (Germania, e poi Francia, ed infine Inghilterra) e nel tempo (I818-1883) .Certo ,egli propose un modello teorico di interpretazione del flusso storico, un modello basato su di un concetto fondamentale (il modo di produzione sociale) e su tre concetti ricavati dalla scomposizione e ricomposizione dialettica di quest’ultimo (forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologia e formazioni ideologiche di legittimazione e/o di contestazione classista). Egli non si limitò quindi a “descrivere” in modo economico e sociologico lo specifico capitalismo inglese del suo tempo. Anzi, il termine” capitalismo” è di fatto addirittura
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assente nel suo pensiero, e nasce soltanto trenta anni dopo circa con Sombart e Weber (cfr. gli studi di Bruno Bongiovanni). Deve essere chiaro: Marx non descrive il capitalismo inglese del suo tempo, ma costruisce un concetto di capitale e di modo di produzione capitalistico del tutto “astratti” (e l’astrazione, infatti, è specifica anche e soprattutto del pensiero filosofico).
E tuttavia, queste astrazioni concettuali marxiane, pur non identificandosi con le descrizioni empiriche del capitalismo inglese, non possono non essere fortemente influenzate dal modello empirico da cui Marx partiva. Questo modello empirico era caratterizzato dal capitalismo commerciale, da un basso (se non inesistente) gradi di conflittualità inter-imperialistica, da un basso grado di economicizzazione del conflitto (Bauman), di nazionalizzazione imperialistica delle masse (Mosse), di astrazione del denaro (Simmel), di burocratizzazione (Weber), di separazione fra critica sociale e di critica culturale del capitalismo (Boltanski), eccetera. Ed ecco perché un ritorno a Marx è impossibile anche solo sul piano”modellistico”. Lo stesso”modello”deve essere aggiornato ai nuovi dati storici emersi dopo il 1883 e fino ad oggi (2008).
QUINTA DOMANDA
É per me chiaro ed evidente che non solo il pensiero di Marx non deve essere abbandonato, ma che esso resta il fondamento principale di un pensiero anticapitalista. In questo senso, io mi considero (e mi autocertifico soggettivamente) come un allievo critico di Marx, termine che preferisco al termine “marxista”, per le ambiguità che quest’ultimo porta inevitabilmente con sé. E allora ripeterò qui per chiarezza punti già discussi nelle domande precedenti, o che discuterò nelle domande successive. Meglio ripetersi, infatti, che lasciare equivoci. Meglio ripetere le cose tre o quattro volte, piuttosto che dare luogo ad oscurità ed a ambiguità.
Se è vero, infatti, che Marx è stato l’iniziatore di una critica dell’economia politica (CEP), fondata sul concetto di feticismo delle merci come unità della categoria filosofica dell’alienazione e della categoria economica del valore (come io credo – vedi mia risposta alla prima e seconda domanda), e non soltanto un illustre esponente dell’economia politica critica (EPC), che ha avuto origine in Ricardo, Sismondi e nei socialisti ricardiani, ne deriva allora che non possiamo fare a meno di questa impostazione di Marx. L’economia politica critica, infatti, può al massimo giungere a prospettare una più equa e meno selvaggiamente diseguale riparazione distributiva del prodotto, oppure un intervento statale sull’economia, ma non può per sua propria natura (la sua natura antifilosofica ed utilitaristica, che critica Smith e Ricardo accentandone integralmente le premesse utilitaristiche) esprimere una critica globale al capitalismo.
Lo stesso Marx, però, deve essere a mio avviso “criticato”, secondo lo stesso approccio che ha avuto verso Hegel. Io mi considero un allievo critico di Marx, e seguo l’esempio illustre dello stesso Marx, che si considerava (e lo ha scritto nero su bianco – alla faccia degli althusseriani) un allievo critico di Hegel. In questo senso, paradossalmente, imitando Marx mi considero soggettivamente un marxista ortodosso.
Questa critica, però, non può essere fatta senza “bestemmiare”, e cioè senza mettere in discussione alcuni aspetti economicismi, storicismi ed utopistici di Marx (cfr. Costanzo Preve, Marx Inattuale, Bollati Boringhieri, Torino 2004).
Se la prima operazione teorica da fare è quella riassunta nel paragrafo precedente, la seconda operazione da fare consiste nella ricostruzione storica del marxismo successivo a Marx, che non
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deve essere indagato nei termini di allontanamento, errore, fraintendimento, tradimento, eccetera, ma al contrario come necessario adeguamento ideologico alle conseguenze alle esigenze di soggetti sociali (in questo caso, la classe operaia e salariata della seconda rivoluzione industriale e della grande depressione 1873-1896) in cerca di una teoria di riferimento che venisse incontro alle loro esigenze di organizzazione sindacale e politica e di identità storica e sociale.
A queste esigenze venne meritoriamente (l’avverbio è essenziale per non cadere nell’astrattismo puro) la formazione ideologica marxista, o scena primaria del marxismo (uso qui consapevolmente un termine di Freud), elaborata congiuntamente prima da Engels e poi da Kautsky nel ventennio di fondazione 1875-1895.
Dal momento che il novantacinque per cento degli sciocchi e dei poco informati crede sinceramente che questa meritoria formazione ideologica marxista sia stata creata direttamente da Marx (errore eguale e contrario di quello di chi ritiene che si sia trattato di un fraintendimento deterministico da parte di Engels e Kautsky), hanno ragione coloro che (come il mio amico recentemente scomparso Jean-Marie Vincent) sostengono che bisogna sbarazzarsi del marxismo, che è ormai soltanto un ostacolo epistemologico e soprattutto politico per rilanciare un nuovo pensiero anticapitalistico? Ha ragione Vincent, con la sua proposta volutamente radicale ed estremistica? Distinguerei. Da un lato, ha ragione nell’essenziale. Il succedersi secolare (1889-1989) delle varie formazioni ideologiche marxiste, dei tentativi falliti di correzione, eccetera, fa ormai parte della storia delle idee del passato, esattamente come il neoplatonismo rinascimentale, l’illuminismo materialistico settecentesco francese, il positivismo ottocentesco, eccetera. Se non ci si “congeda” da questa storia, non è possibile procedere verso una nuova teoria capitalistica.
Dall’altro, però, non è possibile sbarazzarsi della zavorra “marxista” se prima non si è in grado di proporre una convincente storia delle idee marxiste (cfr. C. Preve, Storia Critica del Marxismo, La Città del sole, Napoli 2007). Se si ritiene che un pensiero è “storicamente concluso” (termine che preferisco al termine “finito” – mai niente finisce, perché viene metabolizzato in un pensiero successivo), allora è indispensabile impadronirsene, attraverso la sua razionale storicizzazione.
SESTA DOMANDA
Mi rendo conto perfettamente conto che il termine “utopia scientifica” è un ossimoro, e produce un effetto di straniamento. Se una cosa è utopica, come può essere scientifica? Ed evidentemente, se è scientifica, come può essere utopica? I due termini sono visto come opposti. Ma, appunto, la dialettica è l’unità degli opposti. Vediamo come.
1. Il termine che propongo, rivolto a provocare in chi lo ascolta un salutare straniamento, è in diretta polemica con la formulazione di Engels, che nel discorso di circostanza sulla tomba di Marx come di colui che aveva fatto passare il socialismo dall’utopia alla scienza, e che pubblicò un saggio con lo stesso titolo, destinato ad essere letto molto più dello stesso Capitale, che restò sempre cibo per pochi esperti.
Una precisazione. Non mi sogno affatto di criticare retrospettivamente Engels per avere proposto questa formulazione. Non sono così privo di senso storico per farlo. Nel contesto storico in cui questa formulazione fu proposta, il ventennio 1875-1895, essa era del tutto logica e razionale, perché corrispondeva interamente alla dominante concezione di legge scientifica del positivismo del tempo. Oggi però il positivismo può essere criticato, anche ammesso che a quei tempi, fosse il massimo raggiungibile della razionalità scientifica.
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Quindi nessuna condanna retroattiva ed astorica di Engels. E tuttavia, visto che oggi (2008) ci separano da allora cento e trenta anni, con le esperienze storiche novecentesche in mezzo, sarebbe sciocco non riflettere su questa formulazione.
La formulazione engelsiana di passaggio dall’utopia alla scienza non si basava sul canone epistemologico althusseriano o sul canone dellavolpiano del galileismo morale, ma sul canone positivistico del tempo. Engels era convinto che Marx avesse scoperto una sorta di legge darwiniana dell’evoluzione necessaria dal capitalismo al socialismo, basata su di una teoria del crollo necessario della produzione capitalistica a causa della contraddizione immanente fra crescita delle forze produttive e natura parassitaria dei rapporti borghesi di produzione. A questa contraddizione fondamentale si aggiungevano altre contraddizioni minori della produzione capitalistica (aumento della composizione organica del capitale, caduta tendenziale del saggio del profitto, sovrapproduzione-sottoconsumo, eccetera). È dunque normale che Engels pensasse ad una cosa del genere. Nessuno può sollevarsi al di sopra del suo tempo storico, così come il barone di Münchhausen non può tirarsi in cielo solo con il proprio codino.
Ma questa ipotesi serissima del crollo del capitalismo è vera? Oggi (2008) possiamo dire che era falsa, o meglio inesatta. Il capitalismo, la cui norma di accumulazione è illimitata, non presenta apparentemente limiti interni di alcun tipo, che non siano limiti ecologici ambientali, ed infatti sta massacrando anche quelli. In quanto alla classe operaia, salariata e proletaria, essa sembra essere una classe sfruttata sì, ma non intermodale, nel senso di soggetto collettivo rivoluzionario capace di superare, e non solo contestare, il modo di produzione capitalistico. In quanto al lavoratore cooperativo collettivo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, non si è mai formato. Eccetera, eccetera.
Chi si ostina a fare come se tutto questo non fosse successo, come i gruppi fondamentalisti bordighisti e trotzkisti, si è condannato ad un ruolo di sacca protetta di testimonianza marginale. Se è così, bisogna riformulare sia i concetti di scienza e di utopia, sia la loro natura di ossimoro.
Dal momento che il marxismo come scienza ed il marxismo come utopia sembrano proprio dei contrari incompatibili, facciamo un esperimento mentale. In un segmento, mettiamo da un lato il marxismo scientifico più scientifico che sia mai esistito (la scuola di Louis Althusser), e dall’atro lato il marxismo più utopico che sia mai esistito (la scuola di Ernst Bloch). Il primo marxismo scientifico ha come concetto-cardine quello di modo di produzione storicamente determinato, il secondo marxismo utopico ha come concetto-cardine quello di essere come utopia, o se vogliamo di essere come non-ancora (Noch-Nicht-Sein) o se vogliamo di continuo esperimento del mondo (experimentum mundi).
Che cosa c’è apparentemente di più contrario? Apparentemente nulla. In realtà, questi contrari hanno un robustissimo minimo comun denominatore, il rifiuto del concetto di scienza filosofica. Althusser sceglie Kant, Comte e Max Weber. Bloch sceglie Schelling. Gli unici che non ci sono, sono infatti Hegel e Marx.
Esagero? Vediamo le cose più da vicino.
Com’è noto, Hegel distingue fra il tipo di conoscenza prodotto dall’intelletto scientifico (Verrstand) ed il tipo di conoscenza prodotto dalla ragione dialettica (Vernunft). É un fatto noto, ma spesso – come dice Hegel – ciò che è noto non sempre è conosciuto. Una volta che ci sforziamo di conoscerlo, ci accorgiamo che la critica dell’economia politica non può essere fatta sulla base dell’intelletto (Verstand), ma solo dal punto di vista della ragione dialettica (Vernunft), per il semplice e noto fatto che la critica dell’economia politica interroga criticamente la totalità espressiva dell’intero concetto di capitale. Sono Smith e Ricardo che usano l’intelletto scientifico (Verstand), e Marx non potrebbe criticarli se non usasse invece la ragione dialettica (Vernunft). Per questa ragione mi sembra del tutto impossibile fare della critica dell’economia politica senza
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utilizzare il concetto di alienazione (Entfremdung). Utilizzando il semplice concetto di sfruttamento come estorsione di plusvalore assoluto e relativo sotto l’ingannevole apparenza di scambio di equivalenti (Ausbeutung), si ha infatti a mio avviso una semplice economia politica critica di estrema “sinistra”, ma non si ha una critica integrale dell’intero mondo di cui è espressione la critica dell’economia politica. Ma torniamo al nostro problema.
Ed il nostro problema sta in ciò, che sia la scienza (galileiana oppure maxweberiana, è lo stesso) che l’utopia, utilizzano entrambe soltanto il metodo dell’intelletto scientifico (Verstand), mentre rifiutano entrambe il metodo della ragione dialettica, e cioè della scienza filosofica propriamente detta come unità di conoscenza e di valutazione dell’intero (Vernunft), e lo si può anche pacatamente dimostrare.
Per “scienza” si possono intendere oggi molte cose, che qui per brevità ridurrò a due. Primo, il metodo delle scienze naturali moderne (Galileo e Newton, eccetera), basate sulla quantificazione matematica della natura e sull’esperimento controllato in vista di una verificazione o di una eventuale falsificazione (Popper). Secondo, il metodo delle scienze sociali moderne (Durkheim e soprattutto Max Weber), che parte dall’accettazione della fallacia naturalistica di Hume raccolta poi da Weber (distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore), e che sfocia nella metodologia dei tipi ideali e della loro inevitabile ricaduta relativistica (disincanto del mondo e politeismo dei valori). Ebbene, questa doppia scienza è esattamente il tipo di scienza che Hegel connota come il sapere dell’intelletto scientifico (Verstand), basata sul presupposto kantiano per cui la totalità è in via di principio inconoscibile.
Vogliamo un marxismo galileiano-kantiano? Prego, accomodatevi. Chi scrive ha un appuntamento da un’altra parte.
Per utopia si intende quasi sempre la prefigurazione razionalistica a tavolino di una società ideale costruita proprio in base alle categorie del diritto e della ragione naturale (utopismo rinascimentale, utopismo seicentesco e settecentesco, socialismo utopistico criticato da Marx). In un secondo significato, quello di Ernst Bloch, l’utopia si occupa solo del presente (citazione di Bloch) , e si basa su di una “ontologia dell’incompiuto” (Noch-Nicht-Sein), che per la sua estrema genericità assomiglia come una goccia d’acqua (udite, udite e riflettete!) al materialismo aleatorio dell’ultimo Althusser. In entrambi i casi si rinuncia alla prevedibilità scientifica del socialismo (perché era questo il concetto originale di Marx e di Engels!!!), per parlare genericamente di insorgenza utopica oppure (ma è esattamente lo stesso) di aleatorietà.
L’utopia, per il suo carattere astrattamente progettuale e fatto a tavolino, è un tipico esempio di uso dell’intelletto astratto (Verstand). Il filosofo utopista visionario e l’ingegnere progettista positivista pensano infatti allo stesso modo, ed utilizzano entrambi la stessa facoltà conoscitiva, e cioè l’intelletto scientifico (Verstand).
Possiamo ora tirare le fila di questo discorso:
Il grande assente della struttura categoriale della scienza (galileiana e weberiana) sia dell’utopia (blochiana) è l’uso della ragione dialettica della conoscenza e della valutazione della totalità espressiva (Vernunft).
Senza l’uso della ragione dialettica (Vernunft) non esiste scienza filosofica. Quella di Marx non è scienza solo “positiva”, ma è una scienza filosofica.
Finché questo principio non verrà ristabilito (e purtroppo non ho speranze che venga ristabilito presto), il marxismo purtroppo resterà una scienza utopica, cioè un ossimoro. La pretesa di fondare scientificamente un’utopia impossibile (la fine dello stato e la fine comunistica della storia). Un po’ di dialettica hegeliana sui progetti impossibili che si rovesciano necessariamente nel loro contrario non farebbe male.
Ma è inutile parlare ai sordi e parlare al vento.
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SETTIMA DOMANDA
II concetto filosofico di reificazione (Verdinglichung) , massicciamente usato dal Lukàcs del I923 (cfr.Storia e Coscienza di Classe), si presta soprattutto a tre distinti ordini di osservazioni.
In primo luogo, questo concetto del 1923 non è per nulla originale, ma si limita a riproporre il concetto di feticismo della merce proposto da Marx nel primo libro del Capitale del 1867. Nel frattempo cinquantasei anni sono passati, c’è stato di mezzo Max Weber e l’inaudito rafforzamento del capitalismo. E tuttavia sia il feticismo delle merci che la reificazione dicono la stessa cosa, e cioè che i rapporti sociali fra gli uomini appaiono nel capitalismo rovesciati come rapporti fra cose, e quindi come rapporti fra valori di scambio fra le merci. In questo senso, nessuna novità teorica.
La novità storica però c’è, e grossissima. Nel 1917 era avvenuta la prima rivoluzione socialista della storia, che aveva fatto diventare improvvisamente di attualità la quarta tipologia “astratta” disegnata da Marx nel 1867, e contrapposta al feticismo capitalistico delle merci. Le prime tre tipologie erano state, nell’ordine, la figura di Robinson solo nella sua isola, il tenebroso medioevo europeo , ed infine l’azienda patriarcale in cui il lavoro sociale era suddiviso in modo “naturale” , per età e per sessi. Ma ora arriva la quarta tipologia , e cioè la libera associazione di lavoratori che producono senza sfruttamento classista e secondo un piano, in base ad una sorta di unica forza-lavoro unificata. Il modello, in poche parole, che Lenin voleva costruire in URSS. E qui sta l’attualità della riproposizione lucacciana del concetto di feticismo delle merci, riformulato come teoria della reificazione capitalistica.
3.Penso dunque molto bene di questo concetto. E tuttavia è interessante notare che il movimento comunista internazionale rifiutò radicalmente questa proposta lucacciana in favore del materialismo dialettico, inteso come ontologia unificata della natura e della storia, basata sua volta su di una gnoseologia del rispecchiamento. Questo mostro filosofico (ontologia unificata più gnoseologia del rispecchiamento) evidentemente si prestava meglio per una ideologia di legittimazione “naturalistica”del potere staliniano. La sconfitta del giovane Lukàcs rispetto al cosiddetto Diamat deve quindi diventare oggetto di una deduzione sociale delle categorie che l’hanno reso possibile, ed anzi inevitabile.
OTTAVA DOMANDA
Conosco personalmente Gianfranco La Grassa (d’ora in poi, GLG) da trent’anni (1978-2008), e provo nei suoi confronti sentimento di stima e di amicizia (ritengo ricambiati). Ho scritto con lui e con altri libri collettivi, ho firmato con lui almeno tre libri ed ho anche scritto un’introduzione ad una sua raccolta di saggi. Gli devo molto, perché in quanto estraneo all’università non avrei forse neppure potuto cominciare a pubblicare senza il suo aiuto. E dal momento che considero la gratitudine la prima fra le virtù, non lo dimentico. Ma detto questo amicus Plato, sed magis amicas veritas.
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Dirò che cosa penso di La Grassa in tre punti, di cui solo il primo è importante. Il secondo è interessante, ma marginale. Il terzo è irritante e pittoresco, ma anche irrilevante. Quindi, nell’ordine: la collocazione storica e teorica di GLG nel contesto del marxismo italiano della seconda metà del Novecento e di questi primi anni del Duemila; la radicalità analitica di GLG rispetto al contesto politico italiano; il suo pittoresco analfabetismo filosofico aggressivo, irritante, ma anche e soprattutto del tutto irrilevante. Solo il primo punto, però, è realmente importante per giudicare il nostro GLG.
1. GLG è stato uno dei più importanti, originali e creativi marxisti italiani. Da un lato, è stato a lungo il più importante esponente italiano della formazione ideologica che chiameremo “maoismo occidentale”, in quanto allievo creativo e originale di Charles Bettelheim. Dall’altro, si è contrapposto positivamente alle due formazioni ideologiche di “sinistra” più importante in Italia, che definirò lo storicismo picista (preferisco usare il termine PCI piuttosto del termine nobile di “comunismo”, che nessuna sigla può pretendere di avere in proprietà privata) ed il codice operista, nelle sue metamorfosi da Panzieri a Negri. Esaminiamo questo profilo lagrassiano in quattro punti sintetici:
GLG come esponete del maoismo teorico italiano. I primi saggi di GLG sono rivolti, paradossalmente, a criticare il modello marxista della centralità dello sviluppo “neutrale” delle forze produttive, sostenuto dal suo maestro Antonio Pesenti (il modello che Brenner chiama correttamente “marxismo smithiano”). Al centro, esattamente come per la “banda dei quattro” cinese, viene messa la natura antagonistico-classista dei rapporti sociali di produzione, cui lo sviluppo delle forze produttive viene subordinato. É questo un elemento di affinità (ma è l’unico) con il canone operista, che fa più o meno lo stesso. L’elemento paradossale sta in ciò, che l’attuale GLG, sostenitore accanito della centralità dello sviluppo delle forze produttive, si contrappone frontalmente al primo GLG, sostenitore del primato dei rapporti conflittualistici di produzione. Rottura epistemologica? Furore ideologico? Assunzione non dialettica della recente scoperta della geopolitica? Permanenza dell’unilateralità antidialettica althusseriana, che prima riduce la filosofia ad epistemologia e poi si converte alla filosofia più ideologica che esista, il materialismo aleatorio? Semplice bizzosità psicologica mossa dall’odio verso la pubblicità del Mulino Bianco? Il lettore barri pure la casella che vuole.
Oppositore al non-marxismo dello storicismo picista. Il picismo non ha mai sviluppato una sua teoria del capitalismo, se non come teoria storicistica del progresso, e pertanto come ottimismo tecnologico e relativismo nichilistico (su questo punto solo Augusto Del Noce ha veramente colto il nocciolo della questione). GLG ha conosciuto il picismo fino dalla metà degli anni cinquanta, e ne ha seguito tutta la dissoluzione, anche se per la nota ignoranza filosofica non ne ha mai capito la dinamica reale. In ogni caso, GLG ha dovuto rompere con il suo maestro picista Pesenti proprio perché ha precocemente capito che il picismo non ha mai avuto una concezione del capitalismo che non fosse un’ebete fiducia nello sviluppo delle forze produttive.
Opposizione al canone operistico, da Panzieri a Negri. É questo, a mio avviso, il principale contributo teorico di GLG, quello per cui passerà in futuro alla storia in una ricostruzione della storia del marxismo in Italia. Il canone operaista ignora il fatto che il capitale non esiste come soggettività sistemica unificata che pianifica la propria estorsione del plusvalore (Panzieri) e non è neppure un “residuo” posto dalle lotte della composizione di classe operaia e proletaria (Tronti, Negri), ma è una rete concorrenziale costituita da conflitti strategici fra varie unità capitalistiche in reciproca lotta. Inoltre, Marx ha probabilmente confuso il livello dell’unità produttiva della fabbrica, in cui effettivamente avviene la socializzazione del lavoro produttivo, dal direttore all’ultimo manovale, con la rete concorrenziale di imprese, in cui questa socializzazione non avviene, ma avviene al contrario il massimo di desocializzazione antagonistica.
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Il discorso sarebbe lungo, ma devo limitarmi alla conclusione: la superiorità del canone lagrassiano sullo storicismo picista e sul canone operaistico è addirittura tennistica. GLG ha ristabilito il punto di vista marxiano, che vedeva il capitale come un rapporto conflittuale-strategico fra i vari capitali.
(d) Rottura con il determinismo teleologico. Riprendendo la parte positiva della scuola althusseriana (perché sia ben chiaro che anche per me questa scuola ha avuto un ruolo parzialmente positivo, almeno all’inizio), GLG accetta la critica di Althusser alla triplice teologia dell’Origine, del Soggetto e del Fine, e rompe quindi con la concezione lineare, accrescitiva, deterministica e teleologica del passaggio necessario dal capitalismo al comunismo, minimo comun denominatore dei marxismi della seconda e della terza internazionale, nonché del picismo. Senza conoscerne neppure il nome, a causa del suo pittoresco analfabetismo filosofico, GIG nondimeno “risponde” alle critiche come quelle di Croce (comunismo come fine della storia), di Popper (pretesa di deduzione “scientifica” del comunismo), ed infine di Lówith (secolarizzazione della escatologia religiosa).
Il ristabilimento di una concezione ciclica della riproduzione del capitale è qualcosa che personalmente condivido. La rivoluzione appare quindi non come un esito inevitabile della storia, o come frutto di un “crollo” della produzione capitalistica (per sottoconsumo, sovrapproduzione, caduta tendenziale del saggio del profitto, ed altri deliri economicistici), ma come una “possibilità oggettiva”, che si presenta in “finestre storiche” di crisi, ciò che oggi è da alcuni chiamato (impropriamente) materialismo aleatorio.
Spero che non vi siano dubbi: io considero GLG un grande pensatore marxista, uno dei migliori della tradizione italiana.
2.Vi sono teorici di valore, che sono però ipocriti ed opportunisti sul piano politico. Non è il caso di GIG.
GLG comprese fin dai primi anni Settanta, e fu uno dei primissimi in Italia, che il personale politico picista sarebbe diventato il funzionariato politico non certo dei”ceti medi” , ma del grande capitale finanziario, delle banche ed addirittura dell’impero militare americano, una volta “cambiata casacca” (ma non mentalità). Oggi (Veltroni, eccetera), questo è chiaro come il cristallo, ma nei primi anni settanta non lo era chiaro affatto (lo ammetto: a me per esempio allora non era affatto chiaro; me lo ha insegnato GLG).
GLG ha rotto con la dicotomia Destra/Sinistra, anche se lo ha fatto alcuni anni dopo il mio esempio, da assoluta avanguardia. Ma il proverbio dice: meglio tardi che mai. Benvenuto a bordo!
3. GLG ostenta a mio avviso un infantile analfabetismo filosofico aggressivo, certo irritante, ma anche del tutto irrilevante. Esso è tragicomico, ed esaminiamo prima l’aspetto comico e poi quello tragico.
L’aspetto comico sta in ciò, che GLG spara su ciò che non conosce, e poiché lo conosco da trent’anni so perfettamente che non lo conosce assolutamente, e con me non può fingere di conoscerlo, perché io potrei anche fingere di sapere il giapponese ed il russo, ma davanti ai signori Sakamoto e Ivanov sarei sicuramente smascherato.
La sua analisi abituale segue infallibilmente tre modelli. Primo momento: insulti scomposti contro l’umanesimo, l’alienazione, la dialettica hegeliana, il feticismo delle merci. Secondo momento: di fronte ad una pacata rimostranza ad un educato invito alla discussione, affermazione che non sa, non si interessa, non è esperto, eccetera. Curioso, perché non si capisce perché si debba insultare ciò che non si conosce. Terzo tempo, alcuni mesi dopo: ripresa degli insulti contro la filosofia, eccetera. É assolutamente chiaro che non ha alcun senso “confrontarsi” con chi si comporta violando tutte le regole minime del confronto dialogico. Con i termini di Ennio Flaiano: la situazione è disperata, ma non seria.
L’aspetto tragico sta invece nella riproposizione di un vecchio (e stolido) vizietto positivista, e cioè
del disprezzo della filosofia in quanto tale (da cui GLG salva solo l’epistemologia, la teoria della
conoscenza e le banalità sulla finitezza della vita umana: la lucacciana solidarietà antitetico-polare
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fra esistenzialismo e neopositivismo). Ma già Lenin scrisse che in generale chi disprezza la filosofia e ritiene di poterne fare a meno è in realtà schiavo di una cattiva filosofia. É questo è proprio il caso di GLG, forma particolarmente pittoresca. Poco male. GLG ha saputo egualmente scrivere cose intelligenti. Sarebbe invece triste che un giovane ignaro finisse con il credere che queste esternazioni psicologico-bizzose siamo il fondamento di una “concezione scientifica del mondo”. Questa sarebbe, sì, una tragedia. Ma ripeto, la cosa è irritante, ma anche irrilevante.
NONA DOMANDA
Trascurerò qui gli aspetti secondari della critica di Petrosillo a Bontempelli, per andare a quelli che ritengo siano il “cuore” dei problemi. Gli eccessi polemici possono essere talvolta irritanti, ma non bisogna lasciarsene fuorviare. Se qualcuno ti mostra la luna con il dito, bisogna guardare la luna, non il dito.
Bontempelli ha fondamentalmente ragione a sostenere che nello sviluppo e nella radicalizzazione totalitaria del capitalismo si ha una sorta di tendenza alla sottomissione reale (e non solo formale) della singola personalità umana alla riproduzione capitalistica stessa. É allora errato prendere spunto dal modo insopportabilmente moralistico con cui Bontempelli sostiene le sue tesi, e che io personalmente reputo fastidioso (causa non ultima della sospensione della nostra precedente collaborazione), per eliminare il fondamento razionale di quanto dice.
Se infatti accettiamo la tesi (Marx, capitolo VI inedito), per cui esiste un passaggio da una sottomissione puramente formale ad una sottomissione reale del lavoro al capitale (tesi che personalmente considero corretta), allora non vedo perché questa tesi non debba anche essere estesa al modo in cui il processo di capitale cerca di assoggettare la stessa personalità umana, riducendola ad un contenitore vuoto illimitatamente riempibile da offerte di consumi che hanno perduto qualunque riferimento “naturale”, per diventare protesi psicologiche artificiali per lo smaltimento delle merci. Ci sarebbe forse, da un lato, una sottomissione reale del lavoro al capitale nella semplice sfera della produzione industriale, e poi non ci sarebbe una più ampia sottomissione anche del profilo umano sia dell’individuo come unità minima astratta del consumo e sia della stessa persona (che Marx intendeva come prosopon, maschera di carattere, Chraktermaske)?
Bontempelli può benissimo esporre questa tesi in modo insopportabilmente lagnoso, pauperistico, alla Marzio Pallante, eccetera. Ed infatti lo fa. Ma ciò non toglie che abbia ragione nell’essenziale, e per di più completamente ragione. Inoltre, è conforme anche allo spirito ed alla lettera del pensiero di Marx. Soltanto la insensata “furia anti-umanistica” di La Grassa può non comprendere questo punto. La critica dell’economia politica, in quanto critica globale e non solo distributiva al capitalismo, comprende ovviamente anche le forme di modellamento artificialistico e manipolativo della personalità.
Connotare il lagnoso, pedante e moralistico Bontempelli come un “Negri depresso” è forse spiritoso,ma non coglie la differenza essenziale fra Negri e Bontempelli. Si tratta di pensatori assolutamente opposti ed incompatibili. Bontempelli è una sorta di hegeliano neoplatonico, Negri è un odiatore feroce di Hegel. Ma vediamo meglio.
Negri parte da una antropologia ricalcata sul niccianesimo francese di Deleuze e Guattari, che sostituisce all’antropologia dei bisogni limitati (la cui origine sta nel metron di Aristotele e soprattutto di Epicuro) una antropologia dei desideri illimitati. L’illimitatezza di Negri, che si crede anticapitalistica, è in realtà ricalcata interamente sulla illimitatezza del capitale (come vedremo più avanti). Si tratta semplicemente di un rovesciamento dialettico del capitalismo proprietario in una sorta di ipercapitalismo anarchico ribattezzato, “comunismo”. É la fase delirante suprema del soggettivismo operaista, che addirittura giunge a ribattezzare “ontologica” la soggettività più sfrenata.
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Bontempelli, all’opposto di Negri, si basa su di una antropologia dei limiti, della misura, e pertanto della limitazione dei bisogni, e non certo della illimitatezza dei desideri. L’opposto di Negri. Insieme con il suo amico e sodale Badiale, Bontempelli ha scritto alcuni testi sulla necessità dell’esodo, della secessione dalla società consumistica, della limitatezza francescana dei consumi. Il contrario di Negri.
Mi stupisce che Petrosillo sia incorso in un simile errore. Non mi stupirei che vi fosse incorso La Grassa, la cui pittoresca incapacità ideologica differenziata (perché l’ideologia, come la raccolta dei rifiuti, deve essere differenziata) porta sempre a sparare con il cannone contro i conigli. Ma dall’amico Petrosillo, appunto perché lo stimo, chiedo in futuro maggiore analisi differenziata.
Ed ora passiamo al tema della decrescita, cercando di mettere fra parentesi le mode, i conflitti fra minimizzatori e catastrofisti, le diagnosi esagerate, eccetera. Il fatto che Latouche sia alla moda nella cultura dei ceti medi alla Mulino Bianco non è un argomento teorico, ma solo ideologico. L’unica vera domanda è: la teoria della decrescita è legittima, in quanto ci dice qualcosa sul mondo, oppure è solo una moda di esteti decadenti, di slow food, e di intellettuali a metà fra Capalbio e la corte di Veltroni?
La mia risposta è chiara: la teoria della decrescita è interamente legittima, ed è legittima in molti modi, di cui qui ne discuterò solo due: primo, legittima in quanto interamente conforme al modo di Marx di definire la natura del capitalismo; secondo, legittima in quanto risposta determinata al modo in cui oggi si sviluppa il capitalismo.
Discutiamo, separatamente questi due punti.
I sociologi francesi Boltanski e Chiapello, autori di un ottimo studio storico sulla terza età attuale del capitalismo, definiscono il capitalismo come un “processo retto da una norma di accumulazione illimitata del capitale”. Questa definizione non solo è buona, ma e anche del tutto conforme alla concezione che ne aveva Marx. Cito Marx: “La circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve da mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per la appropriazione di valori d ‘uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece ,la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, perché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura”. Tre sole osservazioni.
In primo luogo, ripeto che la connotazione dell’illimitatezza, e quindi della dialettica ontologicocategoriale fra limite ed illimitato, fa parte di una interpretazione letterale ed ortodossa del pensiero di Marx. Personalmente, in una mega opera di prossima pubblicazione intitolata “Trattato Storico di Filosofia. Deduzione storica delle categorie ed ontologia dell’essere sociale” (che rappresenta il più vasto sforzo teoretico fatto da me fino ad oggi) ricostruisco l’intera storia del pensiero occidentale sulla base di una critica sociale e comunitaria all’infinito-indeterminato (apeiron) e sul modo di limitarlo e di frenarlo (katechon) ,e questo dal frammento di Anassimandro fino a oggi.
In secondo luogo, appare evidente che questa citazione marxiana riprende, appunto applicandola al capitalismo, la distinzione aristotelica fra economia e crematistica. Lodo allora con calore i lavori di Luca Grecchi, che individua il centro dell’umanesimo greco nella critica della crematistica.
In terzo luogo, sono felice che un pensatore serio come Alain de Benoist sia a poco a poco giunto ad apprezzare il pensiero di Marx passando per Heidegger e per la decrescita. Come direbbero i marinai: “Benvenuto a bordo!”. Noto che La Grassa – secondo il suo solito – attacca subito De Benoist per non aver letto Marx e basarsi su “scadenti filosofi” di seconda mano. Bene, se questo è vero, allora mi onoro di essere fra questi “scadenti filosofi”, ed anzi mi rammarico di non esserlo stato abbastanza. Bisogna onorare De Benoist per aver saputo giungere a modo suo ad una critica del capitalismo, ed in proposito consiglio addirittura un mio libro, di cui sicuramente La Grassa ignora addirittura l’esistenza (cfr. Il paradosso Alain De Benoist, Settimo Sigillo, Roma 2006). La Grassa ritiene di essere “maoista”, ma ignora la teoria dell’aspetto principale e dell’aspetto secondario della contraddizione. Ed infatti l’aspetto principale è l’approdo di de Benoist alla critica
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al capitalismo, mentre l’aspetto secondario è la sua specifica interpretazione, che merita di essere in educata considerazione esattamente (e non di meno) come quella di Althusser (che personalmente ho respinto dopo averla presa in educata ed analitica considerazione, e non interrompendo a metà la lettura per “sparare”).
In definitiva. La natura esterna a noi è limitata, perché la terra è rotonda, e non è inesauribile. Forse La Grassa pensa che sia inesauribile? Poco probabile. Allora, se la natura è limitata, ed il capitale è illimitato, ci sarà o non ci sarà una contraddizione (capito? – contraddizione) fra la natura limitata delle risorse non rinnovabili e la natura illimitata della norma di accumulazione del capitale?
Prego, rispondere, anziché insultare come sempre. Per quanto mi riguarda ho già risposto: possono essermi antipatici i catastrofismi lagnosi, i pauperismi moralisti, eccetera, ma questo non è il punto principale. Il punto principale è che la teoria della decrescita può non essere condivisa, ma è legittima, e l’ecologismo è parimenti legittimo.
5. Vogliamo sostenere che lo sviluppo capitalistico non colpisce gli equilibri ambientale del pianeta? Sosteniamolo pure, ma prima informiamoci.
In proposito consiglio la lettura dell’Atlante per l’Ambiente (Le Monde Diplomatique-Il Manifesto). Non si può sapere tutto, e quindi devo “fidarmi”. Ma se mi fido di questo atlante, risulta veramente che siamo sull’orlo di una crisi ecologica.
É vero che non abbiamo il diritto, in quanto consumatori occidentali, di dire ai cinesi ed agli indiani che d’ora in poi non possono consumare come noi, se no distruggeranno il pianeta. Ma questo è un argomento per il comunismo e contro l’ipocrisia capitalista, non un argomento contro la crisi ambientale. Sarebbe bene avere una risposta su questo punto (tipo: non esiste la crisi ambientale; è un’invenzione degli ecologisti). Almeno sarebbe una discussione seria.
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