LA DISTORSIONE ESCATOLOGICA, CRONACA DI UN FALLIMENTO ANNUNCIATO E NASCOSTO di Andrea Fais

Quando i carri armati dell’Armata Rossa scendevano in strada per sedare la rivolta di Praga del 1968 o quando il Generale Jaruzelski dichiarava (ovviamente) lo stato di assedio a Varsavia, dopo i disordini provocati dagli agenti occidentali e dai sabotatori di Solidarnosc nel 1981, l’ormai stravagante panorama marxista occidentale cominciò a lanciare strali dinnanzi a quello che consideravano il sogno distrutto, associò il “male necessario” sovietico al “male assoluto” nazifascista (definizioni papali), e si unì alle grida dei movimenti radicali, autonomi e anarchici, già preponderanti all’interno del clima della contestazione negli Anni Settanta.

Dopo la vittoria della sinistra ingraiana, e l’accantonamento tanto della destra amendoliana quanto dei filo-sovietici di Cossutta, il PCI si aggiornava, inseguiva l’utopia infinita, la stralunata idea del fantomatico socialismo dal volto umano, e si accodava alla Nato, consegnando l’Italia nelle mani di un appiattimento politico filo-occidentale che avrebbe schiacciato il dibattito nazionale sino alla congiura del silenzio (basi Nato, Ustica, strage del Cermis, aggressione alla Serbia ecc…), imposta ai giorni nostri.

L’Unione Sovietica era ormai un “mostro statal-burocratico” agli occhi di buona parte dei comunisti nostrani, completamente “imperialista” per alcuni, “revisionista” per altri, “social-sciovinista” per altri ancora, sbattuta sul banco degli imputati in uno strambo processo ideologico a distanza, imbastito da personaggi che, col tempo, avrebbero gettato la loro maschera pseudo-rivoluzionaria, per salire in cattedra al momento propizio, sfruttando il crollo del Muro e Tangentopoli, e per reinventarsi un’identità politica al rimorchio del dorato carrozzone anglo-americano, piombato puntualmente alle porte dell’Italia per ingurgitare interi settori economici e strategici del nostro Stato. Si trattava di una generazione politica nata all’ombra dell’epocale trasformazione del capitalismo italiano e della società civile, nel passaggio dalla “classe operaia e contadina”, emblema della stagione di Togliatti, alla fallimentare esperienza del “movimentismo” e dell’insipida unità tra studenti e operai.

Qual’era la colpa storica di Mosca? Essersi industrializzata? Aver fatto dell’Impero più grande del mondo una nazione moderna e avanzata? Essere, necessariamente, pervenuta al rango di potenza mondiale? Aver difeso la propria alleanza militare? Aver combattuto il terrorismo afghano e aver protetto militarmente il governo sovrano di Kabul, dopo le richieste di aiuto deliberate dal suo legittimo parlamento? Il Socialismo in un Paese, logica conseguenza di una prassi rivoluzionaria realistica e compatibile con la situazione sociale, ormai era divenuta la “stramba idea” di un “regime dispotico”, considerato da molti l’imputato, l’abominio e l’inizio della degenerazione. La destalinizzazione krusceviana non avrebbe aggiunto nulla in termini politologici nel dibattito occidentale, se non gli strali e le accuse di tradimento ideologico di qualche residuale gruppo marxista-leninista convintamente stalinista. Ma ciò che la pur sincera ingenuità di quegli ambienti non riusciva a carpire dai fatti concreti, era l’invisibile ribaltamento della storia all’interno dell’ideologia. Quell’analisi che Karl Marx e Friedrich Engels avevano delineato così precisamente secondo i classici stilemi di una teoria scientifica della società, e che Lenin aveva incanalato nell’ambito dell’azione politica, diventava un’ideologia, passando dal piano gnoseologico (indagine e dialettica della realtà) al piano metafisico (escatologia meta-storica). Il marxismo, a questo punto, non era più un metodo dialettico – soggetto, in quanto tale, a necessarie e fisiologiche riletture posteriori e sviluppi ulteriori contestuali – ma un sogno, un’ideale, un’utopia ed un preconfezionamento del futuro entro schemi meccanici, nell’attesa messianica del risveglio delle masse e dell’avvento della società comunista perfetta. La trasfigurazione operata ai danni degli studi di Marx ed Engels era evidente, ed Il Capitale o l’Anti-Duhring, non fornivano più gli strumenti per lo studio della realtà ma ispiravano una ricetta bella e pronta per incanalare il futuro verso le proprie aspirazioni personali e culturali, rendendo oggettivo un desiderio puramente soggettivo (seppur condiviso tra la popolazione).

Ovviamente, la storia è il banco di prova del pensiero. E, puntualmente, le necessità e i contesti impongono quell’incontro-scontro tra previsione e realtà che determina la prassi. Non sarebbe altrimenti possibile spiegarsi la NEP, intorno alla quale intere generazioni di teorici marxisti hanno studiato per anni nel tentativo (ridicolo e inutile) di ricomprendere quelle necessarie misure politiche all’interno del pensiero marxista, per trovare, retroattivamente, un terreno apologetico per l’intoccabile Lenin. E intoccabile, il buon Vladimir Lenin, lo è veramente, ma proprio per il fatto che egli fu un uomo di prassi, per tutta la sua intera esistenza, servendosi delle teorie come di uno strumento d’azione, mostrando una particolare capacità di ponderazione nella gestione delle tante variabili della società del tempo.

Del resto, cosa sarebbe restato del marxismo senza Lenin? Praticamente nulla. Le rivoluzioni occidentali fallite o mai tentate, avevano nei fatti già condannato l’impianto storicistico di Marx alla scomparsa: la Russia, impero arretrato e contadino, era l’emblema della negazione storica della previsione rivoluzionaria, e la Cina, impero sostanzialmente feudale, avrebbe, poco tempo dopo, definitivamente sbaragliato l’intuizione secondo cui la trasformazione verso una società socialista fosse storicamente possibile soltanto all’interno di un sistema capitalistico molto avanzato. Eppure, sul piano prettamente tecnico, l’intuizione di Marx manteneva ancora una validità inaspettata, una validità che mai fu seriamente presa in considerazione negli ambienti politici e intellettuali, e tanto meno in quelli del neo-marxismo, che addirittura sarebbe poi degenerato nei variopinti rivoli post-modernisti delle battaglie civili, dell’ecologia e del solidarismo catto-comunista.

Se le condizioni per lo sviluppo rivoluzionario di una società non erano più necessariamente determinate dal suo grado di avanzamento tecnico sul piano storico (relazione causale), questo medesimo avanzamento tecnico continuava sostanzialmente ad essere determinante sul piano strategico e politico. Lo sviluppo industriale, infrastrutturale e organizzativo del Paese, restava in ogni caso il fulcro di una società socialista, non più nella funzione di rigorosa causa efficiente della rivoluzione proletaria, ma quanto meno come sua vincolata (e vincolante) conseguenza politica. Il passo di Lenin, in base a cui “il comunismo è il potere dei Soviet, più l’elettrificazione di tutto il Paese”, riassume nella sua breve essenzialità l’intrinseca negazione storica di ogni interpretazione messianica e di ogni riduzione del marxismo ad un’astratta mitologia del
l’emancipazione dell’umanità: il comunismo è una forma di potere politico (quello dei Soviet) ed è causa efficiente della modernizzazione, non una sua conseguenza o, tanto meno, una sua negazione (primitivismo o pauperismo).

Come ricorda David Harvey, nel suo La Crisi della Modernità, il panorama internazionale della prima fase fordiana, era assai confuso, e il clima politico tra le due guerre mondiali contribuiva a generare smarrimento anche tra gli analisti dell’economia, osservando come Schumpeter sostenesse le politiche autoritarie di Italia e Germania in funzione di avanzamento pre-fordista nell’Europa continentale, ma soprattutto come Lenin difendesse quel programma taylorista che i sindacati dell’Europa occidentale rifiutavano in blocco. L’avanzamento e la modernizzazione assumevano dunque una portanza del tutto rilevante nel panorama internazionale dell’ineguale sviluppo capitalistico, aprendo ad una fase imperialistica, all’interno della quale si andavano componendo nuovi fronti e nuove strategie espansionistiche e militari, fase dalla quale l’Unione Sovietica uscì pesantemente rinforzata, prima con la NEP di cui sopra, e poi con i primi due Piani Quinquennali, appena prima della tragedia della Guerra Mondiale. In Cina ciò avvenne gradualmente. Se, come disse Stalin, la Russia imperiale prerivoluzionaria era indietro di cento anni rispetto ai Paesi capitalistici più avanzati, in Cina il divario era perfino maggiore. Mao Zedong, in assenza di concentrazioni produttive moderne e di fasce popolari urbane di rilievo, fece leva sulle campagne e sulla guerra di popolo, dando l’assalto alle città. Nella prima fase (guerra civile contro il Kuomintang e instaurazione del potere rivoluzionario) tutto ciò risultò decisivo, ma, successivamente, come si sarebbe potuto pensare di raggiungere una condizione di vasto e diffuso sviluppo collettivo, proseguendo sulla linea della “rivoluzione dei contadini”? Così malgrado decenni di propaganda ostile e di boicottaggio politico a livello internazionale (ancora oggi in Europa vi sono fiumane di patetici residuati degli Anni Sessanta che gridano al “tradimento fascista e revisionista”) il dirigente politico più marxista in Cina, fu proprio Deng Xiaoping, che di certo, su questo versante, non si macchiò di alcun fantomatico tradimento.

D'altronde già nei primi Anni Sessanta, Pechino aveva accelerato i tempi per procurarsi la bomba atomica, malgrado in passato Mao avesse paragonato gli arsenali nucleari alle “tigri di carta”. La carta non scalfisce nulla, e la guerra (anche psicologica) non si fa coi soldatini di legno, ma con quei mezzi che nel 1958 avevano bombardato Taiwan, che nel 1962 avevano occupato l’Aksai Chin o che nel 1969 avevano mostrato i muscoli all’Armata Rossa nella Valle dell’Amur. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, si potrebbe dire. Ma non è questo il centro della discussione. Il dato emblematico che tutte queste situazioni particolari ci inducono a dedurre è che la dinamica della storia non è così lontana dallo schema che Giovambattista Vico ci aveva già mostrato nel XVII secolo, e che forse il vecchio generale Karl Von Clausewitz un po’ di ragione ce l’aveva, quando sosteneva che la guerra è sempre la continuazione “con altri mezzi”, del confronto politico. In sostanza, non è così azzardato ritenere che la Guerra Fredda fu l’ovvia risultante storica e militare della trasposizione della dialettica marxiana dal piano nazionale (lotta di classe) a quello internazionale (guerra di classe), e della sua sublimazione strategica all’interno di un campo d’azione globale, essenzialmente inedito per vastità, caratteristiche e proporzioni. Ovviamente le conseguenze teoriche furono devastanti: l’Unione Sovietica, immaginata per anni quale LA patria del socialismo internazionale (concetto comunque mai definitivamente chiarito in sede dialettica), “tornava ad essere” semplicemente l’Impero Russo con un ordine interno socialista e repubblicano, anziché semi-feudale e monarchico; la retorica della fine della storia e dell’ingresso nel nuovo paradiso terrestre del comunismo realizzato, fu polverizzata dall’intensificarsi dei conflitti e della complessità globale (addirittura moltiplicatasi enormemente dopo la dissoluzione sovietica del 1991); lo Stato e la famiglia, ritenuti in Occidente alla stregua di “vecchi residui dell’ideologia borghese”, divennero il fulcro della società all’interno dei Paesi Socialisti e quella moralità collettiva sbeffeggiata e vilipesa dalla contestazione giovanile, era, invece, un autentico riferimento etico per tutto il popolo sovietico.

L’equivoco in ogni caso durò solo dieci anni in più: quando nel 1968 i carri armati del Cremlino riportavano l’ordine a Praga, le speranze dei “rivoluzionari” occidentali, si trasferirono verso Pechino. Il fallimento quasi totale della rivoluzione culturale maoista fece il resto. Malgrado si faccia risalire questo momento di pesante disgregazione sociale all’intero periodo 1966-1976, nel 1970 era già tutto finito e i giovanotti improvvisatisi rivoluzionari poterono tornare a scuola o al lavoro, evitando di picchiare e incarcerare semplici negozianti o dirigenti del Partito. In un’intervista rilasciata al blog La Cina Rossa nel 2009, il responsabile per l’Europa Occidentale del Dipartimento Esteri della Repubblica Popolare, Huang Hua Guang, ha affermato che ancora oggi è in atto “un passaggio del processo di sinizzazione del marxismo” sostenendo che Deng Xiaoping ci invita ad ‘aprire la mente, ricercare la verità a partire dai fatti’” e ricordando come “per costruire il Socialismo in Cina bisogna afferrare il nucleo teorico fondamentale del marxismo piuttosto che copiare alla lettera tutto quanto quello che hanno detto Marx e Engels più di 150 anni fa”, ed è perciò necessario “partire dalla realtà cinese ed esplorare una nostra via nella costruzione del Socialismo”, perché “se si pensa di costruire il Socialismo copiando dal libro o dal modello altrui certamente non si potrà avere successo”.

Così, finito anche il “sogno cinese”, nel 1978 i “rivoluzionari senza rivoluzione” si ritrovarono perduti, finiti. La maggior parte si buttò a peso morto sul nascente euro-comunismo, una pagliacciata appositamente progettata dalla Nato per indebolire il Patto di Varsavia, favorendo la rottura tra i partiti comunisti occidentali e l’Unione Sovietica, ed incrementando l’empatia politica nei confronti dei ben foraggiati movimenti anti-sovietici polacchi, cecoslovacchi, tedeschi orientali, romeni, bulgari e ungheresi. La messa in scena di Timisoara, la spinta destabilizzatrice di Gorbaciov, la repressione di Piazza Tien An Men, fecero da detonatore definitivo. I “marxisti” occidentali erano ormai vittime di un’atomizzazione culturale senza eguali, perduti e sfiancati da decenni di illusioni, mitologie e speranze disattese. Nessuno ha però mai osato porre la questione della divergenza prospettica e della netta differenza storica tra chi era spettatore degli eventi – tra l’altro ben remunerato dalle strutture pubbliche, universitarie e previdenziali di quello stesso “Stato borghese” che diceva di combattere – e chi era protagonista nei tanti conflitti, più o meno noti, del sessantennio che ci siamo lasciati alle spalle, ossia, tra chi si pavoneggiava in squallide
stanze dell’ateneo, indossando eskimo e sciarpina, e chi imbracciava un fucile d’ordinanza o gestiva un ministero di Stato; o, se vogliamo, tra chi viveva nell’Ovest e chi viveva nell’Est.

Qualcuno in Occidente, tra un’illusione e l’altra, ha mai pensato di mettersi per un momento nei panni dell’altro da sé, di immaginare il suo contesto, di pensare le sue necessità? Troppo difficile, ovviamente. Molto più facile era immaginarsi un mondo tutto uguale e schematico, dove la Cina fosse “vicina” (ma quando mai?), o dove l’Urss fosse semplicemente un’Europa un po’ più allungata verso l’Asia. Questi personaggi si costruirono un mondo ideale parallelo al mondo reale, un mondo fittizio, astrattamente regolato da meccanismi universali e predeterminati, a tal punto da poter giudicare e sputare sentenze in proposito delle decisioni e delle priorità di uomini e donne lontani migliaia e migliaia di chilometri. In definitiva, la disputa sembra non esser stata tanto di natura politologica, quanto, invece, di tipo culturale: molto più probabilmente, la colpa principale di quei popoli era quella di aver dimostrato al pianeta, pur tra le difficoltà, che il progresso e lo sviluppo non sono un’esclusiva dell’Occidente, tanto da saper forgiare in appena cinquanta anni due potenze mondiali – che, per un insieme di motivi geografi e storici, erano e sono destinate a restare tali – e diverse potenze regionali capaci di dotarsi dei più avanzati programmi tecnologici e produttivi. L’ipocrisia del progressismo illuministico aveva reso simpatico il buon selvaggio, a condizione che restasse selvaggio. Dinnanzi ai carri armati e alle missioni sullo spazio, la simpatia è col tempo svanita, e i cari “rivoluzionari” d’Occidente hanno finalmente gettato la maschera mostrando quello spaventoso suprematismo (culturale, sociale e forse perfino razziale) latente che si nascondeva dietro il loro fantasioso duropurismo rivoluzionario. Ripulitisi nelle stanze che contano, i notabili mestieranti della classe politica nata tra il compromesso e la Bolognina, così come le penne de L’Unità, de Il Manifesto o di Repubblica, sparano ancora oggi a zero sulla Russia, sulla Cina, sull’Iran, sulla Bielorussia e su tutto quanto sia ai loro occhi abominevole e retrogrado, semplicemente perché estraneo al loro abituale mondo di divani vellutati e salotti buoni, dove poter appoggiare i propri delicatissimi fondoschiena per disquisire di diritti umani e libertà personali, facendo l’eco a Freedom House, ad Amnesty International, alla National Endowment for Democracy e a tutto quel facoltoso stuolo di “operosi gentiluomini” della Compagnia delle Americhe (rigorosamente del Nord, perché quelle del Sud, quelle di Chavez e Morales, puzzano troppo). Una bella fine… non c’è che dire. Senza voler essere eccessivamente retrò – potremmo apparire troppo selvaggi e puzzolenti davanti a cotanto genio assortito del giornalismo e della politica – possiamo augurarci, tra il serio e il faceto, un ricorso storico che tante volte, inter nos, abbiamo rievocato e auspicato in certi momenti, di fronte ad un’ingiustizia palese o ad un telegiornale pieno di menzogne. Solo una parolina magica. Addatornà…