LA SOLVIBILITA' DEI GOVERNI di M. Tozzato

Sul Sole 24ore del 31.05.2009 c’è un articolo dello storico Niall Ferguson che interviene relativamente ad una controversia creatasi tra il medesimo e il guru degli economisti neokeynesiani: il celeberrimo premio Nobel 2008 Paul Krugman. Ferguson fa notare che da pochi giorni

<<il rendimento dei T-bond decennali del Tesoro americano […]ha superato il 3,73 %. […]Alla fine del 2008 era sceso al 2,06 %. In altre parole, i tassi a lungo termine sono saliti di 165 punti base nell’arco di cinque mesi (+81%).>>

Ferguson ricorda, a questo punto, che durante una tavola rotonda, tenutasi un mese fa, a cui aveva partecipato anche Krugman egli aveva affermato che il massiccio deficit fiscale e pubblico del 2009 – superiore al 12% del PIL – e quindi l’emissione di enormi quantità di buoni nuovi di zecca avrebbe portato al rialzo dei tassi a lungo termine. Krugman aveva obiettato che la chiave della crisi stava nel

<<forte eccesso di propensione al risparmio rispetto alla propensione all’investimento. C’è una saturazione globale del risparmio, ecco perché non c’è alcuna pressione verso l’alto dei tassi d’interesse.>>

In sostanza sembra che – mentre Krugman vuole presentare la crisi attuale come una ripetizione di quella degli anni Trenta – Ferguson tenda a riavvicinarla alla recessione del 1973-1975:

<<Il FMI prevede un calo del 2,8% del PIL americano nel 2009, e una stagnazione nel 2010. Niente a che vedere con l’inizio degli anni Trenta, quando il prodotto reale era crollato del 30%.>>

Rispetto al 1973-1975, insiste Ferguson, non si assisterà nemmeno al ridimensionamento della “globalizzazione” come era accaduto allora. La politica del presidente della Fed, Ben Bernanke, avrebbe permesso di

<<fermare una pandemia di bancarotte tra gli istituti di credito con una doppia dose di tassi a breve termine prossimi a zero e di espansione quantitativa, con un raddoppio del bilancio della Fed da settembre a oggi.>>

Ma il deficit del governo federale è massicciamente aumentato in seguito al “piano di stimolo” da 787 miliardi di dollari e ad altre consistenti voci di spesa e interventi. Gli USA non avevano un deficit di queste dimensioni dal tempo della Seconda guerra mondiale ed è sicuramente destinato ad aumentare. In maniera ironica Ferguson osserva che solo nei corsi di “macroeconomia neokeynesiana”, propinati agli studenti nelle Università americane, accade che una simile marea di obbligazioni non eserciti una “pressione al rialzo sui tassi d’interesse”. Effettivamente Krugman, di recente,  avrebbe ammesso qualcosa in maniera un po’ preoccupata:

<<L’unica cosa che potrebbe far rialzare i tassi d’interesse è che la gente dubiti della solvibilità finanziaria dei governi.>>

Certo in questo caso bisognerebbe proprio “mettersi le mani nei capelli” e cominciare a “pregare” i nostri santi protettori ma per Ferguson prima di tutto bisognerebbe prendere atto di una situazione, a suo dire, piuttosto chiara:

<<La politica fiscale americana implicherà enormi acquisti di titoli pubblici da parte della Fed quest’anno: non ci sono abbastanza acquirenti stranieri o interni per finanziare il deficit. Questa politica si chiama stampare denaro ed è quella tentata da molti governi negli anni 70 con conseguenze per l’inflazione che non serve essere storico per ricordare.>>

Naturalmente qualcuno ci potrebbe ricordare che gli ultimi dati sull’inflazione ci riportano, ad esempio in Italia, addirittura al 1969; la sottoutilizzazione della capacità produttiva mondiale, soprattutto nei settori manifatturieri, comporta una situazione di tipo deflazionistico che dovrebbe continuare nei prossimi mesi anche se da febbraio il prezzo delle principali materie prime ha ricominciato ad aumentare. Le conclusioni di Ferguson vanno nella direzione della previsione di una spinta inflazionistica, a livello globale, nel medio termine e a tale proposito ricordiamo che la stessa ipotesi è stata avanzata da La Grassa in uno dei suoi ultimi interventi nel blog. Scrive, infatti, Ferguson:

<<Negli Stati Uniti dove l’M2(1) cresce di un 9% all’anno, un valore molto al di sopra della media dagli anni Sessanta in poi, è probabile che l’espansione monetaria porti all’inflazione se non quest’anno l’anno prossimo. Gli USA hanno portato avanti una politica fiscale da guerra mondiale per combattere una recessione. In assenza di impegni credibili per porre fine al deficit strutturale cronico degli Stati Uniti, ci sarà un’ulteriore spinta al rialzo dei tassi d’interesse a dispetto della saturazione dei risparmi globali.>>

Sono diversi i politici e gli economisti che ritengono paragonabile la crisi attuale a quella esplosa nel 1929; da questo punto di vista, quindi, Krugman si trova in una compagnia più numerosa rispetto a quella di Ferguson. Personalmente ritengo tendenzialmente più affidabili gli storici rispetto agli economisti anche se riguardo a queste problematiche ci muoviamo comunque in un campo di ipotesi con strumenti teorici – quelli delle ortodossie neoclassica e neokeynesiana – probabilmente inadeguati. La questione importante di cui bisogna tener conto riguarda l’impatto micidiale che una eventuale rinnovata spinta inflazionistica avrebbe per i dominati (non-decisori) sia del lavoro dipendente che del piccolo lavoro autonomo. La grave crisi dell’economia reale con l’aumento vertiginoso della disoccupazione viene momentaneamente “curata” con l’ampliamento degli ammortizzatori sociali ma questo diventerebbe quasi improponibile con una nuova consistente ripresa della dinamica dei prezzi di tutti i beni (materie prime, beni strumentali e beni di consumo).

(1)   L’aggregato monetario M2 comprende oltre alla moneta legale e alle passività della banca centrale rispetto alle altre banche anche i conti correnti, i traveler’s cheque e altri tipi di depositi bancari e postali (da Wikipedia).

Mauro Tozzato                        31.05.2009