LA GUERRA, IL CAPITALISMO E LA SINISTRA MESSIANICA

Quando sentiamo parlare di “guerra” in Occidente, ormai le attribuiamo quasi senza eccezioni un significato negativo, respingendone l’idea e rifiutandone qualunque ipotesi di realizzazione. I valori ormai consolidatisi sotto le insegne morali “universali” del nostro sistema etico-politico, hanno condizionato tutte le classiche  sigle ideologiche, da destra a sinistra. La “pace” non è più concepita come il tradizionale momento di relativa tregua e di compromesso/desistenza ma come un valore universale, un’aspirazione morale dell’umanità, inquadrata secondo schemi semplicistici, praticamente messianici. È singolare notare come a reggersi su tali premesse sia proprio una realtà geopolitica ben precisa, quella occidentale, che in fin dei conti esiste nei termini in cui oggi siamo soliti indicarla, essenzialmente per la cementata presenza di un’alleanza militare, cioè la Nato. Da quali altri legami, infatti, l’Europa e gli Stati Uniti potrebbero derivare la propria vicinanza? Sicuramente dai legami economici e finanziari nati nel corso del XIX e del XX secolo ma anche questi si imposero in modo senz’altro determinante con l’introduzione del sistema internazionale nato dagli accordi di Bretton Woods del 1944, stabiliti proprio alla vigilia della vittoria militare degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale. L’Occidente si è poi definito come un sistema culturale, e addirittura estetico (“occidentale” come inspiegabile sinonimo di “moderno” o “progredito”), in conseguenza dell’avvio della Guerra Fredda, quando il mondo si divise in due sostanziali blocchi politico-strategico-economici. Il conflitto latente, indiretto, evitato esclusivamente per effetto dell’equilibrio del terrore garantito dal concetto di Mutual Assured Destruction, agli occhi dell’opinione pubblica dei Paesi del blocco occidentale, assunse dimensioni meno militari e più diplomatiche, che schermarono un confronto in verità principalmente strategico. Anche in questo caso, senza un costante incremento dello sviluppo delle tecnologie militari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avrebbero corso il rischio di essere posti in condizione di totale inferiorità, di vedersi neutralizzati e privi di qualunque rimedio, costretti alla resa di fronte al rispettivo avversario, come in una partita a scacchi. 

Quando negli Anni Novanta, gli stessi argomenti strategici cominciarono a risentire della rivoluzione tecnologica del ventennio in corso (Anni Ottanta-Novanta), si fece largo quella che viene comunemente definita quale la nuova Revolution in Military Affairs, seguita a quella del 1917-18 (principalmente originatasi dalla rivoluzionaria funzione della trasmissione radio e delle prime integrazioni comunicative tra forze aeree e forze terrestri, e dunque almeno in parte tra sfondamento e logoramento). Le innovazioni tecnologiche – soprattutto nell’ottica dell’integrazione delle reti informatiche militari e dello sviluppo elettronico dei sistemi d’arma – favorirono così una sempre più netta definizione del concetto di guerra simultanea (contemporaneità terra-aria e sfondamento-logoramento), che nella congiuntura del 1991 (definitiva dissoluzione dell’Unione Sovietica e operazione Desert Storm nella prima Guerra del Golfo) avrà piena concretizzazione. Nell’opinione pubblica americana si sviluppò allora l’idea – tutta politica e per nulla militare – in base alla quale l’ultima super-potenza rimasta potesse (e dovesse) raccogliere le redini dell’intero pianeta, per regolare e favorire internazionalmente, attraverso precisi processi economici e politici, il flusso di un nuovo corso storico considerato “naturale” e “incontrovertibile” dallo stesso Bill Clinton: la globalizzazione. Questa parola è in realtà un sacco vuoto, frutto anzitutto dell’idealismo democratico e del clima trionfale seguito alla fine della Guerra Fredda, un clima che nessun analista di buon senso avrebbe mai condiviso. L’intervento “umanitario” in Kosovo ed il conseguente bombardamento della Serbia, contribuirono in maniera decisiva a creare nell’opinione pubblica occidentale una nuova consapevolezza internazionale fondata sulla diffusione globale di diritti ritenuti universali ma sostanzialmente derivati da precedenti elaborazioni teoriche e da tentativi sul tema, tutti unilateralmente progettati e stabiliti da politici e pensatori di area anglo-americana: dal progetto wilsoniano di inizio Novecento alla Conferenza di Helsinki del 1975, sino alle più recenti teorizzazioni cosmopolite del diritto internazionale. La finzione mediatica con cui queste operazioni di guerra venivano tradotte negli schermi televisivi dell’Occidente, strideva palesemente con la realtà. Senza i cacciabombardieri della Nato, che distrussero Belgrado e diversi altri centri, fiaccando la stabilità sociale e politica della Serbia di Milosevic, nulla sarebbe stato imposto. Quando nel 2000, alla Casa Bianca arrivò Bush con la sua nutrita squadra di falchi neo-conservatori, fu a quel punto necessaria e naturale una nuova ridefinizione teorica dell’uso della forza, che appariva già molto chiara nel documento del PNAC (Project for a New American Century), stilato nel 1997, dunque ben prima dell’Undici Settembre. 

Preso atto del nuovo ruolo di egemonia e superiorità strategica degli Stati Uniti nell’ambito del nuovo ordine post-bipolare, e preso atto delle residuali minacce di esclusiva natura regionale o terroristica (dunque della sola eventualità di guerre a-simmetriche), all’America sarebbe spettato il compito di aprire un nuovo secolo contrassegnato dalla supremazia degli Stati Uniti sul resto del mondo e dalla diffusione su scala globale di un sistema di libero mercato. Sembrava un ritorno alla “mano invisibile” (e inesistente) di Adam Smith tanto che, come all’epoca, la smania anti-protezionista era fondata esclusivamente sul fatto che la propria potenza fosse quella egemone nell’ambito del mercato mondiale: la Gran Bretagna tra il XVIII e XIX secolo, e gli Stati Uniti tra la metà del XX e l’inizio del XXI. Diversa sarebbe stata la percezione di Smith, se egli fosse nato in Spagna o in Germania nello stesso periodo, così come ben diversa sarebbe stata l’idea dei falchi di Bush, se fossero nati in Russia o in Cina. Definire “giusto” un sistema, esclusivamente in base alla consapevolezza della propria supremazia temporanea nell’insieme dei meccanismi che regolano quello stesso sistema, è un’evidente contraddizione in termini: non soltanto perché questo sistema, se ritenuto giusto, dovrebbe fondarsi su regole (o su deregulation, che, in fin dei conti, necessitano, per definizione, comunque di regolatori e misuratori) identiche per tutti, ma anche perché esso, poiché internazionale, dovrebbe ridefinirsi in base all’apporto e al contributo politico e culturale partecipato della totalità delle diverse componenti nazionali e regionali che lo costituiscono. 


Il libero mercato, così come la società delle nazioni, è un’invenzione; possiamo ben dirlo. Un modello teorico puramente ideale, che nella realtà può tradursi soltanto con l’applicazione di relative misure di libertà di investimento in determinati settori economici, in precise fasi congiunturali dei processi economici determinatisi nella storia. Questa libertà è in ogni caso relativa e sottoposta alla forza: forza economica, anzitutto, come risultato della competizione e della concorrenza (che resta un conflitto a tutti gli effetti), e forza militare, come capacità di aggressione di nuove aree del pianeta (che, sul piano economico, costituiscono mercati di vario genere) e di mantenimento dello status quo più vantaggioso. Per quanto, dunque, l’economia e la strategia militare presentino dei congiunturali intrecci storici e si influenzino l’un l’altra, esse seguono due direzionali ben separate e distinte. È indubbiamente vero che i processi capitalistici, come rilevò lo stesso Vladimir Lenin, conducono la “libera concorrenza” iniziale ad una sfida per il monopolio su scala internazionale, da ridefinirsi quale “fase imperialistica”. Tuttavia, la strategia militare ha una storia millenaria alle sue spalle, sviluppatasi in epoca molto antecedente all’era capitalistica, seguendo dei percorsi evolutivi molto più connessi alla storia della scienza e della tecnologia che a quella dell’economia. Che poi lo sviluppo scientifico-tecnologico sia un oggettivo fattore essenziale per la nascita e per l’evoluzione del sistema capitalistico, è un altro discorso. Di certo, è semmai la tecnologia (in questo senso: macchinari e base tecnica della grande industria) ad aver posto le premesse per la nascita del capitalismo, non certo il capitalismo ad aver innescato o ad innescare tutt’oggi processi di innovazione e di oggettiva progressività storica (nell’ottica del miglioramento delle condizioni di vita e di produzione), che semmai esso può tutt’al più soltanto stimolare in certe fasi storiche, per convenienze di profitto. Non è possibile perciò confondere il reale processo di modernizzazione con il fittizio processo di occidentalizzazione – nettamente separati, seppur per esigenze teoriche di gran lunga diverse da quelle del sottoscritto, persino dal geopolitologo statunitense Samuel Huntington – così come è impertinente confondere il reale processo di sviluppo con il fittizio processo di “democratizzazione”.

Era questo in fin dei conti il gravissimo e grossolano errore di impostazione teorica alla base della fallimentare esperienza della Rivoluzione Culturale cinese, che consentì la diffusione di luoghi comuni assolutamente infondati, non solo e non tanto in Cina, quanto specialmente nel panorama della sinistra radicale occidentale, come ad esempio accaduto nel caso dell’imbarazzante e ridicola suddivisione della scienza in “borghese” e “proletaria”, snaturando lo stesso senso scientifico e contestuale della teorizzazione marxiana, peraltro inapplicabile, almeno in quei termini rigorosi, nella Cina degli Anni Sessanta. Le congiunture storiche della decolonizzazione (un processo in buona parte innescato dall’Occidente, o in ogni caso assolutamente consentito dalle potenze occidentali, al fine di avviare una nuova e più subdola fase di colonizzazione “invisibile” e “senza Stati”) e delle lotte sindacali e politiche nel mondo occidentale, costituirono l’humus per una serie di sviste teoriche abnormi, alla base di ideologie pauperiste, terzomondiste, da predicatori di una qualche dottrina teologica, escatologica e messianica, seguendo un linguaggio da preti scalzi e da missionari: una vera e propria estetica della guerriglia con la quale sia Marx ed Engels, sia Lenin avevano ben poco a che fare. Questo atteggiamento idiota è forse la spiegazione più logica alla mancanza di una vera e propria cultura geopolitico-strategica in quelle forze politiche che dovrebbero teoricamente opporsi ai progetti imperialistici, una mancanza che si traduce in varie forme infantilistiche e demenziali di rifiuto della realtà (e in particolare il rifiuto della condizione storica di conflittualità, delle necessità di sviluppo delle forze produttive e della complessità etnico-antropologica del pianeta), sino alla più completa deviazione verso estetiche da  corteo del sabato pomeriggio, che vanno dall'insulso pacifismo al più ridicolo ambientalismo, dal folle e alienante cosmopolitismo al moralismo umanitario: tutte categorie palesemente funzionali all’imperialismo statunitense attualmente dominante, che, da par suo, fa di questo linguaggio messianico e retorico la sua principale arma di creazione del consenso, servendosi di media conniventi e servizievoli.