LA CADUTA di G.P.

 

La partita a poker di Romano Prodi è finita di nuovo male.  Una mano di quelle dove non hai nulla eppure vuoi lo stesso vedere le carte degli avversari perchè l’istinto autodistruttivo, tipico del perdente cronico, si è impossessato del tuo cervello. Se poi non hai la faccia del bluffer ma quella del pastore celebrante messa sarebbe meglio ti rivolgessi direttamente ai santi o agli spiriti (e per Prodi non sarebbe nemmeno la prima volta) più che al gioco d’azzardo. Si resta di stucco nel guardare quel simil ghigno post-paralisi di Prodi, mentre si affastellano le dichiarazioni stucchevoli dei senatori, che non si capisce bene se sia dovuto ad una forma d’inebetudine atavica o a demenza senile allo stato avanzato. Eppure, più dignitosamente, fatta fare la conta dei voti al fido Parisi e preso atto dell’imminente debacle, Prodi avrebbe potuto salire le scale del Quirinale prima ancora che nel parlamento incominciassero gli svenimenti, gli insulti e la commedia di questa democrazia che assomiglia, ogni giorno di più, ad una corrida  di dilettanti allo sbaraglio. Pare incredibile come l’uomo senza qualità per antonomasia sia riuscito a resistere tutto questo tempo col culo incollato alla sua sedia. Eppure le motivazioni ci sono tutte. Prodi è sempre stato un uomo ricattabile con tanti scheletri nell’armadio, gli stessi che affollano gli stipi di questa classe dirigente post-piccìsta e post-democristiana. Prodi era il burattino dei poteri forti, finanziari e industriali, con alle spalle anni di "onorato" servizio presso la peggiore burocrazia di stato, nella fase in cui quest’ultima aveva già abdicato a qualsiasi autonomia. Durante il suo soggiorno all’IRI aveva combinato sfaceli di ogni tipo, dall’insabbiamento di fondi neri alla svendita agli “amici” dei più preziosi gioielli nazionali.

Furono gli ex-piccì che lo chiamarono in politica per arginare il demone di Arcore e sono stati gli stessi di allora che lo hanno sballottato di qua e di là finché non è caduto giù dalla poltrona. Del resto, non si può pensare che le dichiarazioni di Veltroni, le quali annunciavano che il Pd avrebbe corso da solo alle prossime elezioni, fossero un inno a mantenere unita la coalizione. Prodi ha cercato di resistere, ha utilizzato ogni mezzo a sua disposizione per respingere l’attacco di parte della sua maggioranza giungendo persino ad attivare il solito suk dei voti ma, infine, è risultato più bravo come (s)venditore piuttosto che come compratore. L’affare dell’uderino Cusumano, preso nella notte da improvvisi turbamenti d’animo, è l’emblema più inquietante di un paese putrescente dove poltrone e denari comprano uomini e coscienze.

I giornali non ne hanno parlato molto eppure sulla faccenda c’è una interrogazione di Gasparri al Presidente del Consiglio e al Ministro delle Politiche Agricole perché pare che il senatore del campanile si sia fatto incoraggiare molto nella sua decisione di votare la fiducia. L’interrogazione pone infatti tale quesito "se risponde al vero la notizia che nella giornata di mercoledì 23 gennaio l’Agencontrol, struttura che fa capo al ministero delle Politiche Agricole e Forestali, avrebbe disposto un’assunzione o una collaborazione per il sig. Filippo Bellanca, strettissimo collaboratore del senatore dell’Udeur Stefano Cusumano. Se questo fatto rispondesse al vero, la tempistica apparirebbe singolare in relazione al voto che il senatore Cusumano deve esprimere a Palazzo Madama".

Adesso, se questa classe politica fosse meno disonesta andrebbe subito alle elezioni e lascerebbe decidere al paese il suo futuro, senza propinarci fandonie sulle riforma elettorale.

Tuttavia è improbabile che finisca così, sia perché il PresdelRep farà di tutto per individuare un governo tecnico che dia tempo al PD di collocarsi nella posizione migliore ai blocchi di partenza delle prossime consultazioni elettorali, sia perché occorrerà trovare un nuovo compromesso su quelle famose nomine negli enti pubblici che non possono essere procrastinate di molto.

Una cosa è certa, uno dei possibili papabili alla transizione è stato già bocciato da Francesco Cossiga. Difatti, il Senatore a Vita ed ex Presidente della Repubblica ha fatto delle dichiarazioni al fulmicotone (per quanto assolutamente veritiere) su Mario Draghi, attuale governatore di Bankitalia. Alla domanda di Luca Giurato (una specie di essere dislessico che conduce una trasmissione mattutina sulla rai)  sulla personalità che avrebbe potuto presiedere un eventuale governo tecnico dopo la caduta di Prodi, Mario Draghi ad esempio, Cossiga ha replicato, senza tentennamenti, che non si potevano affidare le sorti del paese  ad un socio della Goldman & Sachs, nota grande banca d’affari americana: “Impossibile immaginarlo a Palazzo Chigi. E’ un vile affarista che venderà l’economia italiana. E così avrà modo di svendere, come ha già fatto quando era Direttore Generale del Tesoro, quel che resta dell’industria pubblica a qualche cliente della sua antica banca d’affari". Poi Cossiga accenna anche al Britannia (il panfilo della Regina Elisabetta dove si tenne la riunione cospirativa con i banchieri della City, il 2 giugno 1992, che imposero all’Italia di privatizzare tutto ciò che era in mano allo Stato), al fatto che avesse incautamente raccomandato Draghi a Berlusconi per portarlo al vertice di Bankitalia, nonché alla nefasta possibilità che un Draghi Presidente del Consiglio possa essere capace di regalare ai suoi mentori americani anche la Finmeccanica o L’Eni. 

Tutte cose che noi sosteniamo da tempo.