LA POLITICA AL COMANDO di G. La Grassa

Non più tardi di un mese fa, il prezzo del petrolio – seguito da quello delle cosiddette commodities­ – saliva a freccia. Non c’era nessun “esperto” che non sostenesse l’ormai irreversibile corsa al rialzo: si parlava del certo raggiungimento dei 200 dollari a barile entro la fine dell’anno; ed era ancora poco, nel 2009 almeno 250, forse 300 dollari al barile, con allora un collasso non più solo finanziario ma dell’intera economia mondiale nei suoi termini reali.

Un mese è passato e il petrolio sta scendendo verso i 100 dollari al barile. Ma c’è speranza, non si sa mai; aspettiamo un altro mese e vediamo quale sarà la tendenza. Senza però illuderci che sia quella definitiva, poiché verrà poi un altro mese e un altro ancora, e il balletto degli “esperti”, delle loro sballate previsioni, delle loro cervellotiche (e tutte diverse le une dalle altre) spiegazioni degli andamenti previsti per i prossimi “secoli” (diciamo per almeno i prossimi 2-3 anni), sarà sempre più divertente e sputtanante per questi autentici truffatori (perché si fanno pagare cifre da capogiro per i loro pareri, per gli articoli che scrivono su indecenti fogliacci economico-finanziari).

Un mese fa era vivo il dibattito tra chi sosteneva che l’andamento dei prezzi di tali prodotti era dovuto a speculazione e chi lo attribuiva invece alle normali leggi della domanda e dell’offerta. Nella fase di rapida ascesa sembravano in vantaggio i filospeculazione, adesso che il prezzo cala – in presenza di una recessione mondiale con chiara diminuzione della domanda di petrolio, gas e fonti di energia in genere (e di materie prime varie) – si rigonfiano il petto i sostenitori della domanda e dell’offerta; pur se gli avversari sollevano varie obiezioni, che si potrebbero condensare sostanzialmente in questa “geniale” idea: se i prezzi crescevano così velocemente, mentre adesso hanno invertito bruscamente la rotta, questo dimostra ipso facto che si trattava di pura speculazione (un pensiero di tale insondabile profondità che la nostra ragione vi si smarrisce, rischiamo la “dolce follia di Ofelia”).

Domanda e offerta, da una parte, e speculazione, dall’altra – come già avevo sostenuto appunto un mese fa – sono le classiche motivazioni antitetico-polari che si sorreggono vicendevolmente; e che si alternano nel buggerare i gonzi, tutti presi da questo volgare economicismo. Intendiamoci bene: non si tratta di pure falsità. Immaginiamo che fra due ore si scateni un terremoto; questo potrebbe essere sussultorio o ondulatorio o magari un po’ di tutti e due. Il terremoto è terribilmente concreto e devastante, mica è una burla inventata dai sismologhi. Solo che questi si scateneranno in mille spiegazioni ex post dell’accadimento, prevedranno sciami di più piccole scosse (se poi ne arriva una di altrettanto o ancora più forte, resteranno sorpresi e diranno magari che “non sarebbe dovuto accadere”). In ogni caso, non sono stati in grado di preavvertirci con sufficiente anticipo in merito ai processi che stavano preparando l’evento: movimenti e frizioni crescenti tra profonde falde tettoniche, in atto da mesi e spesso anni, autentica causa dello sprigionarsi improvviso (e puntuale) di tanta energia distruttiva. Tutto si scatena in un battibaleno, ma era in preparazione da moltissimo tempo.

L’economicismo delle tesi basate sulla “domanda e l’offerta” o invece sulla speculazione – così come l’economicismo che predica le virtù del “libero mercato” o invece quelle dell’intervento della spesa pubblica – consente una visuale ristretta e la spiegazione (tante spiegazioni in contrasto tra loro) dei processi soltanto “a giochi fatti”; salvo l’apprestamento di alcuni strumenti per manovre di politica economica e monetaria che funzionano solo quando il “terremoto” non è troppo forte. L’economicismo, che è la visione di una mentalità tesa all’empiria più immediata, presenta dissimmetrie a seconda che sia apologetico o critico dell’esistente. Liberismo e keynesismo, ideologie dei dominanti, consentono di mascherare il funzionamento più profondo (a livello dello scontro tra falde tettoniche) del sistema capitalistico; si tenta di convincere il popolo che certi eventi sono inevitabili, si possono capire a metà (e perfino meno di così), ci si deve rassegnare alle “vacche magre”, aspettare che passi la buriana poiché, in definitiva, il “buon senso” ci dice che “il bel tempo e il brutto tempo non durano tutto il tempo”.

Tale economicismo forgia i preparatissimi cervelli dei tecnici del capitale – i ben noti “idioti con alto quoziente di intelligenza” – in modo tale che essi credono veramente che si possa limitare la portata di eventi negativi, diffondendo l’ottimismo e combattendo il pessimismo tramite dichiarazioni e informazioni false (magari sparando ufficiali statistiche sul costo della vita con dati di crescita ad un quarto o un quinto del reale; solo per fare un esempio). Inoltre, si sostiene con il “buon senso del padre di famiglia” – quella somma di insulsi consigli, di cui è un capolavoro assoluto il discorso dello sciocco Pollonio (per fortuna subito dopo infilzato da Amleto al grido: “un topo, un topo”) al figlio che parte per l’Inghilterra – che siamo tutti sulla stessa barca, che nessuno deve cercare di salvarsi da solo, che dobbiamo stare uniti (ad esempio, nella globalizzazione attuale, da salvaguardare come ancora di salvezza). Ovviamente, ai primi “ondeggiamenti della terra”, si resiste abbastanza alla tentazione “spontanea” che nasce dalla contrazione involontaria dei nostri muscoli delle gambe; poi, quando si arriva al dunque, è bene cercare di uscirne nel modo meno peggiore possibile, il che lede assai spesso il “meno peggio” degli altri compagni di sventura.

 Per i critici del sistema capitalistico, l’economicismo è la tipica droga da allucinazioni; di quelle che magari ti fanno credere di essere divenuto un uccello per cui ti lanci dal quinto piano. Il sistema sarebbe morente, non è nemmeno più necessario muovere un dito per liberarcene, l’inevitabile suo destino predetto un secolo e mezzo fa si sta infine compiendo. E, se poi non si compie, sarà sufficiente attendere la “prossima volta”, fra altri cinquanta, cento o appena un po’ più d’anni.

Prima di tirare qualche conclusione, riporto altre considerazioni dell’ultima ora, anche qui ricordando che fino a pochissimo tempo fa le previsioni di massima erano: crisi grave per gli Usa, scosse non indifferenti per le economie asiatiche – pur se però alcune di queste (ben note) partono da alti livelli di crescita – mentre forse la UE sarebbe dovuta uscirne meglio; in particolare, fino a qualche mese fa si sosteneva che le banche europee erano le meno toccate dalla crisi dei cosiddetti subprime; ma non certo dalla somma di imbrogli e pasticci combinati con i derivati, queste autentiche scommesse su tutto, salvo che sul cambiamento di colore della cacca di cavallo se ci si dilettasse a spalmarla sulla faccia delle classi “dirigenti” e su quella dei loro “esperti” e “tecnici”.

Adesso, sembra invece che l’economia Usa stia dando prova di resistenza. Il tasso di crescita previsto per il 2008 è in aumento; quello del 2009 – che pareva dovesse stagnare o ancora diminuire – si sostiene sarà invece in ulteriore crescita rispetto a quest’anno. La produttività è aumentata in un anno del 2,5% mentre si temeva uno “zero virgola”; e tale aumento consente di combattere l’aumento dei costi legato al deprezzamento del dollaro e al, fino a poco tempo fa, rincaro delle fonti di energia e delle materie prime, con possibilità di tenere basso il costo del denaro malgrado la presenza di tensioni inflazionistiche (il tasso d’inflazione ha superato il 5%, se non ricordo male). Situazione capovolta in Europa: netto rallentamento previsto per la produzione (e i consumi) anche per l’anno prossimo, inflazione in aumento e, per di più, con una bassa crescita della produttività, veramente allo “zero virgola”. Quindi piena stagflazione, che non si può combattere con diminuzione dei saggi di interesse. Vuoi vedere che il centro della crisi – perché l’ondata è chiaramente partita dagli Usa – riesce a scaricarla soprattutto su di noi? Nessuna preoccupazione (o meglio tanta!); nei prossimi mesi (anche settimane, magari giorni), muteranno le prospettive con la frequenza dell’alta moda o dei succinti costumi delle “veline”.

 

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Lungi da me l’idea di sostenere che non bisogna preoccuparsi delle scosse violente di terremoto quando si verificano. Non ci si può esimere dal preoccuparsi vivamente e dal tentare di pensare come uscirne. E intanto diciamo subito che fanno ridere i “buoni padri di famiglia”, che predicano di stare calmi e di salire a bordo delle scialuppe di salvataggio con perfetta calma e in ordinata fila, rispettando le precedenze fissate dalle “autorità”. Fino a quando sarà possibile comportarsi così, vuol dire che non siamo affatto ancora nell’occhio del ciclone. Se ci si dovesse arrivare, ci sarà da ridere (cioè da piangere amaramente, per chi non ha sufficienti risorse alle spalle). I vuoti consigli dei “buoni padri di famiglia” li denomino da adesso “apparato di Pollonio”.

Fatta salva l’esigenza di trovare – se si mantiene una certa lucidità – una struttura dell’abitazione sotto cui ripararsi, quando la si veda in pericolo di crollo, credo si possa nel frattempo, in attesa di eventi così rapidi e tumultuosi, usare la testa per uscire dalle spiegazioni degli eventi puntualmente catastrofici in termini di puro economicismo, con le solite versioni in “solidarietà antitetico-polare”.

E’ ormai urgente un autentico lavoro, magari ancora “a spanne”, da compiere sul piano più specificamente teorico, che non è quello proprio del blog. Qui imposto il discorso. Per troppo tempo abbiamo creduto che nel sistema capitalistico, a differenza di ogni altro precedente, diventasse dominante e non solo determinante (“in ultima istanza”) la sfera economica: prima quella produttiva e poi, nel capitalismo della massima centralizzazione dei capitali, quella finanziaria, interpretata come soltanto parassitaria. L’economia comanda la politica, si pensa; i capitalisti trattano come loro “servi” i membri del ceto politico. Errore madornale. La politica è sempre al posto di comando, poiché nella stessa sfera economica (produttiva e finanziaria) predominano gli agenti delle strategie del conflitto, che hanno carattere di intensa politicità, non di mero riferimento all’efficienza economica (sia che si sostenga quella del “libero mercato” o quella dell’intervento della “spesa pubblica”; o che ci si intestardisca sterilmente sull’estrazione del massimo plusvalore dalla “Classe”, quella “sfruttata”).

Sostenere che la politica è al posto di comando non significa essere infantili e credere all’esistenza di una “Mente” in grado di sovrintendere alle scelte dell’intero sistema; esiste invece il conflitto multipolare – sia nelle strategie della sfera economica che in quelle della politica in senso stretto – ed esso è più o meno acuto a seconda del da me sostenuto alternarsi di epoche mono e policentriche. Il conflitto multipolare è il lento e prolungato urto tra “falde tettoniche”, che accumula la tensione di energia, scatenantesi poi puntualmente in dati periodi storicamente brevi. Solo che le falde tettoniche sono cieche e prive di qualsiasi consapevolezza, mentre i gruppi sociali in conflitto applicano non a caso quelle che vengono denominate strategie; e, in tale ambito, non c’è irrazionalità, se non puramente involontaria, provocata dal fatto che, quando più forze consapevoli entrano in urto, la risultante, il loro “vettore di composizione”, può condurre a risultati non voluti da nessuno degli attori in campo.

Ora, nel momento del puntuale scatenarsi della scossa violenta (il “terremoto”), è comprensibile che si tenti il tutto per tutto per attenuare almeno un po’ i danni. Questo fu il New Deal nella crisi scoppiata il 1929, che poi fu “messo in teoria” da Keynes. Ma puntellato alla bell’e meglio il sistema, la crisi (latente, di stagnazione) continuò per tutti gli anni trenta e fu risolta soltanto dalla brutale resa dei conti tra gli attori in conflitto, con prevalenza – nel capitalismo occidentale – di uno di essi che coordinò a lungo gli altri. Tutti i discorsi facenti parte del cosiddetto “apparato di Pollonio”, tutte le sciocchezze sul siamo nella stessa barca, sul dobbiamo cooperare (il che significa solo che poi uno “coopera”, o tenta di cooperare, al di sopra degli altri), accumulano la tensione di scontro che poi si scatena con efferata violenza nella guerra, ancor oggi mera continuazione della politica con altri mezzi. Ma è continuazione di una politica cieca, che si nutre delle sciocchezze del suddetto “apparato di Pollonio” e che, alla fine, non lascia altra scelta se non il regolamento dei conti.

Sono rimasto sorpreso nel constatare che il Leap – le cui analisi il blog ha riportato spesso – formula come proposta centrale per uscire dalla crisi un “grande programma” di infrastrutture, di opere pubbliche. Alla faccia della novità! Siamo agli anni trenta. Come puntello provvisorio – ammesso che la crisi si riveli della stessa gravità di quella del ’29 (e io continuo a dubitarne) – si può anche ammettere una simile misura del tutto provvisoria, ma solo se si comincia a capire che, nel più lungo periodo, non si esce da una situazione critica con misure economiche, e tanto meno finanziarie, bensì con la politica a tutto campo. Si tratta di decidere: ci rassegniamo, dopo un periodo di insulsaggini buoniste “polloniane”, ad arrivare a nuovi traumatici regolamenti di conti in un mondo ridiventato policentrico? Oppure prendiamo atto che il movimento nella società è sempre conflitto tra attori, pur se a volte esso – nel periodo monocentrico appare attenuato; ma sotto sotto, le “falde tettoniche” entrano in frizione sempre crescente e accumulano la tensione che poi si scatenerà con furia distruttiva.

La politica deve agire in modo del tutto differente, prendendo il sopravvento sulla mera economia (e finanza). Se ci sono n attori in conflitto, è necessario che ognuno di essi si ingegni – dietro mera copertura della “cooperazione” – a sfruttare a proprio vantaggio le contraddizioni e conflitti tra gli altri n-1 attori. Perché se si entra consapevolmente in questa azione di “sfruttamento” delle contraddizioni altrui, è più facile che si usi l’astuzia (magari anche condita con il raggiro), ma evitando la brutalità del mezzo apertamente bellico. Se invece ci si atteggia a “Pollonio”, alla fine non resterà altro che aggredirsi senza più alcuna “morbidezza”. Ecco perché i “buoni padri di famiglia” sono il Male Assoluto del mondo, la sua rovina, coloro che innescano alla fine le peggiori tragedie collettive. Bisognerebbe ucciderli, non appena manifestino certi istinti “al bene”, fin da bambini.

Quindi le misure economiche – e dunque gli esperti e i tecnici che le coltivano – debbono essere strettamente sottomessi ai politici; ma solo se questi ultimi sono consapevoli dei guasti del buonismo. Consapevoli soprattutto che l’economia non comanda la politica nemmeno nella formazione sociale capitalistica. La superficiale sensazione diversa nasce dal fatto che, nelle epoche monocentriche, le decisioni prevalenti provengono dalla politica del paese centrale predominante (e dai gruppi in conflitto strategico al suo interno). In situazioni come queste, nelle formazioni sociali di fatto in stato di dipendenza dal paese egemone (dipendenza che conosce diverse gradazioni), i gruppi economico-finanziari (in Italia la GFeID) diventano effettivamente i “padroni” rispetto al ceto politico; ma ciò è appunto un fenomeno derivato dalla condizione di dipendenza, è dovuto al fatto che al centro viene posta la politica del paese preminente.

Dunque, intanto, sono da sculacciare coloro che cianciano del dominio mondiale delle transnazionali e di fine della funzione degli Stati nazionali (la politica nella sua massima concentrazione); questi sono dei veri manipolatori, stupidi tanto quanto “Pollonio”, pur quando usino linguaggi roboanti, ultrarivoluzionari. Inoltre, sono da controllare e reindirizzare tutti coloro (i “tecnici”) che credono ancora alla risolutività delle misure economiche tipo spesa pubblica per grandi opere infrastrutturali. Basta con Keynes! Non ha risolto alcuna crisi; è un’autentica favola ideologica che è durata fin troppo. Si può certo servirsene, con l’acqua alla gola, quando, non avendoci pensato per tempo, dobbiamo far ormai fronte all’esplosione puntuale della tensione accumulata in anni e anni di irresponsabile incomprensione del primato della politica e, soprattutto, delle strategie del conflitto a questa connesse. Bisogna però cominciare ad uscire da tale incomprensione, agire politicamente e strategicamente per favorire l’accentuarsi del multipolarismo; onde, all’interno di quest’ultimo, muoversi con astuzia (e raggiro) per favorire i propri interessi. Solo questo riconoscimento del conflitto può evitare la ferocia dello scontro bellico (o di qualcosa di simile che lo sostituisca in avvenire).

Oggi, esistono i prodromi dell’avvio al multipolarismo; e non a caso gli attori principali di questo movimento (Russia, Cina, ecc.) agiscono politicamente, sfruttando le loro potenzialità economiche al servizio della loro potenza politica in ascesa. Solo i paesi avanzati del capitalismo europeo sono nella più totale cecità, e credono di poter giocare le loro carte all’interno di una sostanziale alleanza con gli Usa, che ritarda il multipolarismo e aggrava quindi i rischi di tempestosi temporali: prima magari economici ma poi sicuramente di ben altra violenza e tragicità. Agiamo per tempo a netto favore del multipolarismo. Politica al comando: pieno riconoscimento della ineliminabilità del conflitto e delle sue strategie, sviluppate da ogni attore per sfruttare a suo vantaggio le contraddizioni tra gli altri n-1 attori; astuzia e raggiro al posto della più brutale violenza che porta ai peggiori drammi della Storia.

E’ tuttavia un discorso che merita uno sviluppo teorico di ben altra ampiezza. Volevo solo fissare alcuni paletti. E…… “uccidiamo i buoni”, questi banaloni “alla Pollonio”: sono i mostri che sorgono dal sonno della ragione. Quanto agli esperti e tecnici – da usare temporaneamente, con l’acqua alla gola, quando ormai la sragionevolezza ha “liberato” questi “mostri” – debbono essere messi al più presto “in riga”, sotto gli ordini degli strateghi del conflitto, che va riconosciuto e di cui ci si deve far pieno carico.