LA MORALE CONTRO IL CAPITALE di G.P.

 

Sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’inferno, si deve porre questo ammonimento: Qui si convien lasciare ogni sospetto. Ogni viltà convien che qui sia morta

 

Intendo fare qualche breve riflessione sulla maniera in cui gran parte dei militanti comunisti (e dello stuolo degli intellettuali che li assiste), ormai orfani dei cosiddetti partiti di “classe” – detto tra virgolette, perché il riferimento messianico alla classe operaia, o, anche, alla sua perenne ricomposizione quale soggetto rivoluzionario e intermodale, è stato un modo efficace per alimentare un mare di illusioni da parte di quei gruppi dirigenti corrotti ed incapaci che hanno avuto come scopo principale la loro esclusiva riproduzione entro caratteristiche sistemiche – stanno reagendo al crollo dell’impalcatura della propria struttura organizzativa.

La risposta istantanea ed emotiva, con la quale si tenta di esorcizzare una debacle che è storica (e non semplicemente congiunturale) non prende nemmeno in considerazione la necessaria ridefinizione dell’oggetto da indagare e da criticare. Si parla di crisi del marxismo (una crisi che dura ormai da troppi anni) e si ripercorre, sospinti dalla corrente della delusione, la via di un orizzonte leggendario, quella dell’eterno ritorno ad un passato incorrotto e primigenio (anche questo rito si consuma, a scadenze prefissate, ogni qual volta il dispositivo teorico da essi utilizzato dimostra chiaramente di essere stato disinnescato) che è un vero e proprio Mito dell’Origine.

Ma sappiano, i comunisti dell’illusione ideologica elevata a verbo immutabile, che in principio, prima della scienza marxiana, vi era solo il moralismo con il quale le classi dominanti mettevano l’uno contro l’altro i dominati, servendosi del buonismo e dell’incoscienza dei tanti profeti dell’utopia per mistificare le leggi riproduttive del rapporto sociale capitalistico.

Insomma, in assenza di un discorso teorico adeguato si può solo compiere una fuga in avanti dileguativa (che, tuttavia, ci ricaccia verso un passato premarxista e prescientifico) appena coperta da una pratica "brutale" e sclerotizzata.

 

La prassi cieca e la foia dell’agire proiettato in ogni direzione (al pari della corsa in un labirinto cnossiano, dove si finisce per tornare sempre al punto di partenza, perchè non si sono presi dei riferimenti orientativi minimi) è il sintomo più evidente di quello che piuttosto manca, dell’assenza di uno statuto teorico con il quale leggere la direzionalità delle forze conflittuali (e la legalità sottesa all’“energia” che le orienta) che attraversano lo spettro sociale laddove si stagliano i rapporti “a dominanza” del capitale.

Senza la fissazione di categorie e concetti, per il tramite dei quali organizzare i propri "spostamenti" nello spazio sociale (e nel tempo storico di riferimento), si resta in completa balia degli eventi. Diceva Althusser, in occasione di una di queste precedenti crisi del marxismo: “la ‘teoria’ impone di assumere principi e conoscenze nell’attuazione della pratica politica, nelle sue dimensioni strategiche e organizzative, nei suoi obiettivi e mezzi”. Quali sarebbero, per questi arditi dell’azione impetuosa, i principi e le conoscenze che guidano la pratica politica? E le dimensioni strategiche e organizzative? La domanda cade nel vuoto o riceve risposte senza fondamento perché non vi è menzione di uno sforzo teoretico meno approssimativo di quello attuale, indirizzato a conoscere l’attuale strutturazione  della formazione sociale capitalistica globale e la sua storica trasmutazione, in quella che noi definiamo la società  dei funzionari (privati) del capitale.

Le vecchie categorie, perennemente riproposte tal quali, hanno perso il loro peso scientifico perché  (e da molto tempo) hanno smesso di accordarsi alle dinamiche di sviluppo del capitalismo del XXI secolo, rendendo inintelligibili le sue leggi di sviluppo e di riproduzione “allargata”.

Allora, non sorprende che questo vuoto teorico venga saturato dalla “morale contro il Capitale”, la quale non lascia margini ad una critica più profonda di questo rapporto sociale e di tutto quello che esso produce. Tutto ciò è quanto di più antimarxista possa esserci, soprattutto laddove, contro il dettato marxiano, si giunge a confondere apparenza fenomenica, quella del moto sociale superficiale, ed essenza delle cose.

Allorchè sono i temi moralistici a prendere il sopravvento sulla critica teorica, il nemico ha già preso la testa del “corteo rivoluzionario” e “chi parla del nemico è lui stesso il nemico”. In questa fase, non casualmente, vengono moltiplicandosi le teoresi più bizzarre che affondano le loro radici nella primigenia bontà umana che deve tornare a rivelare sé stessa attraverso l’amore per i diseredati, (senza mai dire chi sono concretamente), la sensibilità per l’ambiente, per il prossimo, per l’altro ecc. ecc.

Ma chi spinge i dominati ad abbracciare queste cause lo fa o perché deve formare un blocco contrastivo verso gli altri settori dominanti (che li stanno surclassando sul terreno dei rapporti di produzione o su quelli della potenza) o perché deve disperdere forze potenzialmente sovversive, attraverso la perorazione di cause tanto vaghe quanto assolutamente innocue per il meccanismo di riproduzione dominante. Nessuno pensa che, in assoluto, tali tematiche non meritino attenzione (chi vorrebbe vivere in un ambiente insalubre? Chi non prova odio per gli sfruttatori delle masse del terzo mondo?) ma oggi, come ieri, ci troviamo a dover definire delle priorità. Queste priorità riguardano, per l’appunto, la migliore definizione teorica del nostro oggetto (la formazione o le formazioni capitalistica/che) e la delimitazione dello spazio sociale da riempire, quello dove dovranno disporsi gli agenti della possibile trasformazione, la cui forza sarà necessario raccogliere (o produrre)  attraverso l’architettura delle alleanze di “classe”. Vi è forse compito politico più concreto di questo?