La magnanimità del Presidente, la riconoscenza del tacchino, la consapevolezza del pollo

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A due anni dalla scadenza del secondo mandato presidenziale, Barak Obama deve liberarsi da un cruccio che rischia di compromettere seriamente la serenità della sua prossima esistenza da pensionato: giustificare con atti concreti la fondatezza della sua nomina preventiva a premio Nobel della Pace. Le aspettative suscitate dal suo discorso del Cairo, nel 2009, furono enormi;   pochi, tra i quali noi di c&s, furono i disincantati che seppero tradurre il significato reale di quell’esercizio retorico. Da allora, il gesto di magnanimità più significativo da lui compiuto è stato senza dubbio la grazia al tacchino, predestinato al sacrificio sulla tavola presidenziale nel giorno del Ringraziamento.

Al ringraziamento di milioni americani, si è aggiunta quindi la gratitudine di un altro bipede nei confronti della buona sorte che si ostina ad indugiare su quel paese.

Non conosco il motivo profondo di quella scelta; certamente deve esserci una certa affinità elettiva tra la propensione del gallinaceo al narcisismo, identica, pur non avendo gli stessi mezzi espressivi, a quella del pavone e il gusto della scena che deve avere necessariamente un politico votato al palcoscenico.

L’eventuale consuetudine di quel gesto, una volta esaurito il mandato presidenziale, ci aiuterà a comprenderne comunque la reale spontaneità oppure l’arido calcolo di immagine; dato l’invecchiamento fisiologico di quelle carni, il trascorrere del tempo risparmierà comunque il collo di quel bipede.

Un esito fausto tutt’altro che garantito altrimenti ai tanti amici attempati divenuti inutili ai nostri liberatori nonché esportatori di democrazia nel mondo in quest’ultimo ventennio.

Un simile tarlo è reso tanto più angoscioso da un paradosso inquietante.

Come mai i numerosi adepti e idolatri nostrani del Profeta Nero, schierati per lo più a sinistra, così impegnati e imperterriti a tessere le lodi di gesta inesistenti o addirittura di segno tutt’altro che pacifico, si siano lasciati sfuggire, nella loro opera evangelica, l’esempio dell’unica concessione al buon cuore del loro apostolo di pace?

Sospendo ogni giudizio su una contraddizione così stridente ma aneddotica per focalizzare l’attenzione sulle residue chances del nostro profeta di guerra in abito di pace di meritare a posteriori quel premio.

L’Ucraina è indubbiamente il banco di prova attualmente più importante in una scacchiera che presenta ormai numerosi focolai accesi i più virulenti dei quali ormai lambiscono i confini della Russia.

Rappresenta un punto di svolta e un paradigma sotto diversi aspetti.

LA DOTTRINA POLITICA E L’IDEOLOGIA

Dal punto di vista della dottrina delle relazioni internazionali toglie ogni credibilità residua al principio dell’intangibilità dell’integrità degli stati se non per separazione consensuale delle parti all’interno di essi. Un principio che ha regolato i processi di decolonizzazione dagli anni ’50, che ha cercato di governare in qualche maniera il processo di dissoluzione del blocco sovietico e la cui violazione frequente, come nel caso del Kosovo, è stata tollerata secondo i rapporti di forza ma sino ad ora non sancita giuridicamente.

Sino ad ora si era assistito ad uno scontro ideologico inizialmente latente, poi sempre più conclamato:

  • Da una parte la dottrina americana prevalente che tende a riconoscere la facoltà di ingerenza assoluta negli stati sulla base della difesa dei diritti umanitari e fondamentali dell’uomo; un ottimo supporto alla strategia di destabilizzazione, dissolvimento e frammentazione degli stati nazionali più riottosi così come elaborata da Breszynsky
  • Dall’altra una dottrina, sostenuta soprattutto dalla Russia di Putin e dalla gran parte dei paesi emergenti, rispettosa della sovranità degli stati e del loro riconoscimento reciproco

Il colpo di stato in Ucraina, le prospettive di persecuzione della minoranza russofona in quel paese hanno costretto ad un cambio di paradigma della diplomazia russa, inducendola a cedere alle teorie opposte. Una situazione che consentirà il recupero al paese della Crimea e poco verosimilmente della parte orientale dell’Ucraina ma che non farà che riaprire e rendere ancora più evidenti i contenziosi etnici all’interno di tantissimi stati, a cominciare dal Kosovo in Serbia, per finire all’Europa Orientale, all’Africa sub sahariana e al Medio Oriente. Non a caso, su questo aspetto, paesi come la Cina si sono cautamente dissociati dall’interventismo russo, pur solidarizzando con essa contro l’aggressività americana.

L’assoggettamento della dottrina dei diritti umani e della democrazia alle esigenze dirette della attuale realpolitik americana, l’inclusione tra i paladini della difesa dell’uomo dei peggiori tagliagole e delle componenti più retrive, integraliste e confessionali delle varie religioni, non solo di quella islamica, hanno iniziato ad inaridire, nell’arco di un ventennio, le capacità persuasive del soft-power americano e reso sempre più evidente il confronto sulla base dei meri rapporti di forza.

È rimasto ancora un buon predominio culturale dell’Occidente nello stile di vita; è stato, infatti, il fattore importante che ha scatenato le manifestazioni della piccola e media borghesia in Iran, in Libia, in Egitto, in Tunisia, come pure in Russia. In mancanza, però, di un loro reale progetto di autonomia e sviluppo nazionale, abbagliate dalla visione globalista, sono state sconfitte oppure sono state il semplice innesco di rivolgimenti gestiti e strumentalizzati da altre forze in gran parte manipolate da parte occidentale, specie statunitense. Paradossalmente, tra l’altro, come per tutti i panismi, più quello stile di vita, quella rappresentazione si diffondono, più devono fare i conti con la storia e la geografia delle diverse realtà e adattarvisi, meno rimarranno strumento esclusivo della potenza dominante. Si tratta quindi di una ideologia decadente che concederà spazio a nuove rappresentazioni legate ad una situazione di relativo riequilibrio tra potenze o di un riaffermato predominio di una di esse ma solo dopo una transizione complessa fatta di giravolte e paradossi.

IL RUOLO DELL’ECONOMIA E LA COMPLESSITA’ DEI RAPPORTI

La vicenda Ucraina ha rivelato parzialmente, agli occhi più smaliziati, la complessità e l’opacità degli intrecci che sottendono alla relativa chiarezza degli schieramenti conclamati.

Il destino di Yanukovich, il presidente ucraino defenestrato, è stato segnato dalla defezione degli oligarchi apertamente ricattati dalla possibilità di congelamento dei beni e di blocco delle attività nei paesi occidentali e dal successivo venir meno del sostegno delle gerarchie militari. Il protrarsi della protesta verso un Presidente già screditato e indebolito, ha consentito di selezionare, attraverso il sostegno logistico, militare e finanziario, gli oppositori e determinare il colpo di mano.

Sorti dalle ceneri dell’Unione Sovietica senza un reale processo di rivendicazione nazionale, strattonati alternativamente a oriente ed occidente, costruito soprattutto su un nucleo di affaristi e su una ossatura statale precaria, in venti anni le élites ucraine non sono state capaci di costruire una formazione in grado di contrattare seriamente una loro posizione nel contesto europeo che tenesse conto della composizione tripartita del loro paese.

Pur in un contesto di povertà del paese, sono riusciti ad accumulare enormi risorse economiche necessarie al perseguimento delle strategie politiche e alla costruzione delle relazioni e delle strutture necessarie.

La produzione di risorse assolve, quindi, ad una funzione propedeutica alla costruzione sociale e politica. La quantificazione del PIL, della produzione industriale ed agricola, dell’accumulazione e dei flussi in genere fornisce una stima delle quantità di risorse disponibili per la costruzione dei centri di potere e il perseguimento delle strategie, ma non una misura del grado di autonomia e potenza di questi.

La detenzione delle leve di controllo e di comando dell’economia, quindi dei centri finanziari, dei sistemi di ricerca e applicazione scientifica e tecnologica, dei nuclei di formazione di imprenditoria, dei sistemi di controllo delle reti e delle rotte commerciali, dei sistemi giuridici sanzionatori dei comportamenti, è parte integrante dell’armamentario necessario ad orientare le economie e al tempo stesso riesce a fare dell’economia un campo ed uno strumento di strategie politiche più complesse volte al predominio politico.

IL GRANDE ATTORE

La crisi ucraina, in particolare le sofisticate modalità di rovesciamento del legittimo Presidente Yanukovich, l’armamentario delle sanzioni, apparentemente risibili, messe in campo a seguito della secessione della Crimea rivela che il mondo occidentale, guidato dagli Stati Uniti, dispone ancora della maggior padronanza delle leve di controllo e coercitive più sofisticate e persuasive pur in una condizione di crisi latente del softpower.

L’indubbia abilità tattica e strategica di contenimento di Putin, non può nascondere il fatto che dopo i tre paesi baltici, l’Ucraina, anche nell’eventuale versione dimezzata, è ormai il secondo punto di contatto diretto della NATO interno all’ex Unione Sovietica e lungo i confini occidentali dell’attuale Russia.

La politica dell’attuale amministrazione americana, sulla base degli esiti conseguiti in particolare in Libia, Siria ed ora Ucraina, viene tacciata dai suoi detrattori più emotivi non solo come avventurista, cosa su cui si può essere in buona parte d’accordo, ma anche cieca e stupida; un giudizio derivato da una particolare rappresentazione decisamente schematica degli obbiettivi di quel gruppo dirigente.

Intanto, però, bisogna prendere atto che gli Stati Uniti saranno ancora prevedibilmente per parecchio tempo l’unica potenza in grado di agire contemporaneamente e nei diversi ambiti su tutta la scacchiera mondiale non ostante alcune affrettate analisi del budget militare disponibile, ridotto prevalentemente grazie ad una riorganizzazione della logistica ma non nella capacità operativa generale, inducano a pensare il contrario.

A suffragare questo parere, oltre ai focolai già citati precedentemente, basterebbe ricordare, tra le tante realtà, la regressione di due anni, a causa degli attentati, della ricerca scientifica nucleare in Iran, la situazione, nell’attuale “cortile di casa” sudamericano, in Venezuela seguita al tentativo riuscito di ricondurre a più miti consigli il Brasile con l’avvertimento del recente blackout elettrico e alle situazioni di crisi sociale ed economica legate al repentino rientro di capitali in Argentina e numerosi altri paesi con velleità autonomistiche, ma con politiche economiche che solo in pochi casi sono riuscite a creare basi solide per la loro indipendenza, mentre nella maggior parte, invece, si sono adagiate su una munificenza di tipo assistenziale di corto respiro.

NON DI SOLO ORDINE

Se la rappresentazione di questi obbiettivi da parte dei detrattori prevede quasi esclusivamente la sostituzione dei gruppi dirigenti nei paesi e negli stati subordinati o riottosi al fine di ricondurli ordinatamente e con un controllo accettabile della situazione locale ai desiderata della forza egemone, allora l’instabilità e la destabilizzazione crescente, senza una chiara vittoria di una delle parti, possono essere viste come situazioni di stallo oppure vere e proprie sconfitte dell’attuale amministrazione americana.

Se la rappresentazione prevede tra questi propositi, una volta constatata l’impossibilità di un controllo unipolare riconosciuto, in mancanza di un controllo delle entità statuali periferiche, piuttosto la padronanza di enclaves ristrette e di centri nevralgici, la destabilizzazione di centri potenzialmente alternativi, la rottura di assi politici in via di formazione, la fomentazione di rivalità tra forze intermedie tale da impedire o ritardare la crescita di soggetti di rilevanza strategica equivalente e favorire la frammentazione e conflittualità politica regionale, il giudizio sui risultati di questa amministrazione meriterebbe di essere quantomeno sospeso e meno univoco sull’esito prevedibile e sulle capacità di gestione di questa amministrazione.

Non ostante la rappresentazione buonista dei globalisti utopici e romantici, imperterriti nell’idolatrare il loro profeta, quest’ultima mi pare una rappresentazione realistica, depurata dai fumi della propaganda, del multilateralismo propugnato in pompa magna da Obama.

In questa ottica l’atteggiamento schizofrenico degli Stati Uniti verso alcuni paesi assume un’altra prospettiva.

La Turchia di Erdogan viene prima allettata quando si tratta di rompere il patto incipiente tra Russia, Italia, Turchia, Libia, Algeria e Sud-Africa, poi coccolata nel suo tentativo di supremazia nel mondo arabo ai danni della Libia, della Siria, dell’Egitto, infine destabilizzata quando gli effetti stessi della crisi siriana la inducono ad un riavvicinamento parziale a Russia ed Iran.

L’Arabia Saudita viene apertamente incoraggiata nel suo interventismo e nella sua competizione con l’Iran e nella sua collusione conflittuale con la Turchia sino al momento in cui, ormai invischiata su troppi fronti, si vede sacrificare addirittura la testa dei propri servizi segreti, resisi un po’ troppo autonomi e intraprendenti dalla regia americana, in nome dei tentativi distensivi con l’Iran.

Gli esempi potrebbero aggiungersi numerosi; le occasioni ulteriori di destabilizzazione, a proseguire con l’Algeria, non mancheranno.

L’Ucraina, al momento, rimane ancora una situazione paradigmatica di quello che si prospetta ancora essere il centro delle contraddizioni: l’Europa ed il Mediterraneo.

Il colpo di mano, praticamente perfetto dal punto di vista organizzativo e dell’esecuzione, ha di fatto rivelato la minore capacità di attrazione delle rivoluzioni colorate rispetto agli anni passati.

Per conseguire il pieno successo avrebbe dovuto contare su una adesione più “interetnica” della popolazione e su un sostegno politico, militare ed economico sostanzioso da parte occidentale.

Il referendum in Crimea ha rivelato clamorosamente che, ancor più che con l’elezione precedente di Yanukovich, è invece la componente russofona ad essere in grado di catalizzare almeno buona parte delle altre componenti del paese, aiutata in questo dall’atteggiamento di tipo “bosniaco” dei putschisti.

LA DISUNIONE EUROPEA

Il sostegno economico da parte euroamericana, per essere credibile, avrebbe dovuto comportare l’esborso di diverse decine di miliardi di dollari; la logica di dominio americano e di ripartizione consueta degli oneri nella Comunità Europea (UE) prevedevano quindi un esborso minimo da parte statunitense e un contributo più che sostanzioso da parte europea, ripartito pro quota, secondo il loro peso specifico, tra i vari paesi della UE in cambio di pesantissimi costi organizzativi, economici e sociali da parte dell’Ucraina dovuti all’orientamento dell’economia verso i paesi occidentali e alla predazione delle riserve del paese a cominciare da quelle auree immediatamente trasferite nei forzieri statunitensi. I vantaggi economici e politici di questa operazione si sarebbero concentrati invece in mano americana nei settori strategici, compresi quelli rivolti verso il sistema russo e tedesca in parte di quelli e nei settori complementari, compresa la disponibilità di manodopera anche qualificata a basso costo; proseguendo, in questo, nella condivisione dei benefici tra i due principali condomini della costruzione euroatlantica.

Al processo di allargamento dell’UE alla galassia degli stati europei ha fatto seguito un significativo processo di trasferimento di risorse comunitarie (fondi strutturali e di coesione) da sud verso est e uno spostamento del baricentro economico nel centro dell’Europa. La Polonia, infatti, da anni è il principale beneficiario dei fondi europei e ha costruito su questi e sull’intervento diretto tedesco il proprio sviluppo industriale come per altro la Cekia, l’Ungheria.

Un sistema, però, talmente asimmetrico di vantaggi ed oneri da mettere, nell’attuale situazione di crisi della rappresentazione europeista, apertamente in discussione il sistema comunitario basato attualmente sul sodalizio tedesco-americano e da favorire le posizioni antieuropeiste. Si spiega così l’evaporazione di questi impegni finanziari, nonché la sorprendente intemerata del viceministro italiano Lapo Pistelli, di aperta e comprovata fede obamiana, tesa a chieder inusitatamente conto a Barroso del suo impegno abusivo. Un impegno, per altro, perfettamente in linea con precedenti sussulti di autonomia della Commissione Europea rispetto ai grandi paesi europei determinati ma solo in funzione del radicamento originario nella fedeltà e dipendenza oltre atlantica.

ILPARADIGMA UCRAINO

Analogamente al conflitto bosniaco e kosovaro negli anni ’90, la crisi ucraina rappresenta una cartina di tornasole delle dinamiche scaturite dall’implosione dell’URSS.

  • La sconfessione da parte della piazza, validamente sostenuta dalle azioni dei cecchini, dell’accordo perorato da Francia, Germania e Polonia ha chiarito una volta di più la forzatura antirussa del colpo di mano, il peso determinante del calcolo geopolitico strategico rispetto ai processi economici e ai riposizionamenti delle forze regionali europee e l’intenzione, quindi, di metter fine al giochino dell’alternanza elettorale in Ucraina dell’ultimo ventennio
  • L’attuale forzata accelerazione del processo di adesione dell’Ucraina alla UE a condizioni capestro ha messo definitivamente a nudo le motivazioni particolari dell’adesione all’Unione dei paesi dell’Europa Orientale. Il Presidente estromesso Yanukovich non era contrario all’adesione; giudicava semplicemente inadeguate le condizioni di ingresso. Buona parte della nuova giunta ucraina ha espresso le stesse riserve. La forzatura nell’ingresso serve soprattutto a coinvolgere strettamente l’UE e in essa, quindi, la Francia e la Germania nelle implicazioni di una adesione imminente alla NATO in funzione antirussa.

Tutte le adesioni all’UE dei paesi dell’Europa Orientale hanno avuto una sorta di pretesa di risarcimento economico e morale strappato agli europei occidentali per il proprio quarantennale sacrificio nel blocco sovietico. I soli beneficiari economici sono stati in qualche maniera la Polonia in primo luogo e poi la Repubblica Ceka e l’Ungheria acquisendo quel ruolo complementare verso la Germania che durante la guerra fredda era un’esclusiva pressoché dell’Italia. L’integrazione economica di questi era però subordinata ad una scelta di difesa nazionalistica dai propri vicini ingombranti, la Germania e la Russia, da perseguire con l’adesione alla NATO e con la sottoscrizione di vincoli politici, militari ed economici diretti con gli Stati Uniti.

Una adesione quindi avulsa da tutta la retorica europeista che ha riguardato l’Europa Occidentale del dopoguerra e che sta contribuendo ad uno squilibrio e una frammentazione destabilizzante non solo economica e sociale, ma ormai anche politica del subcontinente europeo.

Un’altra conseguenza della crisi ucraina è, infatti, il rafforzamento improvviso del proposito di cooperazione militare del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, R. Ceka, Slovacchia) teso a rafforzare il loro peso nell’ambito stretto della NATO e giustificato nel quadro dei rapporti di cooperazione rafforzata possibili all’interno della comunità.

Per ora il sistema mantiene ancora una certa coerenza grazie ai vantaggi che il sodalizio tra il dominante e il comprimario tedesco in Europa riesce a garantire ad entrambi e al riallineamento atlantista della Francia almeno sino a quando ci saranno margini di accordi e compromessi di questi ultimi con la Russia, legati alla vicinanza geografica e agli intrecci economici imprescindibili.

La costruzione della galassia comunitaria europea ha però contribuito ad innescare degli enormi processi di riorganizzazione e ristrutturazione economica e sociale, una redistribuzione delle leve di comando, di ruoli e di risorse economiche tra i paesi e all’interno di essi tali da portare alla frammentazione e ad una potenziale ricomposizione per aree differenziate di gruppi di interesse e di paesi all’interno dei quali i paesi mediterranei sembrano destinati a subire il peggiore decadimento.

Processi che hanno richiesto ricambi anche traumatici dei gruppi dirigenti.

Se in paesi più solidi,come la Germania, negli anni ’90 hanno comportato preliminarmente il sacrificio anche fisico di alcuni di essi, come Alfred Herrausen, Detlev Rowhedder e Gerold Von Braunmhul, uomini chiave di una politica tedesca più autonoma e neutralista, ma la salvaguardia di un nucleo capace comunque di un ruolo autorevole sia pure subordinato, in Italia la integrale liquidazione della vecchia classe dirigente sostituita in gran parte da un assemblaggio di globalisti visionari, tecnocrati per conto terzi e maneggioni assistenzialisti ha portato progressivamente il paese a cedere ogni ruolo autonomo in zone cruciali come il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Europa Orientale, compresa la Russia, ad assecondare supinamente le modalità di allargamento e gestione della Comunità Europea sino ad accettarne la emarginazione e ad allentare il controllo sulle stesse leve di comando interne al paese.

Le conseguenze politiche, sociali ed economiche per il nostro paese sono ormai evidenti; manca ancora un calcolo attendibile degli enormi costi anche economici delle scelte scellerate su Libia, Siria, Iran e Russia e sul valido contributo che possono aver dato l’insulsaggine ed il servilismo dei nostri rappresentanti alle giravolte della Turchia e di altri paesi.

  • L’ultimo aspetto che rende cruciale il tassello della crisi ucraina, questa volta come prominenza settentrionale della scacchiera che si estende dal Marocco sino all’Iran, è il controllo dei gasdotti, reale centro del confronto ancor più della Crimea, posta a sud di quella rete. Assumerne la sorveglianza attraverso una repubblica delle banane significa costringere la Russia a trattare pressoché esclusivamente con gli Stati Uniti se non proprio a piegarsi ad essi; ma soprattutto a mettere definitivamente in riga e in condizione di ulteriore soggezione  gli amici alleati di questi ultimi, specie quelli dell’Europa Centro Meridionale e la Francia e di dipendenza, a costi enormi rispetto agli attuali, piuttosto verso le riserve di shale-gas detenute da Stati Uniti e Canada o controllate da esse una volta regolati i rapporti con la Siria e l’Algeria, tanto più nella previsione di un mercato unico euroatlantico (TTIP).
  • Rimane eloquente, nelle more, il silenzio di Papa Francesco sull’argomento. Un papa che ha fondato il suo messaggio sul pilastro del dialogo tra la chiesa cattolica e quella ortodossa, suscitando la naturale diffidenza da parte anglicana e protestante, non proferire parola su di una terra dove convivono le due religioni mi pare un segno di cedimento che non lascia ben sperare sulle capacità di resistenza agli attacchi che continuano a provenire da quel versante

 AL LUPO! AL LUPO!

Si sa che il modo migliore, infatti, per mettere ordine a casa propria ed evitare fughe è la creazione di un nemico alle porte e il controllo delle leve fondamentali politiche ed economiche in casa e nel cortile. Una strategia cui, nelle attuali condizioni, potranno sfuggire, ma solo parzialmente grazie alle connessioni dirette con la Russia (Nothstream), la Germania e i paesi scandinavi; cui rimane condannata integralmente l’Italia con il probabile accantonamento del gasdotto South-Stream o la parziale attuazione previa riassunzione totale del controllo della Turchia.

In questo contesto l’amministrazione di Obama si è assunto un ruolo particolare, agli antipodi però di quello che hanno prospettato gli ineffabili messaggeri di pace di Oslo e Stoccolma.

La politica di alimentazione, fomentazione e sostegno dei conflitti, di frammentazione e indebolimento dei paesi cruciali comporta dei rischi notevoli. Paradossalmente una tale condotta comporta non solo indebolimento e distruzione di energie dei paesi periferici coinvolti, ma anche il vellicare alternativamente le ambizioni di potenza di questi. In Europa si tratta, in particolare, di convogliare le energie dei paesi europei contro la Russia e in avventure subcoloniali intorno al Mediterraneo tese a garantire e ripristinare i flussi nella maniera subordinata citata poc’anzi. Il rischio più grave è che qualcuno riesca a realizzare finalmente queste ambizioni e ad appoggiarsi e offrire qualche alimento alla forza di una delle potenze emergenti, in particolare Russia e Cina.

Il corollario negativo è il logoramento del concetto di “eccezionalità” del ruolo americano proprio quando la popolarità e il prestigio di Putin sono destinati a crescere sanzione dopo sanzione.

I risultati sino ad ora hanno dato in gran parte ragione all’entourage di Obama; sino a quando i costi politici ed economici del mantenimento e della gestione di tutti questi focolai saranno principalmente a carico dei contendenti sul campo e degli alleati regionali non ci si potrà attendere alcun rivolgimento della strategia americana.

LA SOLIDITA’ DI UNA ELITE

Al contrario lo staff che ha espresso Obama sta rivelando una solidità nell’apparato e nei centri di potere che nemmeno Roosevelt aveva dimostrato di detenere in un contesto ben più favorevole come quello della contrapposizione al nazifascismo. Le epurazioni nelle gerarchie militari e nei gangli dello stato, l’accentramento di funzioni confermano questa forza e la volontà di proseguire in questa strategia. Anche se con evidenti segni di logoramento, il sodalizio creato tra una parte del complesso militare-industriale, gran parte dei centri militari ed amministrativi centrali, alcuni settori complementari espressi ecumenicamente dai due partiti, i dirittoumanitaristi interventisti di Sarandon e Rice e i fautori piuttosto fumosi del welfare e della spesa pubblica ancora regge, riesce a tenere,  a influenzare e tessere i rapporti nel mondo con le componenti analoghe nei paesi cruciali. Le oscillazioni che paesi come la Polonia, la Turchia, la Germania, ma anche la Russia hanno subito nel corso di questi decenni lasciano intuire questi intrecci, condizionamenti e ribaltamenti di leadership.

Un sodalizio che, con altro spessore e capacità attrattiva, si è espresso in altri momenti della storia americana, con Roosevelt, Kennedy, Johnson e qualcun altro ma che viene riproposto in un contesto in cui è difficile mantenere status e prerogative se non in un numero più limitato di paesi “amici”  e fasce sociali, a costo però di un controllo politico sempre più ferreo e distruttivo. Sono rischi e conseguenze ben presenti in quei settori dei centri americani minoritari sostenitori di una politica più classica; parallelamente si sta sviluppando una corrente critica del processo di centralizzazione dello stato federale, di intrusione nelle libertà individuali e nella “privacy” dei cittadini sino a riassumere in alcuni casi i connotati dell’isolazionismo già vissuti in altri periodi di quel paese. Per essere un fenomeno politico significativo manca ancora una saldatura accettabile tra questi ambiti.

Sono comunque referenti che hanno destato l’attenzione di componenti sovraniste insospettabili di ambiguità negli ambienti russi; non vedo perché non debbano destare la nostra, visto che dimoriamo nel cortile di casa e che gran parte di quello che avviene nel nostro paese dipende e dipenderà dalle dinamiche interne al di là dell’Atlantico.

Dietro l’aura del politicamente corretto, invece, stanno già preparando il successore sulla scena politica. Dopo l’ascesa del nero, il processo di emancipazione sarà gratificato dall’elezione a presidente di una donna; lo ha annunciato recentemente Obama. Possiamo immaginare chi sarà; lo spessore umano preteso dalla prescelta lo hanno rivelato, tra le tante, la Nulan, nelle sue conversazioni telefoniche riservate e la Hillary Rodham Clinton nel beato autocompiacimento di fronte alle immagini del linciaggio di Gheddafi. Una prova di più che difesa dell’UOMO e difesa degli uomini fanno spesso a pugni.

LA FORZA CHE E’ IN NOI

Dovremmo cominciare a pensare a cosa fare per il nostro paese e a sceglierci gli interlocutori utili o meno nocivi, ma con realismo e senza fughe illusorie, rischiose per paesi meglio attrezzati, figuriamoci per una realtà come la nostra ondeggiante e troppo “accogliente” al proprio interno e ormai quasi invisibile all’esterno in un mare in cui le grandi navi cambiano rotta repentinamente.

Se la gran parte  dei naviganti, nel paese dei navigatori, preferisce il rimorchio alla nave più grande incurante dei rischi della scia per la sicurezza del proprio guscio, una parte sempre minoritaria ma ormai significativa ha adocchiato come rimorchio la nave di Putin, eredi di altri comandanti che hanno dimostrato, per la verità, molta più perizia sulla terraferma che sugli oceani.

I LIMITI DI UNA ALTERNATIVA

Putin ed il suo equipaggio hanno dimostrato capacità, carisma e coraggio; ha potuto, per ora, attutire o arrestare i colpi, non ancora infliggerne di significativi.

Gli Stati Uniti di Clinton sono arrivati ad un passo dall’aver annichilito, disintegrato ed asservito la Russia; per quello che hanno combinato in Russia, parecchi dei suoi funzionari avrebbero dovuto fare la fine di Khodorkovski, fermo restando la responsabilità principale delle élites russe di allora, invece di consolarsi alla stessa maniera in altre parti del mondo. In quindici anni il gruppo dirigente di Putin ha riorganizzato fiscalmente e nelle strutture gran parte dello stato centrale, ha ricondotto sotto controllo accettabile i vari stati della federazione, ha ripreso in buona parte in mano la gestione e la commercializzazione delle industrie estrattive.

È un’opera, però, ancora largamente incompiuta in buona parte perché non ha potuto godere della stessa generosità della Cina da parte dei paesi occidentali.

Un trattamento comprensibile vista la posizione geografica del paese e le potenzialità di risorse e materie prime tali da garantire un ruolo di primo attore se si dovesse aggiungere ad esse una analoga capacità industriale e tecnologica in grado di influire sugli scambi, di determinare i flussi economici e di creare le risorse necessarie ad uno stato autorevole. Sino ad ora, stando alle stime anche di osservatori neutrali, i centri russi sono riusciti a riorganizzare decentemente un terzo del loro esercito, nemmeno in maniera organica, hanno riorganizzato in maniera accettabile buona parte della industria estrattiva con il contributo delle multinazionali straniere presenti in forma consistente negli assetti proprietari, sono riusciti a garantire con le rendite acquisite un innalzamento dei livelli di reddito della popolazione. Lo sviluppo tecnologico, però, privo del sostegno occidentale, procede in maniera sporadica e soprattutto non riesce a riverberarsi nella industria civile di largo consumo in modo da innescare processi automatici di sviluppo massimo e da ammortizzarne i costi. Sotto altre spoglie, i limiti della economia sovietica.

Gli oligarchi dell’industria estrattiva mantengono quindi una posizione ancora preponderante ma mitigata e controllata da un apparato statale più autorevole e determinato. Non possono aspirare al controllo diretto del governo, vista tra l’altro la grande impopolarità dovuta al loro ruolo nella Russia degli anni ’90, ma possono condizionare  ancora pesantemente le scelte e ribaltare la situazione in caso di indebolimento dell’attuale leadership; è un sistema, per altro, che gode di enormi rendite finanziarie, intrecci politici ed economici all’estero ma che controlla in piccola parte le leve finanziarie.

Una politica ed una economia basate prevalentemente sul possesso delle materie prime raramente riescono, per lungo tempo, a garantire a un paese la piena autonomia se non a costi enormi e in presenza di alternative tra i detentori di tecnologia e del controllo delle rotte e dei flussi; spesso e volentieri deve badare anche alle pressioni interne di quelle forze interessate a mantenere un’economia fondata sulla monocoltura.

Un problema ben presente nell’attuale gruppo dirigente russo che non sembra avere però la spinta sufficiente ad avviare un meccanismo interno autopropulsivo. L’attuale piano di investimenti lungo l’asse ferroviario transiberiano prevede infatti il contributo massiccio di investitori esteri, specie quelli dotati di alta tecnologia. Sarebbe una grande opportunità per i paesi europei e per il Giappone; l’Italia, tra l’altro, ai tempi del Berlusconi gaudente godeva di una posizione di privilegio che la stava introducendo massivamente, con ENI e Finmeccanica, nel mondo della estrazione delle materie prime e della ricostruzione e sviluppo delle reti infrastrutturali, in particolare ferroviarie.

Posizione letteralmente bruciata dalle scelte di politica estera degli ultimi cinque anni. Basterebbe esaminare i dati della bilancia commerciale per valutarne i limiti della quantità e della qualità degli scambi calati di pari passo con la credibilità internazionale del paese.

SUPERARE LE ILLUSIONI

Un esempio evidente che a decidere per tutti del livello qualitativo degli scambi e della collaborazione economica con la Russia sono ancora gli Stati Uniti. Per venti anni il gruppo dirigente russo ha coltivato, per necessità e per errore di calcolo, l’illusione di un risveglio dell’Europa e di una autonomia della UE. Ha continuato a proporsi per anni come partner affidabile degli Stati Uniti, raccogliendo pochi spiccioli nella prima fase della presidenza di Bush. Non ha compreso sino in fondo che l’attuale costruzione europea resiste ed esiste finché rimarrà la NATO; il suo è un rapporto costitutivo nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale e costruito in contrapposizione al blocco sovietico prima e russo successivamente. L’allargamento dell’Unione, per spinte intrinseche legate alle pulsioni in Europa Orientale ed estrinseche legate al tentativo americano di sopraffazione, non ha fatto che accentuare questa impronta.

Non è altrettanto vero il contrario; tant’è che si sta cercando di governare e pilotare anche le spinte distruttive della costruzione europea e conflittuali tra gli stati europei.

Se dovrà nascere un rapporto con quelle forze presenti negli Stati Uniti e in Europa disposte ad accettare la presenza con pari dignità di altri paesi emergenti, la Russia dovrà costruirlo su altre basi.

Le rimane l’alternativa di orientarsi verso la Cina; se da un punto di vista politico è una scelta plausibile, da quello economico complica le cose e i tempi di sviluppo.

Un compromesso sull’Ucraina, magari corroborato dall’emarginazione nella giunta golpista dei figuri più impresentabili che hanno concluso ormai il lavoro sporco,  fondato su una adesione alla UE distinta da una partecipazione alla NATO può tutt’al più servire a procrastinare i tempi e a riproporre però il conflitto interno al paese e tra i blocchi su una base più favorevole alle mire espansionistiche della NATO. Si tratta di una politica che richiederà sacrifici e provocherà squilibri sempre più evidenti all’interno e tra i paesi europei.

In alcuni paesi, come la Francia, esistono forze ormai consapevoli di questo e ben radicate sia nella popolazione che nei gangli vitali dello stato; in altri, come la Germania, è illuminante il silenzio prudente di alcune forze; in Italia tende a prevalere, come spesso accade, la petulanza e la riscoperta del miracolo della parola e dello slogan con il rischio di rimanere al traino di uno oppure di un altro paese, di una oppure un’altra opzione.

Quanto ad Obama le sue opzioni estreme in Europa le ha riservate a due paesi: la Polonia e l’Italia

Obama ha dimostrato di rispettare il tacchino; non credo che avrà la stessa considerazione per i polli; anche perché il loro livello di consapevolezza non dista molto da quello delle rane e acquisiscono la percezione esatta della loro condizione quando la temperatura dell’acqua è già a livelli di cottura.

In Italia è tempo già avanzato di bollitura, ma i polli sembrano ancora impegnati a beccarsi tra loro o troppo distratti  dalle galline.