LE FUGHE DI LATO, scritto da Giellegi, 3 giugno ‘12

1. La fine, avvenuta da tempo immemorabile, della prospettiva della rivoluzione proletaria ha lasciato tanti orfani (molti comunque già morti). La Classe che, emancipando se stessa, avrebbe emancipato tutta l’Umanità dallo sfruttamento (dell’uomo sull’uomo) si è rivelata ben poca cosa; da tempo immemorabile conduce giuste e sacrosante lotte rivendicative (salariali, del modo e ritmi di lavoro, ecc.), ma non ha avuto la capacità (direi nemmeno la pretesa) di “rovesciare l’ordine costituito”, quello della riproduzione dei rapporti detti capitalistici. Tuttavia, non sono molti ad aver pensato al perché il fondatore del “socialismo passato dall’utopia alla scienza” aveva pronosticato (previsto) una simile emancipazione, che non era minimamente fondata sul miglioramento morale dell’Uomo, ma solo sulla supposta individuazione di processi trasformativi del rapporto sociale capitalistico. Tale rapporto era considerato, in seguito a ben precise ipotesi circa la dinamica sociale, l’ultimo basato sullo “sfruttamento” (semplice estrazione di pluslavoro a chi presta lavoro e sua appropriazione da parte dei proprietari dei mezzi di produzione); ultimo, e più pericoloso e pervicace, poiché estrazione e appropriazione avvengono nella forma del valore, quindi in base alla generalizzazione della produzione di merci, comportante l’eguaglianza degli individui nel rapporto di scambio (e solo in questo rapporto).

Dei puri banaloni, pensatori senza pensiero, non hanno capito nulla di simile sfruttamento, l’hanno preso come semplice oppressione ed espressione di particolare cattiveria di perversi gruppi sociali dominanti, che hanno creduto di poter combattere mediante due comportamenti totalmente opposti, ma entrambi privi di ogni sensatezza e presa d’atto della realtà. O si è predicata la ribellione delle masse lavoratrici (salariate), magari anticipata dalla simmetrica cattiveria di presunti “salvatori dell’Umanità” capaci di uccidere e usare comunque violenza, una violenza purchessia solo distruttiva e priva della capacità di ri-costruire; oppure ci si è dati a pratiche da “frati scalzi” che portano agli uomini la “lieta novella”. E allora ecco esplodere tutte le utopie sulla solidarietà umana, sulla possibilità di convincere la stragrande maggioranza degli individui a cooperare fra loro per il bene comune, e con metodi di convinzione del tutto pacifici. Naturalmente, quando si sviluppano pratiche simili, ci sono sempre dei furboni che ne approfittano e ci guadagnano in soldi e potere. E quando si arriva al dunque, la maschera cade, pur se non è detto che sempre se ne prenda atto. Si è visto, tanto per fare un esempio, cosa hanno avuto da dire i pacifisti e non violenti di fronte al massacro della Libia e del suo leader; ma non sono ancora stati almeno spernacchiati, pur se meriterebbero di fare la stessa fine di Gheddafi.

Uno dei temi più sentiti dagli orfani della Classe (operaia ovviamente) è quello dell’ambiente. Poiché questa “maledetta” Classe non si è decisa a fare la rivoluzione salvifica, allora verrà in aiuto di tutti coloro che vogliono mutare i lupi in agnelli la “rivolta” della Natura “violentata” dall’Uomo. La società di “animali” dotati di quella che viene detta ragione (o pensiero o come lo si voglia chiamare) non può vivere in simbiosi con l’ambiente naturale, popolato da innumerevoli altri organismi viventi; lo deve per forza coartare. Del resto, se la gazzella potesse esprimere un proprio pensiero, sosterrebbe di vivere in simbiosi con il leone? E il topo nei confronti del gatto o il verme rispetto all’uccello? Ecc. ecc. La nostra società ha conosciuto e conosce, salvo rare eccezioni, un incessante mutamento dei suoi rapporti interni; e, trasformandoli, modifica le abitudini di vita e dunque pure i rapporti con il cosiddetto ambiente “naturale”. Nessuno nega che, se pensato in termini sensati e razionali, ci sia comunque un problema di sconvolgimento di tale ambiente, considerato esterno alla società pur se gran parte d’esso, trattato come a noi circostante, è in genere “umanizzato” cioè “socializzato”.

I vari gruppi sociali, in perpetuo conflitto tra loro, hanno sempre ideologizzato i temi in grado di convogliare in una data direzione i sentimenti (e l’eventuale rabbia in specifici momenti) di coloro che si trovano nel ruolo sociale di “dominati”, cioè di quelli che devono soprattutto subire le decisioni di minoranze meglio posizionate. E dire ideologizzato non significa sostenere che si tratta sempre di imbroglio, di mascheramento attuato consapevolmente e subdolamente. Alle ideologie si crede spesso fermamente, fra l’altro perché sono il modo utilizzato per dare un minimo di stabilità al campo su cui dobbiamo combattere i nostri conflitti, malgrado una delle ideologie molto in voga sia quella della cooperazione pacifica e dell’armonia e amore tra gli uomini. E’ una bella ideologia che porta a commettere le più sporche azioni con tranquilla coscienza e, per alcuni (molti), con la convinzione di andare dopo la morte in un luogo di eterna gioia.

Quelli che semmai sono in mala fede, subdoli e consapevolmente bugiardi, sono proprio quelli che cianciano di fine delle ideologie. L’ideologia è il necessario filtro della ragione: può imprimere eccessiva effervescenza al pensiero e condurre a scelte affrettate ed errate oppure placare la smania d’agire subito, favorendo l’impiego di adeguata riflessione prima di decidere. In ogni caso, lo ripeto, l’ideologia aiuta la ragione a fissare le coordinate – confuse e viste come in una nebbia oppure individuate con fasci di vivida luce – del campo in cui ci si combatte. E la lotta non è sempre insensatezza, abbrutimento; spesso è la spinta alla vita e, nella società degli individui ragionanti, al mutamento dei rapporti sociali che si ritiene (che ogni gruppo in reciproco scontro ritiene) fondamentale affinché quella data società possa esprimersi al meglio. Non esiste quindi, in sé e per sé, un problema di salvezza della Natura (cioè dell’ambiente) che imporrebbe agli uomini scelte precise e ineludibili: vera sostituzione dell’ineludibilità e inevitabilità della “lotta di classe”, della rivoluzione proletaria che avrebbe portato al potere la Classe (operaia) con le necessitate conclusioni tratte dai fedeli del comunismo per oltre un secolo.

I vari problemi, da cui scaturisce il conflitto, sono la posta dello stesso, sono gli obiettivi che i diversi gruppi in contrasto intendono conseguire; obiettivi che nascondono un interesse trasfigurato ideologicamente – a volte in buona a volte in mala fede – in Obiettivo Principe per l’avanzamento e miglioramento della Società tutta o dell’Uomo o altre “chincaglierie” simili. L’Obiettivo può essere la salvezza dell’Umanità attraverso la rivoluzione proletaria – questo è ormai un reperto archeologico – o invece, più attuale ma sbiadito e meno coinvolgente, mediante la salvaguardia dell’Ambiente Naturale. In ogni caso, si deve far credere agli individui, per incitarli “a tenzone”, che la salvezza è dietro l’angolo, che è sufficiente seguire le indicazioni di determinati gruppi “disinteressati”, solo mossi dall’intento del Bene Comune e per tutti. Com’è ben noto, quando s’insegue un Fine così Alto, è anche “lecito” ammazzare gli individui che non ne siano convinti.

2. Queste sono in genere le ideologie dei “perdenti”, dei dominati, spesso (troppo spesso) utilizzate però da gruppi dei dominanti, che dirottano sentimenti e azioni delle cosiddette “masse” verso obiettivi per essi molto profittevoli; “masse” che in genere sono gruppi minoritari, ma comunque sufficientemente numerosi per alimentare gli interessi e “profitti” (non solo economici) dei gruppi truffaldini di dominanti che si mascherano da amanti del bene generale. Vi sono però ideologie molto più specifiche dei gruppi dominanti: nella società moderna (capitalistica), si tratta in modo del tutto particolare del liberismo, delle virtù della ben nota “mano invisibile” che guida le dinamiche scambiste nel (presunto) “libero mercato”.

Dobbiamo però valutare con freddezza il problema. Se ci si attiene alla considerazione non di “leggi eterne e naturali”, ma semplicemente del comportamento di singoli individui in una società storicamente data – esattamente in quella capitalistica – la teoria delle scelte, l’“economia del Robinson”, tipica della scienza sociale dei dominanti, ha una sua validità. Non è insensato pensare che l’homo oeconomicus (quello vivente nella nostra formazione sociale) segua, in linea generale, il principio del minimo sforzo: cioè del massimo risultato possibile dati i mezzi a disposizione o del minimo impiego (risparmio) dei mezzi per ottenere un risultato prefissato. Non è assolutamente una confutazione di tale principio la banale considerazione che l’individuo può essere mosso anche da altre finalità, in certi casi (abbastanza rari malgrado le asserzioni degli ideologi imbroglioni) perfino di solidarietà o filantropia, ecc. Nemmeno si tratta di vera confutazione – ma solo di ulteriore qualificazione – la riflessione intorno ai limiti della nostra razionalità, poiché non si è in grado di conoscere e prevedere le in(de)finite variabili che entrano in gioco nei processi, la cui indagine è preliminare alle scelte dell’individuo (Robinson).

Più pesante sarebbe la presa d’atto che tali processi hanno mutevolezza continua, una mutevolezza che non riguarda tanto il numero (indefinito) di variabili da valutare quanto il sistema delle loro relazioni, implicante compenetrazione tra le stesse per cui, di fatto, la loro distinzione, necessaria a costruire “strutture” di rapporti, dipende dal particolare modo di procedere del nostro pensiero, sempre in vista dell’azione (conflittuale) da condurre in un campo il più solido e stabilizzato possibile. Quanto appena detto ci conduce fuori dall’ambito del singolo individuo e delle sue scelte in base al minimo sforzo. Insisto però che tale principio non è falso, semplicemente non è al vertice dei concetti decisivi nello spiegare l’andamento dei fenomeni sociali, ivi compresi quelli più strettamente economici. Il principio del minimo mezzo, come ho messo più volte in evidenza, è solo uno strumento nell’azione strategica che regge il conflitto tra individui e gruppi di individui, variamente “strutturati” nel corso dell’evoluzione storica della società e del pensiero intorno alla stessa, un pensiero che costruisce sia teorie che ideologie al fine di rappresentarsela e di combattere i conflitti durante l’evoluzione in oggetto.

 Quindi, l’errore (ideologico) del liberismo consiste nella sua enfasi sulla libera azione dell’individuo nell’attività produttiva e di scambio che, pur diretta al personale vantaggio, farebbe conseguire anche il massimo benessere comune alla società vista come somma di individui e non quale intreccio interattivo di rapporti tra di essi in base a date posizioni (ruoli e funzioni) occupate nel sistema complessivo. Un tentativo di migliorare l’intendimento delle azioni di tipo economico in quest’ultimo fu l’analisi che prese le mosse dalla critica serrata alla “legge” (degli sbocchi) di Say, di fatto alla base dell’utilitarismo della scuola neoclassica. Tale legge afferma che l’offerta (di merci prima prodotte) crea la sua propria domanda, per cui non sono normalmente previste crisi economiche, dovute soltanto ad imperfezioni nelle istituzioni e/o nel comportamento degli individui.

Non entro adesso nello specifico della critica, semmai oggetto di ulteriore “puntata”; l’importante è che fu messo in luce come il sistema non raggiunge automaticamente l’equilibrio in posizione di piena occupazione di tutti i fattori produttivi, mentre il liberista, ancora oggi, continua a pensare che è solo l’intervento di elementi “esterni” – primo fra tutti quell’intrigante dello Stato, la cui attività, qualora troppo esuberante, ostacola il libero esplicarsi delle leggi del mercato – a provocare le crisi impedendo il conseguimento di tale risultato benefico. In linea generale, si continua a blaterare intorno al più bieco economicismo. E sempre fuggendo di lato di fronte ai problemi centrali, che sono invece politici. Ci si accapiglia, certamente, ci si critica reciprocamente anche con veemente asprezza e, tuttavia, si svicola appunto non appena ci si trova di fronte alla questione decisiva. La crisi scoppiata nel 2008, e che continua imperterrita, è molto istruttiva.

Alcuni hanno subito enfatizzato i problemi finanziari e il controllo della moneta, sostenendo ancora una volta tesi che non sono tutte sbagliate o che non sono del tutto sbagliate. Si tratta però sempre di quelle “mezze verità” che in definitiva confluiscono in frequenti falsità; nel senso preciso che la “metà rivelata” è quella più superficiale ed occulta l’altra metà. In genere chi parla della “mezza verità” immagina, per analogia, una realtà spaziale spaccata o tagliata in due. Oppure si potrebbe fare l’esempio della Luna, che mostra solo una faccia e nasconde l’altra. Non mi sembra l’esempio migliore, perché comunque si ha consapevolezza della faccia nascosta; non la si è conosciuta per migliaia d’anni, ma ciò stimolava l’immaginazione, la fantasia. Rappresentiamoci invece una sfera, che gli ideologi dei dominanti assicurano essere cava all’interno, senza nessun nocciolo. Esisterebbe solo la corteccia esterna, essi dicono; e alcuni la dotano di maggiore, altri di minore spessore, ma sempre asserendo che l’interno è vuoto. Gli ideologi giurano su questo e ci invitano a conoscere l’intera superficie della sfera, anche magari quei pochi cm. o metri di spessore della corteccia; ma ci garantiscono che è senza nocciolo, che esiste una grande caverna vuota, priva di effetti sulla corteccia.

3. Oggi chi ci governa, e i partiti e i giornali che di fatto lo sostengono, terrorizza tutti con l’insopportabilità del debito (pubblico), che non è di fatto molto inferiore negli Usa, dove non ne sono troppo terrorizzati. Il primo obiettivo, se vogliamo sopravvivere, sarebbe – secondo questi sciamannati – diminuire drasticamente il debito. Il rigore dovrebbe essere tassativo poiché solo così si avrà, in seguito (un seguito molto incerto e mai precisato neanche di una virgola), la crescita. I critici (di sistema), in fondo, assentono a tale tesi, ma fanno presente che si devono tagliare le spese (in specie dell’amministrazione statale) – gonfiate durante la “vergognosa prima Repubblica” (sto sempre esponendo tesi altrui) dove tutti i partiti, per clientelismo elettorale, si erano dati a spese pubbliche pazze, ad assunzioni senza criterio nel settore pubblico – e non caricare cittadini e imprese di imposte, che abbattono la capacità di spesa e dunque di consumi e investimenti (la domanda complessiva), aggravando la crisi. Tutto sommato, c’è un barlume di verità (la famosa “metà”) in certe affermazioni, ma annegato in un mare di autentica malafede; perché, in definitiva, anche questi critici poi strillano sulla crisi delle borse, sullo spread, mentre della crisi reale prendono in considerazione (anzi prendevano perché adesso questa “moda” è terminata) i suicidi imprenditoriali che, finalmente lo si è messo in luce, si sono accresciuti di poco rispetto al periodo pre-crisi.

Ci sono però quelli che vanno “più a fondo” (detto ironicamente). La crisi è soprattutto morale, è la perdita dell’etica negli affari. E’ ben strano l’atteggiamento di costoro: sostengono che gli imprenditori si suicidano perché vergognosi del fallimento – anzi addirittura alcuni, evidentemente datisi all’imprenditoria per elargire beneficenza, si ammazzano perché costretti a licenziare i loro impiegati e operai – e poi si strappano i capelli per l’avvento di un’epoca priva di scrupoli. Vi sono però altri (presunti) critici che dividono il capitalismo in due parti: quella delle grandi imprese, pessima, e quella dei piccoli o medi imprenditori, il vero nerbo del paese. Altri preferiscono urlare contro la finanza – del resto nettamente dominata dalle grandi imprese – che rappresenterebbe la parte marcia della “mela” capitalistica. Alcuni si spendono nell’intuire i complotti delle massonerie finanziarie internazionali (che certamente esistono, ci mancherebbe altro che non esistessero); se poi, come quasi sempre accade quando si tratta di finanzieri, c’è qualche ebreo fra loro, il gioco è fatto, si torna a Süss l’ebreo (di Veit Harlan, 1940), film cardine del razzismo nazista.

Altra critica è quella di aver creato la Banca Centrale Europea e l’area della moneta unica (euro) senza che esistesse un Governo centrale in uno Stato, magari pure federale; per cui la costruzione europea è monca. Si potrebbe continuare ancora a lungo ad elencare i motivi addotti per la crisi. Sopra a tutto, comunque, sta la visione d’essa come soprattutto finanziaria, dovuta alla crescita enorme del debito pubblico, o anche ai titoli spazzatura emessi, all’ingordigia di profitti puramente finanziari, addirittura alle mene di banchieri imbroglioni, ecc. Non c’è alcun motivo addotto che sia completamente falso; solo che si tratta di effetti e non di cause, in ogni caso di fenomeni accompagnatori di ogni crisi. Il problema centrale è sempre quello delle mezze verità; anzi molto spesso dei quarti di verità. Si cerca di tutto pur di sfuggire al nodo centrale.

Quando si evidenziano soltanto i motivi non irreali, ma accessori, della crisi, anche le soluzioni ne risentono. O si propone una più severa regolamentazione dell’attività finanziaria (e pene più dure), o si vorrebbe spingere in direzione di una più accelerata costruzione europea, proclamando magari di “Stati Generali d’Europa” senza nemmeno il senso del ridicolo di certe proposte fuori tempo. Altri (o magari gli stessi) vorrebbero creare titoli di un debito pubblico europeo, accrescendo i poteri della Banca Centrale; e non so quanti altri progetti sono in ballo. S’incolpa l’euro, che di colpe ne ha in effetti a iosa per come lo si è adottato, pur se temo che la soluzione non sia, nella sua essenza, né l’insistere a restare nell’eurozona né il volerla mandare per aria. Quanto meno, se la si deve mandare all’aria, sarebbe opportuna una qualche consapevolezza dei motivi di fondo, politici, per cui si deve lottare contro l’Unione Europea; non soltanto contro l’eurozona, ma proprio contro la UE e i suoi organismi di semplice asservimento agli Stati Uniti in allineamento con l’alleanza militare (Nato).

Sensata la proposta di non enfatizzare in modo maniacale – e per motivi truffaldini di inganno delle popolazioni da spaventare per meglio governarle – la questione del debito pubblico. Dovrebbe ormai essere sotto gli occhi di tutti, lasciando perdere i “suicidi dei piccoli imprenditori”, che la crisi è reale, non semplicemente finanziaria. Fa parte dell’immaginario della grande crisi del ’29 il racconto di sciami di finanzieri che si gettavano dai grattacieli di New York; la vera immagine di quella crisi è invece la visione di lunghe code di nullatenenti con le gavette in mano in fila a prendere un pasto nei vari centri all’uopo creati, e moltiplicatisi soprattutto nel ’32; il ’33 – anno di insediamento di Roosevelt – fu l’anno peggiore con circa 15 milioni di disoccupati e il Pil di un terzo inferiore a quello di prima del big crash del ’29, ecc. Venne varato il New Deal, una serie di misure il cui effetto sembrò risolutivo per un paio d’anni e poi s’affievolì di molto; e fu la guerra a risolvere definitivamente la crisi. Comunque, non è di questo che parliamo adesso; l’importante è capire che sempre, in ogni crisi (anche nel 1907), s’inizia con il crack finanziario, ma l’aspetto reale è quello decisivo e non viene risolto con misure di carattere esclusivamente economico. Ne riparleremo in altra sede.

4. La più ridicola ed evanescente delle proposte, formulata in questo paese allo sbando, è quella di una “profonda” riforma istituzionale: il “semipresidenzialismo” (già in dotazione della Francia) più vari marchingegni per controllare la relazione (quantitativa) tra eletti ed elettori, in modo da meglio garantire la sedicente governabilità, cioè per migliorare l’imbroglio rappresentato da questa “democrazia” in cui fra qualche anno, come negli Stati Uniti, l’elettorato effettivo potrebbe ridursi alla metà circa di quello avente diritto. E’ ovvio che solo dalla testa del “poer nano” poteva uscire una simile trovata, la più misera ed evanescente fra tutte. Qui non siamo nemmeno alla mezza verità (o ad un quarto), siamo all’imbroglio del biscazziere, ovviamente seguito da uno stuolo di giornalisti servili.

Se proprio piace, si può continuare ad inseguire le diverse ipotesi sui “fatti” e le svariate proposte uscite a getto continuo dal cervello di tecnici, alcuni veri e altri improvvisati, per la soluzione dei problemi insorti (e non è detto che i secondi siano i peggiori nel formulare ipotesi e proposte). Temo che non faremo altro, in ogni caso, che attenerci alle “mezze verità”, a quel “bianco” o invece “nero” che presentano aspetti di individuazione parziale dei processi in corso, nascondendo tuttavia il loro lato essenziale. Si dovrebbe invece andare a quest’ultimo proprio come primo passo, preliminare ad ogni altro. Un’ulteriore avvertenza. Come detto non so quante volte, è necessario distinguere i portatori soggettivi dei fenomeni dalle cause oggettive degli stessi. Nessun individuo è in grado di far tacere le passioni che lo spingono talvolta ad aspra denuncia o a convinto appoggio nei confronti dei primi, alla manifestazione di una decisa antipatia o simpatia nei loro confronti. Del resto, senza tali portatori i vari eventi non hanno alcuna possibilità di manifestarsi; quindi è ovvio criticarli o difenderli, caricarli di colpe o di meriti più o meno pesanti, per il verificarsi degli eventi in questione. La lotta non si conduce usando continuamente il “si” impersonale né attribuendo al Destino o al Caso il prodursi di ciò che ci impressiona negativamente o positivamente.

Tuttavia, se questo è il normale manifestarsi del conflitto – e dunque anche della solidarietà o cooperazione nei casi in cui queste siano il mezzo per meglio destreggiarsi nelle vicende in cui siamo coinvolti – dobbiamo essere ben consapevoli che diverso è l’atteggiamento da tenersi nell’individuazione di quanto innesca oggettivamente, e spesso inevitabilmente, certi specifici svolgimenti. Per quanto riguarda la crisi in corso (dal 2008) è bene distinguere gli aspetti più superficiali dai motivi più profondi ed essenziali. Certamente, già nell’evidenziazione delle motivazioni “di superficie” ritengo gravemente dannoso il nascondimento, spesso fatto da imbroglioni al servizio dei gruppi dominanti, del suo lato reale (produttivo) puntando i riflettori solo sul lato del “palcoscenico” in cui si muovono le “maschere” della finanza. Comunque è tutto l’aspetto economico – che colpisce senz’altro per la sua gravità così come in un terremoto impressiona il crollo degli edifici e il travolgimento degli individui – ad esser quello “di superficie”. E’ necessario affrontare il nodo essenziale, l’urto tra gli strati rocciosi sotterranei, posti in profondità.

Siamo nuovamente – poiché non è certo la prima volta che accade – in una fase storica di crescente s-regolazione del sistema sociale complessivo (mondiale) e, in particolare, di quello composto dalle (inter)relazioni tra i più importanti sistemi parziali (le singole formazioni sociali particolari) del sistema globale. Detta s-regolazione dipende dalla fine, irreversibile, del mondo bipolare – a suo modo dotato di equilibrio (instabile) nell’antagonismo reciproco di due parti fondamentali contrapposte – cui seguì solo apparentemente una regolazione centrale (pur relativa) da parte dell’unica formazione predominante rimasta in campo (gli Stati Uniti). In realtà, si è manifestata assai presto, non oltre il decennio, l’incapacità di tale formazione di funzionare da centro regolatore (ricordo sempre: solo relativo). Ed è ricominciata la crisi complessiva, che ci accompagnerà a lungo, per anni.

Ciò non significherà l’assenza di un qualsiasi sviluppo (che implica trasformazioni interne al sistema complessivo), e nemmeno una decrescita continua; semplicemente il trend generale sarà di tipo fondamentalmente stagnazionista e vedrà inoltre molti ribaltamenti nei rapporti di forza tra formazioni particolari. Dirò di più: vedremo una dissociazione crescente tra l’andamento di questi rapporti di forza per quanto riguarda il loro lato più propriamente economico e quello politico. Anche di questo fatto dovremo parlare in futuro perché è un problema mai posto dagli economicisti (sia apologeti che critici dell’attuale società), i quali si fermano appunto al dato della crescita (anche i decrescisti non vanno oltre questo punto di vista, sono solo il rovescio della medaglia) e talvolta addirittura al solo fenomeno finanziario inseguendo debito pubblico, crisi delle borse valori, interessi sui titoli, differenziazione tra questi interessi, ecc. in un’orgia di futilità tali da perdere di vista il contenuto sostanziale della crisi.

5. Nessuno nega che i portatori soggettivi si debbano impegnare nelle varie misure di superficie nel tentativo di rispondere alla fiducia – oggi, direi, crescente sfiducia – delle popolazioni soggette alle loro manovre dotate di potestà pressoché assoluta, malgrado in certi paesi questa sia grottescamente mascherata dalle “libere elezioni democratiche”, che tutto esprimono salvo la “volontà dei popoli” (mera astrazione ideologizzante di comodo). Qualcosa si deve pur fare, chi ha assunto ruolo e funzioni dirigenti non può esimersi dall’agire, dal fingere che ha il controllo della situazione. Quando ci fu la grande crisi anni ’30 negli Usa, alla fine vennero l’Amministrazione Roosevelt e il New Deal; fondato comunque su opere pubbliche, sussidi di disoccupazione e altre misure varie assunte in deficit spending, e non certo con una serie imponente e assurda di imposte perché maniacalmente fissati sul “pareggio di bilancio”; quel lontano comportamento trovò subito dopo la brillante e raffinata elaborazione (e giustificazione) teorica nell’opera di Keynes, rimasta per decenni ad orientare il mondo accademico e la politica economica dei governi “occidentali”.

Il nazismo si orientò di fatto nello stesso senso, e ha poca rilevanza che si obietti circa le sue spese prevalentemente militari (affermazione in buona parte superficiale e propagandistica, divenuta senso comune in seguito alla sconfitta della Germania poiché i vincitori riscrivono la storia a modo loro). Del resto, le spese militari furono quelle che risolsero veramente e in radice la crisi, pur se non proprio nel senso indicato da molti autori, anche alcuni di orientamento keynesian-marxista tipo Baran e Sweezy. A quell’epoca negli Usa, dopo un paio d’anni di sollievo legato ai palliativi messi in atto dal New Deal, la crisi riprese (e quel po’ di crescita fu stentata e incerta, il che comportò, fra l’altro, l’estensione del keynesismo al lungo periodo con le teorie stagnazioniste alla Alvin Hansen). La netta fuoriuscita da essa si ebbe con la seconda guerra mondiale (che di spese militari ne ha un bel po’ richieste) e la conquista della posizione di centro predominante, e quindi relativamente regolatore, dell’intero campo capitalistico “occidentale” da parte degli Stati Uniti.

Oggi ci troviamo in una situazione che presenta analogie (con differenze comunque da valutare) con quella di fine secolo XIX, fase d’inizio del multipolarismo sfociato poi in aperto policentrismo (detto imperialismo), fase che si chiuse appunto con il regolamento generale dei conti nel 1939-45. Come già detto, nulla di strano nel comportamento odierno dei portatori soggettivi che non possono non agitarsi nel tentativo di trovare soluzioni alla crisi in corso, quanto meno per alleviarla. Strano sembra invece quello degli analisti, di coloro che dovrebbero invece adoperarsi ad interpretare l’oggettività degli eventi critici in fase di accentuazione. Gli agenti soggettivi, in fondo, sanno di mentire quando organizzano riunioni tipo i vari G (7, 8, 20 o più) poiché, in definitiva, ormai si riuniscono con l’intento di prendere decisioni da cui emergano soluzioni meno sfavorevoli ad ognuno di essi; con la precisazione che, per quanto riguarda gli agenti europei, ognuno punta a battere gli altri nell’essere considerato dagli Stati Uniti partner privilegiato.

Quanto agli analisti, pur essi, nella nostra area “occidentale”, sono in gara per farsi considerare i migliori corifei dei predominanti statunitensi. Raccontano quindi le “mezze verità”, dicono chi bianco e chi nero, sapendo che ogni loro “bella trovata” – essendo “parzialmente vera”, cioè riguardando uno dei vari lati del problema “complesso” (la complessità scusa sempre tutti dal prendere cantonate) – troverà suoi seguaci e adepti. Lasciamo dunque i “tecnici”, gli “specialisti”, gli ignoranti che s’improvvisano sapienti (tanto non dicono fesserie maggiori degli altri), sciorinare tutte le loro ciance; non sempre, del resto, completamente inutili poiché servono comunque a illuminare un aspetto del “terremoto” in corso. E’ però indispensabile essere consapevoli dell’inevitabilità di questa crisi, poiché essa deriva dal nuovo inizio del multipolarismo. Che si debba attraversarla è certo, che ricomincerà a breve una nuova epoca delle “vacche grasse” è una sciocca utopia.

Ci si deve concentrare sulle somiglianze, ma anche sulle nette differenze tra questo avvio del nuovo multipolarismo e il precedente di ben oltre un secolo fa. E’ necessario analizzare la nuova configurazione dei rapporti di forza tra formazioni particolari (paesi; e paesi altri rispetto a quelli di allora) nel confronto che si va aprendo con i continui compromessi, giravolte, inganni, sorrisi davanti e coltellate dietro, ecc., comportamento precipuo dei gruppi dominanti in quanto agenti soggettivi nella “complessa” situazione creatasi con il nuovo secolo. Importante è però anche meglio comprendere la “struttura” dei rapporti sociali nella formazione (generale) che continuiamo a definire capitalistica ed è tuttavia molto differente da quella di un tempo.

Questo mi sembra il nostro compito principale. Il resto appartiene al “giornalismo”, all’intervento immediato nella superficialità del “terremoto” in corso, di cui viene lasciata cadere la causa profonda, il “sommovimento nelle viscere della terra”. Di “giornalisti” – che si passano spesso per scienziati o almeno per tecnici e specialisti d’alto valore – ne abbiamo molti; e ognuno d’essi dice la sua “mezza verità”, afferra uno dei corni del dilemma (che è molto più di un dilemma). Quanto meno, dedichiamoci anche ad altro oltre al “giorno per giorno”; utile senz’altro per accumulare materiale grezzo, “empirico”, che deve però essere poi elaborato. Altrimenti, ci si attiene ai “fatti”, credendo che essi ci si presentino davanti nella loro semplice e indiscussa realtà; con simili ingenue convinzioni si contribuisce soltanto a quella “complessità”, tanto cara ai “sapienti dell’ultima ora”, e produttrice invece di tanto rumore e nessuna effettiva informazione. Informare significa, infatti, dare forma ai “fatti”, modellarli secondo un punto di vista, una griglia interpretativa, ancora in gran parte da costruire.