Le assurdità di Carlo Formenti

A volte è necessario togliersi qualche sassolino dalle scarpe, non solo per questioni personali (le quali pure hanno la loro importanza, checché se ne dica, poiché uomini e funzioni/opinioni non sono la medesima cosa ma non possono essere separati), quanto per chiarire certe posizioni intellettuali e respingere false critiche basate su meri pregiudizi ideologici. Capita, infatti, che si accusino gli altri di velleitarismo ma ricorrendo a preconcetti e convinzioni campati letteralmente in aria, ovvero fuori dalla storia e dalla realtà, per cui è impossibile ignorare la palla e non respingerla nel campo avversario.
Tempo fa, in occasione della fine di un libro per il quale cercavamo un editore, ho subito una valutazione ingenerosa da parte di un altro giornalista (purtroppo anche io ho questo difetto) il quale ha recensito la mia parte di testo trovando…improbabile e analiticamente infondato (oltre che in contrasto con la giusta prudenza…impelagarsi nella definizione di scenari futurologici in epoca di geopolitica del caos) il suo scenario russo-tedesco-italiano (che peraltro ci riserverebbe un ruolo del tutto subalterno e in contrasto con i nostri interessi nazionali). Fra l’altro, visto che il taglio del lavoro è decisamente da pamphlet più che da saggio accademico (e questo mi piace) sarebbe assai meglio, anche dal punto di vista dell’unità espositiva (Petrosillo cerca di imitare il tuo stile ma a mio avviso non ci riesce), che il libro contenesse solo i tuoi cinque scritti (sarebbe più breve ma per un pamphlet non è un problema). Infine io suggerirei una variazione di titolo: “la forza nuova”, anche per uno come me che i vecchi arnesi della sinistra accusano ogni due per tre di rossobrunismo, evoca sinistramente la nota formazione neofascista e risulterebbe depistante. Io lo chiamerei – citando un detto del testo che mi è piaciuto molto – “Tutto torna ma diverso”.

Parto dalla fine. La Grassa ha pubblicato nel 2009 un saggio intitolato “Tutto torna ma diverso”, spiace che un testo così importante non sia conosciuto, nemmeno da chi si ritiene addetto ai lavori. E’ stato edito proprio dalla Mimesis, casa editrice attorno a cui ruota, mi pare, il giornalista in questione. Consideriamo questa incompetenza una venialità sebbene i rudimenti bibliografici possano risultare necessari quando si soppesa il lavoro altrui. Peggio di questa carenza è il timore delle parole. La forza nuova rimanderebbe al neofascismo. Chissà se non abbiano avuto gli stessi scrupoli di coscienza gli ordinovisti che alla fine degli anni ’60 diedero vita ad una formazione neofascista con un nome inadeguato – l’Ordine Nuovo fu il periodico dei socialisti torinesi, fondato da Gramsci – essendosi appropriati della “nomenclatura” del nemico. Occorrerà avvertire anche i fisici del CERN i quali pare abbiano trovato una forza nuova, oltre le quattro conosciute, alla quale sarebbe opportuno non accostare simile definizione per non depistare le menti giornalistiche. Detto ciò, sono quindici anni che conosco La Grassa e ne studio il pensiero. Esserne stato influenzato è quasi una ovvietà. Piuttosto, direi che mi sono formato con le opere lagrassiane. Non ho mai cercato di scimmiottarlo sic et simpliciter perché sarebbe stato vano, in quanto persino l’impresa imitativa è da considerarsi improba per i miei mezzi. Faccio quel che posso con quello che ho. Tuttavia, rassicuro il giornalista che non c’è in quello che ho scritto nulla di imprudente, soprattutto, non c’è niente che La Grassa ritenga tale, considerato il fatto di aver ripreso proprio sue letture della situazione e ipotesi predittive, sceverate da tempo. Del resto, se fossi stato un velleitario, quest’ultimo avrebbe preso le distanze da me e mi avrebbe suggerito un lavoro separato e non condiviso, com’è invece avvenuto. Il giornalista non conosce gli studi di La Grassa e non possiamo fargliene una colpa ma sappia che se il sottoscritto è stato avventato lui è stato molto disattento.
Ora andiamo alle cose serie. Il giornalista con i piedi per terra è un comunista che si è recentemente schierato con Marco Rizzo. Con questo atto, i piedi piantati sulla dura terra dal giornalista si sono trasformati in due ali di cera. Cos’è, dunque, più improbabile, che un giorno si verifichi lo scenario russo-tedesco-italiano o l’avvento del comunismo, per giunta nella sua versione rizziana, sostenuta dal giornalista in questione? Il giornalista si è impelagato in qualcosa non di futurologico ma addirittura favolistico. Analizziamo le ragioni della sua “discesa” nell’agone politico per come le ha illustrate egli stesso. Scrive che il comunismo è una ideologia più giovane e vitale del liberalismo. Ma sul serio? Le considerazioni cronologiche lasciano il tempo che trovano e non mi sembrano utili a determinare la vitalità/validità di una ideologia. Cento anni per una teoria (da cui l’ideologia fuoriesce e si nutre) sono già tanti, figuriamoci “qualcosa in più”. Weber diceva: “Ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo dieci, venti, cinquanta anni è invecchiato. E’ questo il destino, o meglio, è questo il significato del lavoro scientifico, il quale, rispetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in senso assolutamente specifico: ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed essere ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza”. Il comunismo di Marx aveva la pretesa della scienza, pertanto sostenere che due secoli sono pochi è un’autentica sciocchezza.
Se facciamo risalire il comunismo al ‘800 ed il liberalismo agli illuministi (il giornalista sostiene che il liberalismo abbia addirittura sei secoli ma, a questo punto, potremmo farlo principiare anche dalla Magna Charta inglese del XIII secolo) parliamo di un secolo di scarto. Ora che abbiamo fatto l’esame del carbonio 14 alle due salme cosa cambia? L’argomentazione del giornalista è debole, direi quasi cadaverica. Inoltre, a poco serve sostenere che: “Chiarisco che il termine ideologia è qui inteso nel senso forte, positivo che Gramsci e Lukacs gli attribuivano: non falsa coscienza bensì l’insieme dei valori, principi, visioni del mondo, conoscenze, memorie collettive, ecc. che costituisce l’identità sociale e antropologica di una determinata classe (anche quando essa perde consapevolezza di sé dopo avere subito una dura sconfitta da parte degli avversari)”. Questa presunta “ideologia in senso forte”, qualsiasi cosa significhi, è sempre una coscienza costruita, ovvero è utilizzata positivamente per affermare la propria visione del mondo ma anche per raccontarsi che la propria interpretazione delle cose è effettuale mentre quella del nemico di classe è ineffettuale. La “falsa coscienza di classe” dei comunisti è, invece, evidentissima oggi, laddove la previsione marxiana si è rivelata errata, non essendosi formata nelle viscere del Capitale quella classe intermodale, il lavoratore collettivo cooperativo, che avrebbe riunito in sé l’intelligenza del processo produttivo, a fronte di una classe proprietaria estranea alla produzione e ridotta (anche nel numero) al rango di parassita finanziario.
Ma il giornalista insiste e scrive: “I suoi fondatori [Marx e Engels] furono troppo ottimisti nel prevederne il trionfo in tempi brevi. Oggi sappiamo che la via è lunga e difficile, costellata di avanzate e ritirate, vittorie (come quelle del 1917 in Russia e del 1949 in Cina) e sconfitte (come quella del 1989 che ha visto il crollo dell’Urss). Ma sappiano anche che, malgrado i cinque monopoli (Samir Amin) sui quali può contare il nemico di classe (sui mezzi di produzione, sulla finanza, sulle tecnologie, sulle conoscenze scientifiche, sui media), e malgrado il disastro dell’89, la via socialista ha dimostrato una poderosa capacità di resilienza, soprattutto nell’Oriente e nel Meridione del mondo, al punto che oggi, grazie ai trionfi dello stato/partito cinese, è di nuovo in grado di contendere al capitalismo occidentale il dominio mondiale, come dimostrano 1) la forsennata guerra fredda che Usa e Ue stanno scatenando contro il “pericolo giallo”, 2) la paura che li sta costringendo a riscoprire keynesismo e statalismo per recuperare il consenso delle classi subalterne, martoriate da decenni di neoliberismo e dagli effetti delle crisi che questo sistema criminale ha innescato. Ma non c’è solo la Cina: oggi l’America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia e ora il Cile che rialza la testa a mezzo secolo dal golpe di Pinochet) è di nuovo in lotta contro il neoliberalismo e gli Stati Uniti faticano a controllare il loro “cortile di casa”.
Campa cavallo che il comunista si rincresce. E’ solo questione di altro tempo, secondo il giornalista Godot che guarda ancora all’oriente e al sud del mondo, dove è pur vero che esiste una certa “resistenza” all’occidente americanocentrico, anche in virtù di un modello sociale che non si può sovrapporre al capitalismo delle nostre parti ma che di sicuro non ha nulla di socialistico. Gli ossimori, come il famigerato socialismo di mercato o di Stato, non salveranno il giornalista dalla falsa coscienza con la quale ha addobbato le sue speranze soggettive. E’ in corso una ripolarizzazione della geopolitica mondiale, in seguito al declino statunitense (in termini relativi e non assoluti), tuttavia, si tratta di uno scontro per la potenza tra aree di paesi con modelli sociali eterogenei e non una lotta a morte tra capitalismo e socialismo. Il primo non esiste più nella forma studiata da Marx ed il secondo non è mai venuto a concretezza, sempre secondo la ben nota (forse non a tutti) elaborazione marxiana.
Siccome la necessità (e non la semplice possibilità) del comunismo è definitivamente tramontata i suoi imperterriti estimatori, per riportarlo in vita dalla tomba, debbono abbondonare la scienza ed affidarsi alla religione. Per questo, sostiene il giornalista: “comunismo vuol dire dare priorità agli interessi, ai bisogni e ai valori comunitari rispetto agli interessi, ai bisogni e ai valori individuali”. Ma quando mai? Solo facendo finta che il marxismo non sia mai esistito si possono ricicciare simili cretinerie moralistiche. Nei valori non c’è nulla di oggettivo. Marx non ha mai pensato che la superiorità del comunismo rispetto al capitalismo derivasse dallo spirito comunitario dei proletari, i quali sono uomini e non extraterrestri ed hanno gli stessi pregi e difetti, qualunque sia la funzione svolta o il ruolo occupato. Marx pensava alla fine dei conflitti di classe nel comunismo (per inesistenza di classi in questo) non all’avvento di una armonia sociale completa che avrebbe reso tutti più buoni e più bravi. Lui ritiene necessario un temporaneo sacrificio individuale esclusivamente per un maggiore sviluppo del singolo : “…Non si comprende che questo sviluppo delle capacità della specie uomo, benché si compia dapprima a spese del maggior numero di individui e di tutte le classi umane, spezza infine questo antagonismo e coincide con lo sviluppo del singolo individuo, che quindi il più alto sviluppo dell’individualità viene ottenuto solo attraverso un processo storico nel quale gli individui vengono sacrificati, astrazion fatta dalla sterilità di tali considerazioni edificanti, giacchè i vantaggi della specie nel regno umano, come in quello animale o vegetale, si ottengono sempre a spese dei vantaggi degli individui, poiché questi vantaggi della specie coincidono con i vantaggi di particolari individui che in pari tempo costituiscono la forza di questi privilegiati”. Si evidenzia qui un percorso oggettivo che porta alla crescita del singolo (e dunque anche della collettività) attraverso il sacrificio del singolo e non un richiamo primitivo ai valori comunitari (di quale comunità? Di quella che meglio si adatta ai gusti del giornalista?). Quando si manda a ritrecine la scienza si scade immediatamente nel profetismo e non basta appellarsi al comunismo per riportare una metafisica sulla terra. Marx avrebbe chiamato questo approccio antiscientifico “volgare”. Volgare è, appunto, la predica che fa il giornalista con addosso il saio del frate francescano: “il diritto del consumatore si afferma a danno dei diritti del lavoratore (costretto ad accettare salari bassi e ritmi di lavoro infernali per contenere il costo delle merci). Certo il lavoratore è a sua volta consumatore, ma se accetta il punto di vista borghese viene messo contro i suoi fratelli – e contro se stesso. Senza dimenticare che, in nome dei diritti del consumatore (occidentale!) si perpetrano crimini tanto ai danni dell’ambiente, quanto dei popoli schiavizzati dei Paesi poveri. E ancora: in nome del desiderio (trasformato in diritto) individuale di avere figli delle coppie gay, si legittima l’infame pratica dell’utero in affitto che riduce donne in difficoltà a ridursi a “contenitori” di bambini (a loro volta ridotti a “prodotto”) per conto terzi. E a legittimare la mercificazione del corpo femminile è, paradossalmente, proprio il movimento femminista (o almeno la sua componente neoliberale, oggi mainstream) che, del resto, da tempo ha assunto questa prospettiva, nella misura in cui considera il corpo come una sorta di oggetto, una “proprietà” (vedi sopra) individuale”.

Fratelli e sorelle. Il linguaggio usato dal giornalista anticipa i suoi mediocri concetti, sempre a metà strada tra la carità al popolo e l’invettiva al suo nemico sfruttatore, il tutto compendiato in una escatologia la quale deve far tollerare l’ulteriore attesa della terra promessa comunista. E’ un miscuglio di preconcetti, teoresi, dogmi cose e persone nel quale predominano solo i “punti di vista” (“il lavoratore è a sua volta consumatore, ma se accetta il punto di vista borghese viene messo contro i suoi fratelli”). Il bene comune, di cui il giornalista blatera, è un miraggio laico. Marx non si è mai interessato del bene comune o dei beni comuni, questo non è il suo comunismo, è il luogocomunismo da cui sono affetti i comunisti dei giorni nostri. Il comunismo per Marx era il controllo sui mezzi di produzione da parte del General Intellect e l’appropriazione sociale del plusprodotto, la fine del lavoro salariato e dunque dell’appropriazione privata del plusvalore da parte di un gruppo ristretto. Attraverso una transizione socialistica, in cui ciascuno avrebbe ricevuto secondo il suo lavoro, si sarebbe approdati allo stadio comunistico in cui ciascuno avrebbe avuto secondo i suoi bisogni, indipendentemente dallo sforzo personale, per la sovrabbondanza di prodotti e di strumenti. Nessuna concessione, nessun afflato umanitario, nessun bene comune. Ognuno si sarebbe fatto “i fatti suoi” perché affrancato dalla necessità di procurarsi di che vivere.
Proseguiamo, “il comunismo è internazionalista” dice il giornalista. Effettivamente, Marx riteneva che il capitalismo borghese (di matrice inglese, sede classica del modo di produzione capitalistico) si sarebbe esteso inevitabilmente a tutto il pianeta o quasi (de te fabula narratur, urla Marx ai farisei tedeschi, i quali non ci credevano). Questa dinamica avrebbe messo in evidenza che lo scontro decisivo sarebbe avvenuto tra capitalisti e proletari di tutto il mondo (invitati per questo ad unirsi). La I guerra mondiale (con i proletari dalla parte dei propri gruppi dominanti nazionali), la II guerra mondiale e la patria socialista di Stalin sono stati il segnale chiarissimo che l’internazionalismo proletario non esisteva e mai avrebbe visto la luce. Vogliamo andare ancora contro la realtà armati di sani principi? Si faccia e ci si sfasci la faccia ancora una volta. Se vi piace prendere mazzate a “ritta e a manca”, dai subalterni e dai dominanti, restate su questa posizione di mezzo, luogo privilegiato per prendere colpi da chiunque e per qualsiasi motivazione. La storia insegna ma alcuni uomini non apprendono mai le sue lezioni.
Ancora, dice il giornalista che: “il comunismo non è antistatalista, ma mira a far sì che le classi subalterne si facciano stato… Contro questa visione va rivendicata la necessità di conquistare il potere, o meglio, per dirla con Gramsci, di guidare le classi subalterne a farsi stato – stato che non va abolito in quanto tale, ma del quale occorre abolire il carattere di classe.”.
Mi cascano davvero le braccia. Abolito il carattere di classe dello Stato la funzione di quest’ultimo si esaurisce ed il suo posto viene preso da un mero organo amministrativo di gestione della cosa pubblica, che non è più lo Stato. Il giornalista cita Gramsci ma non pare averlo compreso. Lo Stato per Gramsci è “egemonia corazzata di coercizione”. Se le classi sono abolite, di grazia, su cosa si esercita l’egemonia e, soprattutto, la forza coercitiva? Marx parlava di una fase di dittatura del proletariato, transeunte, in cui quest’ultimo prendeva in mano le redini dello Stato per garantire il “passaggio all’abolizione di tutte le classi e ad una società senza classi”. E’ un mero passaggio fino al risultato finale, perché non c’è Stato (le cui funzioni precipue sono l’esercizio della forza e dell’egemonia) in una società non più separata in classi.

Chi, dunque, tra noi due, caro Formenti delinea scenari assurdi?