La “fretta” d’Israele di P. Pagliani

 

1. In un recente contributo ho affermato che Israele non mi sembra in possesso di una strategia netta. Questa affermazione ha generato alcuni fraintendimenti, come ad esempio l’interpretazione che io sosterrei che la mattanza di Israele a Gaza sarebbe uno degli ultimi “colpi di coda” prima dell’avvento della “pacifica era Obama”.

Vale allora la pena qualche chiarimento che possa portare a piccoli passi avanti nell’analisi.

Partiamo dalla “pacifica era Obama”.

 

2. Per me l’elezione di Obama, detto in sintesi, esprime la consapevolezza che la strategia di imposizione di un sistema mondiale gerarchico di stati, a guida USA, è probabilmente fallito.

Gli USA hanno cercato di cogliere la finestra aperta con la caduta del Muro di Berlino, per sviluppare questa strategia che, affiancata alla globalizzazione, era intesa come rimedio alla propria pluridecennale perdita di capacità di far sistema, cioè di coordinare il ciclo mondiale di accumulazione (che, come si vede, nonostante quello che possono pensare i marxisti congelati, non è un affare meramente economico, come infatti non lo è nemmeno il modo di produzione capitalistico nel  modello di Marx – astratto sì, ma determinato storicamente e, soprattutto, socialmente).

Questa strategia, divulgata come quella che avrebbe garantito “a new American Century” (dal nome del noto, o meglio notorious, think-tank neoconservatore), segna il passo. Ristagna come l’economia USA. Anzi, come essa, è in recessione (o si avvia ad esserlo: non è chiaro se l’economia statunitense sia in recessione già dal luglio scorso).

Mutatis mutandis, nonostante la pseudo-normalizzazione dell’Iraq, siamo in una situazione analoga a quella della fine della guerra del Vietnam, quando la sconfitta americana decretò l’impossibilità USA di dominare l’Asia – cosa di cui, per adesso, sta cogliendo i frutti migliori la Cina e in subordine l’India (ma che paradossalmente permise anche ghiotte incursioni al fedele alleato giapponese).

L’Afghanistan è lungi dall’essere normalizzato. E questo Paese è perno bi-secolare delle geopolitiche rivolte al dominio del “cuore della Terra”, l’Heartland, così essenziale per dominare l’Eurasia e quindi, giusta la visione dell’ex Consigliere per la Sicurezza USA Zbigniew Brzezinski, il mondo intero.

Inoltre, se l’Afghanistan è molto lontano dall’essere normalizzato, in aggiunta si sta denormalizzando il Pakistan, punto nevralgico dei rapporti tra Cina, India e Stati Uniti.

La Russia, dopo la cleptocrazia compradora di Boris Yeltsin, che così tanto aveva fatto sperare all’Occidente, si è ripresa con decisione sovrana sotto il pugno di ferro cinico e determinato di Vladimir Putin, che solo la mancanza di baffoni lo distingue da Stalin nei tentativi iconografici dei nostri pennivendoli.

La Cina possiede quasi tutti i mezzi di pagamento del mondo e con le sue esorbitanti riserve valutarie potrebbe soffiare su dollaro ed euro come su dei fuscelli, a seconda della sua convenienza (che, per adesso, è quella di muoversi il meno possibile).

L’India, col suo miliardo e cento di abitanti, è il terzo colosso che insiste su questo quadro prima asiatico e poi mondiale. Cerca di fare i propri interessi tenendo i piedi in varie staffe: stringe rapporti di cooperazione nucleare con gli Stati Uniti, ma prima ne va a parlare col suo gigantesco vicino cinese, il quale per ora ha risposto: “fate pure, staremo a vedere”.

E poi anche nel giardino di casa americano le cose non sono molto favorevoli. Il Brasile sta diventando un nuovo competitor, mentre Venezuela, Bolivia, Ecuador e l’indomita Cuba, giocano a scacchi col prepotente vicino americano (tuttavia il mio consiglio è che si lasci perdere di parlare di “Socialismo del XXI secolo”: si tratta d’altro e la sacrosanta politica di questi paesi va sostenuta per motivi antimperialistici, che non coincidono con quelli socialisti – ammesso che si sappia ancora cosa vuol dire questo termine – se no si arriva a stracciarsi le vesti per la  “delusione Lula”, senza cercare di capire il suo ruolo oggettivo).

 

 

3. E’ evidente quindi che la finestra aperta con la caduta del Muro di Berlino si sta progressivamente chiudendo – e che non fosse amplissima ben lo sapevano già dall’inizio gli strateghi USA, che non sono per niente scemi come ci piacerebbe credere.

E’ per questo motivo che probabilmente la politica di Obama sarà una politica clintoniana all’incontrario: invece di esplorare le possibilità di manovra in avanti (Balcani, embargo all’Iraq, primi bombardamenti sull’Afghanistan e sul Sudan, Somalia) cercherà di perdere il meno terreno possibile, di accorciare le linee e di aggiustare il tiro (ad esempio puntando di più contro la Russia, come il presidente eletto ha già fatto capire).

Questa, diciamo così, “ritirata strategica” non è, come sperano ultrasinistri sfrantumati, una rotta. D’altronde come si fa a pensare che la più grande potenza politico-militare mai vista al mondo possa essere messa in rotta così in fretta, se mai una cosa del genere dovesse succedere, cosa altamente improbabile? Perché nemmeno la sua economia è in rotta, come sognano i soliti catastrofisti, magari tenacemente attaccati alla “caduta tendenziale del saggio di profitto”.

E’ una strategia ordinata. E non sarà per niente pacifica. Potrà avere, e sicuramente avrà, momenti di ferocia, eventualmente condivisi maggiormente con gli alleati di quanto sia  successo nell’era Bush.

 

4. E tuttavia la finestra temporale si sta richiudendo.

E così quella delle mire sub-imperiali israeliane. Mire che si possono sintetizzare con la volontà di normalizzare il Medioriente in una struttura gerarchica con a capo il subcomandante in carica, cioè lo Stato Ebraico (ovviamente ammantato, come gli Stati Uniti, di un “destino manifesto”, che mi fa venire uno sgomento intellettuale e la pelle d’oca come tutti i “destini manifesti”).

Ovviamente è difficile normalizzare il Medioriente se nemmeno lo sono i Palestinesi. Gaza, in questo rispetto, può essere l’agghiacciante anteprima di una “fase 2”, che non può che chiamarsi Siria o, più probabilmente, Iran.

Ma se questa è una razionale strategia – benché criminale e foriera di immensi pericoli per tutto il mondo -, le difficoltà della sua realizzazione in questa congiuntura storica sembrano indurre la mancanza di quella lucidità di programmazione ed esecuzione che ad esempio caratterizzò la Guerra dei Sei Giorni. Dietro alla quale c’era un apparato politico compatto e solidale, ancorché una “società civile” più inquieta (che, ad esempio, in misura notevole rifiutava l’idea di un’annessione dei Territori). Oggi, a fronte di una “società civile” israeliana che sembra ormai cotta a puntino, indifferente allo scempio di Gaza (si veda il flop delle recenti manifestazioni pacifiste) e già pronta a farsi trascinare in una guerra atomica contro l’Iran, il fronte politico appare poco unito, litigioso, indeciso sui ritmi dello stop-and-go che governa l’aggressiva politica sionista.

E’ un’indecisione che, a mio avviso, deriva dalla fretta – come si sa, pessima consigliera. E questa fretta è dovuta per l’appunto alla progressiva chiusura della finestra geopolitica che in questo momento si profila sul filo del vicino orizzonte temporale.

E’ una fretta che potrebbe de-sincronizzare la politica israeliana e quella USA, col risultato che Israele potrebbe avventurarsi in quegli “atti di follia” e di “furia cieca” evocati a metà degli anni Cinquanta dall’allora ministro della difesa israeliano Pinhas Lavon, la cui minaccia, secondo Noam Chomsky, per tutti questi anni ha “convinto” gli USA a farsi carico dei lavori sporchi al di fuori della cerchia geograficamente più prossima agli interessi israeliani, allineandoli alla propria agenda geostrategica (tranne in rarissimi casi come il bombardamento del reattore nucleare d’Osiraq nel 1981 in Iraq)[1].

E’ un quadro possibile, anche se non riesco a valutare quanto sia probabile.

E comunque è un quadro spaventoso che nemmeno viene intravisto o preso in considerazione dai nostri politici, tutti tesi in abbraccio bipartisan a giurare sulla Bibbia la fedeltà all’assioma geopolitico mediorientale: “Sostenere Israele, costi quel che costi, faccia quel che faccia”.

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[1] Il ministro Lavon fu costretto alle dimissioni quando venne alla luce che aveva pianificato e fatto eseguire una serie di attentati in Egitto contro obiettivi americani, britannici ed egiziani, da far ricadere sui Fratelli Musulmani, sui comunisti o sui nazionalisti (Operazione Susannah) (cfr. S. Teveth, “Ben-Gurion’s spy: the story of the political scandal that shaped modern Israel”. Columbia University Press, 1996).  Lo scopo era quello di boicottare la politica statunitense tesa a far  smobilitare la Gran Bretagna dal Canale di Suez. Un evidente fine colonialistico. Fu solo a seguito della Crisi di Suez del 1956 e le perentorie pressioni degli USA per il cessate il fuoco immediato, che Israele  iniziò a pensare di stabilire un rapporto privilegiato con gli USA. Se è vero che questi ultimi bloccarono l’intervento di Francia, Gran Bretagna e Israele anche per evitare le minacciate ritorsioni da parte dell’Unione Sovietica, questa mossa si inseriva tuttavia nella generale politica di decolonizzazione che smobilitò i vecchi imperi coloniali per lasciare spazio alla nuova influenza statunitense.