LA CASTA, LA SOTTOCASTA E I PARIA DI G.P.

 

Nel suo articolo “Alitalia: (non?) ultimo atto”,  G. La Grassa ha lanciato, en passant, una dura ma giusta accusa nei confronti del Sindacato, divenuto più che mai la “cinghia di trasmissione” degli interessi del proprio apparato nomenklaturale, e delle prerogative, pienamente compenetrate, della classe politica (soprattutto di centro-sinistra) e delle “caste” dominanti banco-industriali.

Utilizzo qui il sostantivo casta (in senso lato), associandolo però alla Grande Finanza e all’Industria statalmente assistita (mentre per il Sindacato sarebbe più cogente il termine di “sottocasta”) in quanto non ho alcuna intenzione di aderire alla campagne mediatiche e d’indottrinamento (in)cultural-popolari lanciate da ben noti organi giornalistici (L’Espresso, Il Corriere della Sera ecc. ecc.) che coordinano la battaglia contro i privilegi dei politici e contro quelli degli apparatnik sindacali (senz’altro pletorici e diffusi), ma solo per far meglio passare in sordina il sacco, a piene mani, messo in atto dai gruppi di comando della GF e ID.

Quest’ultimi sono riuniti nei patti di sindacato di detti organi editoriali da dove fomentano operazioni "scandalistiche" contro le nefandezze altrui, al fine di coprire le proprie che sono di gran lunga più dannose.

L’ordine di demistificazione della realtà capitalistica italiana deve tenere ben fermo questo punto: in testa vi è la finanza parassitaria alleata alle grande impresa industriale inefficiente e vetusta che vive di prebende statali, entrambe appoggiate dai predominanti statunitensi. Questi gruppi sub dominanti, i quali costituiscono il nocciolo duro della dinamica riproduttiva attuale, sfruttano la debolezza degli apparati politici e la loro incapacità ad elaborare pratiche di governo minimamente indipendenti, tanto nello spazio nazionale che in quello internazionale, per dar fiato alle proprie scorribande speculative sottraendo energie al Sistema-Paese.

Si tratta di un tipico sintomo di putrefazione e di senescenza sistemica, il cui livello di conclamazione attesta della maggiore subordinazione del nostro paese nei confronti della nation prèdominante.  Andando a ritroso nella Storia, il paragone con la Repubblica di Weimar diviene allora sempre più calzante. Anche lì gli apparati finanziari, collegati alla finanza americana, trascinarono la Germania in una crisi incipiente che si risolse solo con l’avanzata dei nazisti (e con il ristabilimento di un principio di preminenza della politica sulla altre sfere sociali) mentre i socialdemocratici continuavano a favorire il parassitismo di gruppi predatori, tanto autoctoni che stranieri.

Gli agenti che operano nella sfera finanziaria prendono il sopravvento su quelli della sfera politica a causa della debolezza di quest’ultimi, generando uno scollamento dell’intero corpo sociale (che viene abbandonato ad imperscrutabili automatismi economici). I costi sociali della subordinazione politica che ne deriva sono enormi e intollerabili. 

Da questo punto di vista, se si pensa alle trasformazioni dei primi anni ’90 – momento storico centrale nel quale le ricette liberiste sono entrate nel lessico comune dei policy makers italiani ed europei – si risale con maggiore facilità alle ragioni che sono alla base dell’abdicazione degli agenti della sfera politica, i quali hanno riposto nella classe dei banchieri e dei finanziari le sorti di un intero continente. I patti di stabilità monetaria o i parametri del Trattato di Maastricht, che sembrano piovuti all’improvviso dal cielo, sono l’esempio lampante della strada seguita dall’Europa in seguito all’estendersi del dominio americano sul mondo.

E’ in questa fase che, anche in Italia, i fantomatici patti di stabilità, il più delle volte tradottisi in politiche di sostegno all’offerta (al Capitale e alle imprese), hanno dato il colpo di grazia ai salari e alla loro dinamica, sottoposta ad un impulso depressivo per favorire i settori dominanti artefici di tali iniziative.

Dopo lo sconvolgimento degli equilibri internazionali degli anni ‘89-’90 e lo sconquasso causato dalla stagione di Tangentopoli, L’ Italia (fino ad allora terra di frontiera e bastione avanzato nel contenimento dell’URSS) è stata costretta a rimettere in discussione tutti i meccanismi politici ed economici che avevano garantito una certa prosperità e l’elevazione della capacità produttiva nazionale (ovviamente tenendosi all’ombra del potente alleato americano).

Nel ’92, Sindacati, Confindustria e Governo hanno inaugurato la stagione (sostanzialmente iniziata nel ’91 con la riforma sul pubblico impiego) degli accordi tripartiti finalizzati a rivedere: 1)le politiche sui redditi, 2)la direzione dello sviluppo economico, 3)l’occupazione.

Successivamente alla fissazione di queste direttrici d’intervento sono seguiti accordi stringenti con i quali si è dato l’avvio alla controriforma del sistema politico-economico: 1992 accordo sul costo del lavoro e sull’abolizione della scala mobile; 1993 accordo sulla politica dei redditi; 1995 prima riforma sulle pensioni; 1996 patto sul lavoro; 1998 patto sociale.

Da qui in poi l’Italia cambia definitivamente volto e si adegua al nuovo contesto economico internazionale, sotto l’impulso dei dettami della potenza uscita vincitrice dalla “Guerra Fredda”.

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La Grassa, nella sua critica all’organizzazione sindacale, è partito legittimamente dal dopo-guerra e dal “piano di ricostruzione nazionale”, quello con il quale la CGIL ha convogliato i lavoratori italiani su precise linee di sviluppo capitalistico, fortemente rispondenti a scelte politiche ed economiche eterodirette dall’estero (effettuate in un clima internazionale sicuramente angusto ma tuttavia propizio ai paesi in ricostruzione che avevano un forte valore geostrategico per gli Usa).

La conseguenza più lampante di questo cieco lealismo atlantista (séguito, non sempre scontato, degli accordi di Yalta), è stata quella di un progressivo "rattrappimento" delle nostre classi dirigenti (oggi pagato a carissimo prezzo) in tutti i settori della vita sociale, acceleratosi improvvisamente all’indomani della caduta del muro di Berlino e del dissolvimento dell’Unione Sovietica.

Se negli anni ’80 i duri colpi subiti dalle organizzazioni dei lavoratori sono ancora attribuibili ad una sconfitta sul campo (vedi quella alla Fiat) in virtù della riorganizzazione delle classi dominanti capitalistiche  in una fase di crisi economica*; negli anni ’90 lo stesso Sindacato, preso atto del nuovo contesto geopolitico, decide scientemente di compartecipare alla definizione delle politiche economiche nazionali, sobbarcandosi una serie di responsabilità istituzionali in forza delle quali cercava di maturare il diritto a sedersi al tavolo delle trattative coi Governi e con la Confindustria. Che cosa poteva offrire il Sindacato? Il contenimento delle istanze del mondo del lavoro e il clima sociale adeguato a far passare le riforme preventivate.

Inizia così la fase neocorporativa della contrattazione tripartita che doveva portare alla rinuncia di tutte le garanzie conquistate negli anni precedenti ma con il vantaggio, per i sindacati, di veder soppesata la propria capacità di assicurare la pace sociale a fronte di riforme vessatorie (imposte dal nascente ordine europeo direzionato dagli Usa) per quasi tutti i settori lavorativi.

Da questo periodo in poi la burocratizzazione del sindacato sarà inarrestabile. Ad ogni sconfitta sul piano sociale e salariale corrisponderà un rafforzamento dei privilegi del nucleo burocratico delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori.

 

Se torniamo ad analizzare le tendenze di fondo del capitalismo italiano a partire dal dopo-guerra, cogliamo il sostrato sul quale si sono innestati i gruppi capitalistici nostrani (pubblici e privati) iperprotetti dallo Stato (che usufruiva, a sua volta, di una rendita di posizione, nel senso letterale del termine, derivante dalla sua collocazione geostrategica), i quali agivano in un quadro di manovrabilità, più o meno ampia ed autonoma, a seconda degli interessi americani che si andavano a toccare (il caso Mattei docet). 

Ma nella nuova situazione internazionale quegli spazi di manovra si sono trasformati in cabotaggio ristrettissimo che ha condotto ad un parassitismo bieco e senza sbocchi. 

Nel contesto storico precedente, la compartecipazione sindacale alla riproduzione delle basi sistemiche, all’interno e all’esterno delle fabbriche, ha più volte consentito di ottenere vantaggi reali per i lavoratori, tanto in termini di elevamento dei livelli salariali che di miglioramento delle condizioni lavorative.

Il socialismo realizzato costituiva, con tutte le sue storture, un monito per le classi dirigenti occidentali, le quali non potevano tirare la corda oltre certi limiti. Quando il modello sovietico si è de-realizzato storicamente, oltre che ideologicamente,  il sindacato si e dovuto “ricollocare” secondo quanto imposto dai nuovi equilibri mondiali.

Oggi assistiamo dunque ad una serie di derive che sono frutto di un ancestrale accomodamento della nazione sotto l’ombrello protettivo USA. Il sistema degli aiuti alle imprese, a volte efficace nella precedente fase, si è trasformato in un mero strumento per dirottare le scarne risorse nazionali verso i settori più parassitari della finanza e dell’industria;  la politica, da par suo, è divenuta una specie di cuscinetto che protegge gli appannaggi esclusivi della GF e ID a fronte del depauperamento del grosso della popolazione.

Proprio il Sindacato (trino e consustanziale) è oggi compartecipe nella tenuta di quel nefasto blocco sociale, già paragonato da La Grassa a quello sovietico, formato dagli apparati burocratizzati di Stato (tra i quali primeggiano i sindacati per l’appunto) fondanti il loro consenso sui settori lavorativi più apatici e improduttivi (ceto impiegatizio e maestranze industriali garantite) e i settori banco-industriali che si appoggiano allo Stato per dare seguito alle loro scorribande speculative.

E’ certamente giusto, pertanto, denunciare la metamorfosi sindacale ma senza dimenticare il contesto nel quale essa è avvenuta. E’ dal connubio tra GF e ID, e conseguente subordinazione degli agenti politici, che nascono i maggiori problemi del nostro paese. Il blocco di potere sedimentatosi intorno a tali equilibri sta portando la nazione allo sfascio ed il sindacato dà tutto il suo contributo al precipitare della situazione.

 

*Già nel 1979 il presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan, affidandosi ai guru monetaristi della scuola di Chicago, inaugura la “supply side economics”. Il paradigma di questa scuola si sostanzia nelle ricette di deregulation con le quali permettere all’offerta di espandersi: detassazione, deregolamentazione generalizzata e risanamento del bilancio pubblico. Tali scelte economiche, con le quali il campo capitalistico occidentale decide di ristrutturasi, attestano la consapevolezza raggiunta dagli Usa rispetto all’irreversibile irrigidimento dell’Impero Sovietico, che ormai costituisce solo una blanda minaccia.

 

 

Cgil, Cisl e Uil: l’esercito di intoccabili costa quasi 2 miliardi di euro (fonte Il Giornale)


di Cinzia Romani

 

Un libro denuncia: hanno più di 700mila delegati, sei volte tanto i carabinieri. Tremila sedi per la sola organizzazione di Epifani. In Italia il record europeo: 5 scioperi al giorno

Roma – Una casta all’ombra dei suoi consolidati privilegi s’aggira per l’Italia, aprendo e chiudendo trattative sulla pelle ormai lisa dei lavoratori, oltre che dei contribuenti. E nel paese bollito in sacche di spreco, gonfie di fatturati miliardari e bilanci segreti, mentre lo Stato paga i settecentomila delegati (sei volte di più dei Carabinieri), che a noi costano 1 miliardo e 845mila euro l’anno, esce un libro, ustionante come acido muriatico negli occhi della Triplice. S’intitola «L’altra casta. Privilegi. Carriere. Stipendi. Fatturati da Multinazionale. L’inchiesta sul sindacato» (da domani in libreria, con lancio da strenna natalizia) il documentato volume Bompiani di Stefano Livadiotti, firma del settimanale «L’Espresso», che in 236 pagine (prezzo 15 euro) mette il dito su una piaga purulenta quanto quella dei partiti. Contrordine, compagni, dopo che Diliberto ha ceduto il proprio posto in lista a un operaio della Thyssen, intanto che il suo vecchio sodale Cossutta lo accusa di «plebeismo demagogico»? Ma sì, è ora, è ora: potere a chi lavora. Sul serio, però, non come i membri dell’altra casta, quella sindacale, i cui permessi equivalgono a un milione di giorni lavorativi al mese, costando al nostro sistema 1 miliardo e 854 milioni di euro l’anno. E c’è da giurarci che il trio di sigle si arrabbierà parecchio leggendo l’impressionante dossier, proprio mentre cerca di sopravvivere a se stesso, magari sulle carcasse di Alitalia. Lo strapotere delle tre grandi centrali confederali, Cgil, Cisl e Uil, è nell’occhio del ciclone da un ventennio, tanto che, in base ai sondaggi, un italiano su venti si sente pienamente rappresentato dalle sigle sindacali e meno di uno su dieci dichiara di averne fiducia. Difficile affidarsi ai sindacati, che promettono bilanci consolidati, salvo poi evitare di trasferirli nero su bianco. Ma in che modo l’altra casta è diventata intoccabile, quando anche i sassi sanno che se c’è un problema di costi della politica, esso riguarda pure il sindacato, teso a intimidire la collettività con la propria capacità di mobilitazione? «Il giro d’affari di Cgil, Cisl e Uil ammonta a 3.500 miliardi di vecchie lire e il nostro è un calcolo al ribasso», avvertiva nel 2002 il radicale Capezzone.

Se del Quirinale si sa che spende il quadruplo di Buckingham Palace, fare i conti in tasca all’altra casta, lardellata di un organico di 20mila dipendenti, è questione controversa, tanto diversificate risultano le sue fonti di guadagno. La slot machine più veloce coincide con le quote versate dagli iscritti: l’1 per cento della paga-base. E i pensionati? Fruttano circa 40 euro l’anno, che però fanno brodo, nel sostituto d’incasso complessivo: 1 miliardo l’anno.

All’erogazione di liquidità, poi, pensano le aziende, con le trattenute in busta paga ed ecco bypassato il costo dell’esazione. E i soliti pensionati, visto che anche la miseria è un’eredità? Provvedono gli enti di previdenza: nel 2006 l’Inps ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil. Eppure, nel 1995 Marco Pannella promosse un referendum per abolire l’automatismo della trattenuta in busta paga, regalino vintage (del 1970) dello Statuto dei lavoratori. Nonostante gli italiani abbiano votato a favore, il meccanismo fu salvato comunque dai contratti collettivi. Quanto al rinnovo periodico della delega, per il cui tramite il pensionato autorizza l’ente previdenziale a trattenersi una quota sulla sua pensione, si è fatto in modo d’insabbiare l’emendamento al decreto Bersani (presentato da Fi), che rompeva le uova nel paniere sindacale. E siccome i pensionati sono poveri, ma tanti, è nei loro gruzzoli che si ficcano i Caf, quei centri di assistenza fiscale, trasformati in business per il sindacato. Gli enti previdenziali, infatti, pagano per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati: nel 2006 l’Inps ha travasato ai 74 Caf convenzionati 120 milioni. Così Cgil, Cisl e Uil, unite, hanno incassato 90 milioni circa. Invano la Corte di giustizia europea, persuasa che il monopolio dei Caf violasse i trattati comunitari, tre anni fa mise in mora l’Italia, con qualche lettera di richiamo. Ma se i bramini dei Caf vanno sotto schiaffo, quelli dei patronati, le strutture d’assistenza ai cittadini per le pratiche previdenziali, la cassa-integrazione e i sussidi di disoccupazione, non si toccano. E si estendono dall’Africa al Nordamerica, per tacere dell’Australia, con conseguente sospetto che svolgano un ruolo attivo nel pilotare il voto degli italiani all’estero. Nel 2006, l’Inps ha speso 248 milioni, 914mila e 211 euro tra Inca-Cgil, Inas-Cisl e Ital-Uil. Altro business in cui affondare le mani, è quello della formazione. Ogni anno, l’Europa manda in Italia 1 miliardo e mezzo di euro, per la formazione professionale. E 10 dei 14 enti, che annualmente si spartiscono metà dei finanziamenti nazionali, sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil. Ma la vera forza dell’altra casta viene dai beni immobili, patrimonio sterminato, tutto da dissotterrare, mentre la Cgil conta 3mila sedi in Italia, di proprietà delle strutture territoriali; la Cisl, 5mila e la Uil concentra gli investimenti sul mattone in una società per azioni, controllata al cento per cento dalla Labour Uil, con 35 milioni e 25mila euro di immobili in bilancio. Va da sé che gli inquilini Vip di tanto bendiddio abitativo sono loro, i vecchi mandarini con un piede nella jacuzzi ai Parioli a un altro sulla pista di Fiumicino.