LA FINE DI UN'EPOCA STORICA di G.P.

Un’altra grande banca americana tira le cuoia. Per la precisione si tratta della quarta per importanza e per volume d’affari, con sedi sparse anche in Europa, dove migliaia di lavoratori sono stati già mandati a casa (circa 6000, 140 solo in Italia).

L’annunciato fallimento di Lehman non ha commosso le autorità americane, che pure in questo periodo si erano mostrate prodighe di salvataggi in extremis per altre consorelle, ugualmente travolte dalla buriana finanziaria. Ma il criterio per cui si decide di salvare un istituto piuttosto che un’altro non dipende dalle simpatie o dagli umori di qualche politico che ha cointeressenze e contiguità col mondo degli affari (in America la commistione è comunque molto forte).

Le ancore di salvataggio lanciate dal Tesoro americano sono frutto di un calcolo razionale con il quale si sono soppesati costi e benefici di certe operazioni. Merrill Lynch raccoglie, difatti, 2000 mld da clienti privati, risparmi di persone in carne ed ossa (meglio non deprimere ulteriormente la fiducia dei risparmiatori in un momento come questo scatenando una crisi sociale), mentre la Lehman Brothers incarnava il modello della banca d’affari (investment bank) per antonomasia, più incline a moltiplicare i profitti attraverso la speculazione e gli investimenti spericolati.

Siccome è questo modello ad essere sotto accusa, sarebbe stato davvero troppo concedere un’apertura di credito alla Lehman, la quale avrebbe dovuto continuare ad operare con gli stessi criteri in un mercato al quale manca ormai l’ossigeno. Quindi tanto valeva lasciarla andare a sé stessa facendo agire le “ineludibili” leggi del mercato. Del resto è con questo stesso sistema che gli americani hanno prosperato fino a divenire la prima potenza del globo ed è battendo tali vie (e magari imponendole) che hanno messo in riga gli altri paesi i quali ancora arrancano dietro di essi.

Questa sequela di fallimenti sta diventando una manna per i tanti volgarizzatori sedicenti esperti di economia, ufficiali e non, i quali annunciano, nel primo caso che la crisi è solo passeggera e, nel secondo, che siamo ormai giunti alla fine del mondo capitalistico a causa delle sue intrinseche contraddizioni. Quest’ultimi tirano in ballo persino Marx, il quale naturalmente aveva intuito tutto, sebbene la sua “profezia” da implosione sistemica irrefutabile (divenuta tale soprattutto a causa dei suoi esegeti successivi), non si è mai fondata sulla lettura della sfera di cristallo. Essa era piuttosto il risultato di un metodo di analisi razionale sfociante in una previsione, anch’essa coerente rispetto al proprio sistema teorico di riferimento, che però si è rivelata inesatta, stando all’attuale configurazione della formazione globale capitalistica. D’altronde, il Moro pensava che il passaggio dal capitalismo al comunismo sarebbe stato relativamente rapido, se confrontato con quello che aveva portato dalla produzione mercantile semplice al modo di produzione capitalistico pienamente sviluppato. Dopo quasi 150 anni da questa ormai mancata previsione sarebbe stato il caso, quanto meno, di ricalibrare le proprie lenti teoriche in ottemperanza ad un principio scientifico fondamentale: quando una ipotesi si rivela non più in grado di cogliere la realtà, si deve cambiare il proprio approccio ed allargare il campo della visuale, concentrandosi su quelle concatenazioni del reale che fino a quel momento sono state trascurate o messe tra parentesi o, addirittura, considerate secondarie e sovrastrutturali. Occorrerebbe, in sostanza, adottare un’altra prospettiva e operare uno spostamento teorico come quello perorato da La Grassa con il passaggio dal conflitto capitale/lavoro alla lotta tra agenti strategici nelle varie sfere sociali di cui si compone la formazione sociale capitalistica, con preminenza di quella politica.  

Qui, invece, l’unica cosa che gli inveterati marxisti economicisti continuano a fare è aggrapparsi sconclusionatamente alle ragioni “profetiche” di quanto scritto nel Capitale da Marx (dove?), le cui pre-visioni sarebbero finalmente giunte a verificazione. Il capitalismo soffocato da una coltre di titoli di carta straccia, starebbe esalando il suo ultimo respiro, nonostante all’orizzonte non si veda ancora quella soggettività rivoluzionaria affossatrice del modo di produzione capitalistico (che Marx aveva individuato nel lavoratore collettivo cooperativo agente nel processo produttivo capitalistico).

Allora basta con queste palle da illusionisti che servono solo ad ammagliare i dominati per lasciarli, ancora una volta, impreparati dinnanzi al mondo che cambia.

Le domande da porsi sono invece altre. Sarà un caso che le crisi finanziarie si accentuano laddove cresce l’insicurezza globale? E’ solo un caso che il caos finanziario aumenta quando si accresce il disordine geopolitico?

L’unico paragone calzante con la crisi del ’29 riguarda, eventualmente, il futuro che si approssima. Da quella crisi si uscì solo con il confronto militare diretto tra paesi che aspiravano ad egemonizzare lo spazio (militare, economico, d’influenza politica) lasciato libero dalla potenza inglese. Non sarà che questa crisi annuncia una lunga fase di sconquassi (e non di tipo esclusivamente finanziario) che potrebbe finalmente sfociare verso un maggiore policentrismo? La potenza predominante farà di tutto per prevenirla ristrutturandosi al suo interno e modificando la sua strategia all’esterno. La crisi in corso potrebbe dunque essere il sintomo più evidente di ciò che sta mutando sotto la superficie e che ancora non cogliamo in tutta la sua forza e drammaticità.