LA FIAT, LA BCE…. CHE DIO CE NE LIBERI di F. D’Attanasio

 

“L’alleanza tra Fiat e Chrysler è un biglietto della lotteria che potrebbe non valere niente se la casa automobilistica americana non si riprende” Chi ha, secondo voi, proferito tali parole – secondo quanto riportato da LiberoMercato di Mercoledì scorso – in una intervista al Wall Street Journal? E sì, non ci crederete, ma a meno di clamorosi, quanto improbabili svarioni da parte del quotidiano da cui apprendo la notizia, si tratta proprio di quel personaggio considerato, pressoché dalla quasi totalità degli ambienti che contano nel nostro paese, come il manager dei manager, l’uomo dei miracoli, il grande stratega dell’industria, vale a dire Sergio Marchionne. L’ad della casa automobilistica torinese, tuttavia prosegue dicendo che “ Fiat sta ancora studiando l’alleanza con Chrysler, ma punta a chiudere l’accordo entro il 17 Febbraio, data in cui l’azienda di Detroit deve presentare un piano per chiedere ulteriori aiuti al governo federale, e in questo ambito l’accordo con Fiat sarebbe un elemento chiave.” Insomma avete capito, Marchionne tenta di esportare il suo “modello vincente” addirittura negli Stati Uniti, quel modello che in Italia gli ha assicurato – e di certo non solo a lui, essendo questo modello parte integrante del patrimonio storico sociale e culturale dell’Italia –  una valanga di soldi sottratti alle casse dello Stato sempre con la scusa, trasformata all’uopo in ricatto nemmeno troppo velato, delle migliaia di posti di lavoro da preservare. Ma Marchionne però è perfettamente cosciente che negli USA la “musica” è un po’ diversa, che nonostante la crisi, che potrebbe agevolare i suoi piani, si trova comunque costretto a dover rispettare delle condizioni ben precise, difatti nella stessa intervista aggiunge: “Dobbiamo arrivare a una strutturazione del capitale di Chrysler affinché il biglietto della lotteria dia qualcosa quando tutte queste fluttuazioni saranno finite. Non voglio il 35% di niente per i prossimi cinque anni. Il mio obiettivo finale è guadagnarci qualcosa. La Chrysler dovrà sborsare 3 miliardi di dollari per sviluppare nuovi veicoli basati sulla tecnologia Fiat, assicura Marchionne, precisando che Fiat non toglierà un dollaro alla Chrysler prima che il governo americano sia stato rimborsato” [corsivo mio]. Certo in Italia le cose sono molte più semplici per il nostro manager, per lui è quasi un gioco da bambini, difatti gli è sufficiente di tanto in tanto sparare qualche cifra sui numeri di lavoratori da dover licenziare – chiaramente per via delle difficili condizioni di mercato – et voilà,  i cordoni della borsa pubblica si allentano immediatamente. Qui vi è da rilevare come ad esempio in Francia e Germania, in relazione agli aiuti al settore automobilistico, mi sembra che ancora nulla venga concretamente fatto, difatti non a caso i relativi governi sembrano siano orientati in tutt’altra maniera rispetto a quanto effettivamente è avvenuto in Italia in questi ultimi giorni. Negli stessi Stati Uniti, le autorità governative hanno proceduto a dei prestiti, condizionati comunque a dei piani industriali minimamente seri; e trattandosi di prestiti dovranno sicuramente essere rimborsati, quindi niente aiuti a fondo perduto quali possono essere considerati, qui da noi, gli incentivi alla rottamazione e all’acquisto di veicoli ecologici. D’altronde lo stesso governo francese sembra sia intenzionato a concedere aiuti solo a patto che le aziende beneficiarie siano disposte a mantenere i livelli occupazionali inalterati rinunciando alle delocalizzazioni.

Altro aspetto non secondario da sottolineare a proposito, è che al di là delle chiacchiere propalate in gran quantità, di coordinamento in seno all’Unione europea non se ne vede nemmeno l’ombra, l’unica istituzione che veramente funziona, purtroppo è proprio il caso di dirlo, è la BCE. A questa, nonostante non sia una istituzione della Comunità al pari ad esempio del Parlamento Europeo e del Consiglio, il Trattato di Maastricht conferisce personalità giuridica e lo Statuto ne riconosce la più ampia capacità di agire all’interno di ciascuno degli Stati membri. Non essendo dunque, sotto il profilo giuridico- formale, una istituzione Comunitaria, i singoli Paesi aderenti all’Unione monetaria non possono interferire in alcun modo con la sua politica economica; essa può quindi fissare a suo arbitrio il livello del tasso ufficiale di sconto, la quantità di denaro da immettere sul mercato, decidere la disponibilità ed il costo del finanziamento del sistema bancario e qualsiasi altra azione di sua competenza, in modo indipendente. Allo stato attuale delle cose, possiamo dire che l’Unione europea è fondamentalmente una unione prettamente monetaria, con l’aggravio che le decisioni in tal senso sono appannaggio di una elite che risponde a tutt’altri interessi che non siano quelli della potenza americana. Difatti non si spiega altrimenti come la BCE abbia potuto in questi ultimissimi anni permettere un apprezzamento dell’euro così elevato rispetto al dollaro – anche tramite una politica di alti tassi di interesse – se non appunto per favorire le esportazioni del paese di cui in definitiva, e realmente, sono espressione e quindi contenerne il notevole disavanzo pubblico. In termini strettamente economici ciò si è tradotto nell’aggiunta di un ulteriore fattore di difficoltà per le aziende del nostro paese nel vendere i prodotti e servizi soprattutto nell’area del dollaro; e non ci si faccia ingannare da chi sostiene che un euro forte in realtà costituisca un punto di forza per i paesi aderenti all’Unione, poiché essendo il dollaro la valuta alla base della compravendita dei prodotti petroliferi e delle principali materie prime, quanto più esso si deprezza rispetto alle altre valute, ed in particolare rispetto all’euro, tanto più aumentano i prezzi di questi ultimi.  

D’altronde chi più si adegua ed in un certo senso sostiene la politica della BCE è proprio la Germania, il paese dell’area con i migliori fondamentali macroeconomici; essa è perfettamente cosciente del fatto che in questa maniera può tenere sotto pressione paesi comunque concorrenti (quali soprattutto Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) limitandone fortemente le capacità competitive a livello soprattutto economico-produttivo. E’ dunque abbastanza evidente di quanto possa essere anomala la situazione dei paesi aderenti all’Unione, per il carattere stesso del Trattato che non tiene conto affatto delle notevoli differenze fra di essi, difatti moltissimi sono i casi di disaccordi e lotte intestine. Alcuni giorni fa su questo blog abbiamo parlato del metodo di allocazione delle risorse finanziarie per lo sviluppo dei vari progetti inerenti le politiche energetiche dei vari paesi e di come l’Italia – ed in generale i paesi con maggior debito pubblico – siano stati penalizzati, a causa soprattutto delle pressioni attuate dalle autorità tedesche, le quali fra l’altro si stanno adoperando in tutte le maniere possibili per finalmente stanziare i fondi in favore della realizzazione del gasdotto Nabucco, una concorrente dell’altra pipeline, il Southstream, di forte interesse italiano e russo. A ciò addirittura si è aggiunto in questi giorni, la richiesta avanzata dalla Commissione, nei confronti dell’Eni di addirittura cedere il gasdotto Tag – che attraverso il Tarvisio porta il metano in Italia – del quale è titolare dell’89% dei diritti di trasporto; trattasi di una vera e propria porcata, sempre in nome di quel sacro ed inviolabile e quindi fasullo principio della libera concorrenza, che di libero non ha nullo salvo l’utilizzo più opportuno che ne può fare il più forte, in base appunto alle sue proprie strategie di dominio. Ma l’Eni ed il governo italiano sembrano vogliano, a tal proposito, puntare i piedi e speriamo si riesca a scongiurare un fatto che costituirebbe una botta pesante alla nostra, già traballante, sicurezza energetica.  

Questa in definitiva la situazione; a conti fatti l’Unione europea non ha costituito fino ad adesso nessun vantaggio per i paesi che ne fanno parte, salvo forse per la Germania (ma solo in maniera indiretta come ho cercato di spiegare sopra), essa sembra essere stata concepita e realizzata sotto l’egida strettissima dell’establishiment finanziario e bancario legato a doppio filo alla potenza ancora prevalentemente predominante, vale a dire gli Stati Uniti d’America. Essa costituisce un impedimento non indifferente, un ulteriore fattore di difficoltà, soprattutto per i paesi come l’Italia che quando ha necessità di dover in qualche maniera derogare dalle ferree regole stabilite dal Trattato, si vede costretta ad una estenuante trattativa che il più delle volte si rivela essere un totale fallimento. D’altronde questa situazione è destinata ancora a permanere a lungo, cioè fino a quando saremo costretti a dover avere a che fare con una classe dirigente politica serva ed accondiscendente, priva di qualsiasi slancio volto ad una maggiore autonomia ed indipendenza.