L'incompiuta

Se il gruppo dirigente della sinistra, opportunamente imbeccato e influenzato dalle straconosciute lobby giornalistico-editoriali e da potentati sempre più insoddisfatti, continua a dare sfogo, come un'orda, tra fibrillazioni e convulsioni, ai propri istinti antiberlusconiani e ad avviarsi in unanime discordia verso la nullità politica, nella destra, ma solo nei suoi giornali, la discussione appare più aperta e dagli esiti incerti. A sostegno degli autorevoli difensori del Cavaliere, visibilmente impacciati dall'imbarazzo provocato dalle sue svolte repentine, è tornata a dare man forte una folta schiera interessata di transfughi, assai lesti a rientrare tra le fila dei sostenitori del rapporto di vassallaggio atlantico, sia nella versione filo che in quella antieuropeista. A questa infiltrazione, aggressiva e massiccia, ha corrisposto l'elegante defilarsi, in attesa di tempi migliori, di alcuni giornalisti verso lidi e argomenti tanto importanti e nobili quanto innocui, rispetto al dibattito politico corrente, nonché la discesa in campo di pochissime penne armate di critica, sia pure costruttiva, verso le scelte di Berlusconi.

Di queste ultime fanno parte Davide Giacalone e Fabrizio Rondolino.

Nei loro articoli di domenica 8 maggio, il primo, sul “frullato costituzionale”, sentenzia la fine della Seconda Repubblica, la cui crisi è legata alla divaricazione sempre più accentuata tra costituzione materiale e legale entro cui si inseriscono i vari attori, tra questi il Presidente della Repubblica, sino a ieri strenuo difensore dei dettami della Legge, provocando cronici e distruttivi conflitti istituzionali; il secondo, nell'articolo “si morirà democristiani”, intravede ormai l'eclisse del progetto berlusconiano, a prescindere dal destino del Governo e l'affermazione di un nuovo regime democristiano dedito alla pura sopravvivenza nello “statu quo”. L'ultima chance riformatrice potrebbe realizzarsi, a detta di Rondolino, solo con un sussulto di “riforme liberali (tasse, liberalizzazioni, giustizia)” da parte di un ormai improbabile Berlusconi “ante litteram”. Pur apprezzando, in questi tempi di conformismo ipocrita e abbietto, lo sforzo critico, non mi pare che i due riescano a centrare, sia pure approssimativamente, i nessi causali in grado di spiegare l'attuale vistoso degrado.

I conflitti istituzionali, più che la causa, sono l'effetto della incapacità più che decennale delle forze maggioritarie asservite al paese dominante e/o di quelle parassitarie di costruire una forza politica minimamente presentabile e in grado di assemblare, con un minimo di dinamismo, un blocco subalterno ma non dedito esclusivamente alla difesa delle prerogative corporative dei singoli gruppi e all'ossequio servile alla casa madre. Tale incapacità, abbinata alla presenza di legami tentacolari e parzialmente autonomi tra di essi, consolidati, ormai, da decenni di rapporti e processi di integrazione tra particolari gangli dello stato e della società italiana e gli equivalenti dei paesi più potenti, ha costretto settori di istituzioni preposte ad altre funzioni, come la magistratura e i servizi, a protrarre, con le proprie armi, la battaglia politica straordinaria avviata venti anni fa. A fare da contraltare, la speculare incapacità della componente alternativa di consolidare e allargare le proprie posizioni, al di là di ristretti ambiti manageriali della grande industria pubblica in primo luogo e della imprenditoria privata medio-piccola e di alcune categorie professionali in secondo luogo, sino alla creazione degli indispensabili addentellati con i fondamentali apparati dello stato. Ha ragione Rondolino a parlare, quindi, di regime democristiano, ma sbaglia clamorosamente a parlare di restaurazione, semplicemente perché il regime ha traballato ma non è mai caduto; basta non identificare potere e governo, sovranità e sistema elettorale e parlamentare, come ben argomentato da Poulantzas trenta anni fa e l'equivoco si dissolve.

Il problema e la sfortuna dell'Italia, paradossalmente, a differenza della Germania, è stata la caduta del Muro di Berlino.

Negli anni precedenti la caduta, troppo pochi, meno di dieci, stava progredendo un processo di relativa emancipazione da servitù ossequiente ad alleanza con relativi spazi di autonomia rispetto all'establishment americano. L'industria pubblica, con i suoi addentellati recenti nella componente craxiana e storici in quella democristiana, stava avviando un processo di riorganizzazione teso alla liquidazione dei settori ultramaturi e decotti (tessile da ENI, la GEPI), alla concentrazione delle attività strategiche, disperse in vari gruppi e tra loro conflittuali, in ENI (energia, chimica) e in Finmeccanica (aereonautica, elettronica, spaziale, trasporto pesante, cantieristica, industria militare); gli stessi rapporti con la grande industria privata, in pratica FIAT, Pirelli e poco altro, segnavano qualche mutamento con l'apparizione di figure manageriali come Ghidella e altri. Parallelamente si stava consolidando un processo di parziale rifondazione degli apparati militari e di polizia (carabinieri) e una politica estera mediterranea più sensibile alle istanze dei regimi nazionalisti arabi. La presenza dell'URSS, tra l'altro, impediva al PCI l'attraversamento definitivo del guado verso la totale esplicita adesione atlantica con il conseguente isolamento del partito nel recinto della “diversità etica”, delle terze vie, dell'eurocomunismo e così via, riuscendo, in questo modo, a condizionare sì numericamente Craxi ma a garantirgli, involontariamente, margini di iniziativa e contrattazione maggiori rispetto alla forza reale del Partito Socialista. L'acceso americanismo e il viscerale antisovietismo impedirono a Craxi, tutto preso da una visione politicista dell'attività, la saldatura o, quantomeno, una possibile collaborazione con i miglioristi del PCI, limitando il campo d'azione e im
pedendo quel salto verso il partito di massa che avrebbero consentito ben altro respiro e prospettive.

Come ai tempi di Mattei, la reazione sarebbe, probabilmente, comunque sopraggiunta, ma in presenza del contesto geopolitico bipolare, avrebbe comportato dei costi molto più gravosi e un esito più incerto rispetto a quello conseguito con “Tangentopoli”, la crisi finanziaria del '93 e i governi Amato-Ciampi-Prodi.

Si è trattato, comunque, di un processo, quello pre '89, fragile e contraddittorio, dai molteplici lati oscuri legati soprattutto al compromesso sulla spesa pubblica, in particolare quella parassitaria, lievitata ulteriormente in quegli anni.

Sta di fatto che l' '89, sconvolge la collocazione strategica dell'Italia, offre ad americani e PCI margini di iniziativa improvvisi e inediti, modifica in peggio il tipo di relazioni gerarchiche tessute dal paese dominante impegnato a disporre di quanti più tasselli possibili utili a impedire l'emergere di nuove potenze (Russia, Germania) e imporre una egemonia in un mondo appiattito con poche gerarchie intermedie.

I dieci anni successivi sono stati cruciali nel rendere ancora più melmoso il fondale dell'acquitrino in cui ci troviamo a nuotare; distratti dalla vivacità delle increspature di superficie, tanto appariscenti quanto ingannevoli e vanesie, pochi hanno colto le correnti sotterranee che stavano ricostituendo tutte le condizioni più degradanti di vassallaggio. La liquidazione di buona parte della grande industria, le privatizzazioni condotte, con poche eccezioni, in modo tale da accentuare il carattere parassitario e retrogrado dell'imprenditoria e da spingere alla vendita delle poche industrie strategiche a capitale privato, i meccanismi di gestione della spesa pubblica rimasti praticamente intatti, come intatti sono rimasti gli interessi corporativi e parassitari, sino a traviare gli stessi processi di informatizzazione e riorganizzazione, gestiti per il mantenimento di quei gruppi piuttosto che diventare opportunità e strumenti di scomposizione, la stessa modalità di gestione dell'ingresso nell'euro sono stati atti che non hanno spinto solo ad una semplice restaurazione democristiana. Il poco sopravvissuto delle stesse attività strategiche è pesantemente condizionato dalla presenza interna dei fondi anglo-americani (ENI, Finmeccanica, Telecom) nefasta sia per la loro influenza politica diretta, sia per la loro propensione speculativa all'estrazione di alti profitti immediati a scapito degli investimenti, dalla esposizione preponderante nei mercati angloamericani pesantemente controllati (Finmeccanica). Non mantenimento, quindi, dello statu quo ante di stampo democristiano, come paventa Rondolino, impossibile però in un mondo in subbuglio, ma una fibrillazione retriva tipica della scenografia democristiana, ma senza le sue solide basi sociali; una riproposizione, quindi, su basi nuove e nettamente peggiorative e degradanti della condizione del paese. Sono tutte condizioni che hanno ulteriormente ingarbugliato la situazione, definito progressivamente in peggio lo schieramento di centrosinistra e reso un ibrido composito praticamente ingestibile, nella sua componente dinamica, lo schieramento di centrodestra capeggiato da Berlusconi.

Se, infatti, è vero che in privato il Cavaliere aveva più volte preconizzato, sin da metà degli anni '90, una politica internazionale rivolta alla Russia e al Nord-Africa, è anche vero che lo stesso, sino ai primi anni del nuovo secolo, aveva gestito la politica estera a stretto fianco della potenza americana e in polemica con i sussulti autonomisti di Francia e altri paesi, staccando decisamente i destini dell'industria aereonautica, militare ed elettronica pubblica di Finmeccanica da quelli delle analoghe industrie franco-tedesche e legandoli maggiormente a quelli angloamericani.

Lo stesso quinquennio di “dignità nazionale” iniziato nel 2002 ha comunque visto una giustapposizione, quasi un tentativo di compensazione tra una diplomazia politico-militare strettamente filoamericana e una strategia politico-economica autonoma verso Russia, Turchia e Nord-Africa, spesso in contrasto sotterraneo con gli americani.

Il prosieguo contraddittorio ha condotto all'attuale indecoroso riflusso, pur con tutte le attenuanti legate al logorante scontro politico interno, con una sinistra sbandata e fellona e l'aperta ostilità di gran parte delle istituzioni e al riflusso dei potenziali paesi emergenti. Proprio il colore assunto da questo riflusso ha evidenziato il carattere eterogeneo del centrodestra. Non si riesce a comprendere, quindi, come le riforme liberali possano, loro e per di più da sole, essere la chiave di volta per frenare la restaurazione, come sostiene Rondolino. Il contesto internazionale, in tanto, richiederebbe un sussulto di dignità nazionale e soprattutto una strategia e una tattica adeguata. L'establishment di Obama ha ormai abbandonato lo stereotipo del conflitto di civiltà, la contrapposizione verticale e l'utilizzo del solo scontro frontale e massiccio nelle sue strategie geopolitiche; cerca di creare e manovrare le contraddizioni a più livelli, comprese le pulsioni con
fessionali e “democratiche”, di costituire nel pianeta gerarchie più articolate dove
trovano qualche spazio, in posizione subalterna, le altre potenze di secondo e terzo rango, di consolidare ed allargare le proprie posizioni e destabilizzare e controllare anche parzialmente il “limes” dell'impero e i territori estranei, con la costante, rispetto alle precedenti presidenze, della politica di destabilizzazione ed isolamento della Russia, come la reiterata esclusione dal WTO e quella ventilata dal G8, la revoca di partenariati nella tecnologia militare lasciano intravedere. In questo disegno, il ruolo dell'Italia appare quello di semplice braccio esecutore, stupidamente masochistico se non di vero e proprio terreno di conquista di potenze di primo e secondo rango occidentali.

Diventa, quindi, prioritaria una politica nazionale di ricostruzione di diverse istituzioni statali, di difesa e potenziamento dell'industria e delle attività strategiche, quindi di investimenti e riorganizzazione, di asservimento degli strumenti finanziari alle scelte politico-strategiche. Una politica di provvedimenti liberali, i quali, per Rondolino, significano soprattutto liberalizzazioni e privatizzazioni, sono di second'ordine, circoscritte nel migliore dei casi in ambiti ristretti e ben delimitati e precisati nei termini, tesi allo scompaginamento di un blocco sociale e alla costituzione di uno nuovo più dinamico e legato agli interessi nazionali. I disastri delle politiche di privatizzazione e dismissione di fine secolo e le attuali pressioni di FMI, Commissione Europea e quant'altri dovrebbero indurre ad un minimo di analisi critica e un massimo di cautela nel varo di provvedimenti, tanto più che gli interventi più sponsorizzati riguardano le reti uniche insostituibili (energia, trasporto ferroviario, forniture idriche) dove più problematica è l'instaurazione di un regime di concorrenza e più facile la garanzia di rendite parassitarie e politiche predatorie concomitanti con la disarticolazione di industrie strategiche. Gli stessi interventi nelle categorie professionali, se non regolamentati a dovere, potrebbero addirittura rafforzare gli interessi corporativi fine a se stessi ed in cerca di alleanze di stampo compradore. Pur con le migliori intenzioni, la visione liberale tende a ridurre le scelte politiche ad una ottica economicista, quindi a giocare in un campo in cui le regole sono decise da altri più potenti e dove i più potenti, in veste di arbitri-giocatori, possono decidere proditoriamente di violarle o cambiarle secondo convenienza e a indirizzare, queste scelte, in ambiti comunque secondari. Sia la previsione di un ritorno allo “statu quo ante” sia la soluzione liberale ai problemi sono fuorvianti, tanto più in un mondo non più ingessato dal bipolarismo e in bilico tra una nuova forma improbabile di monocentrismo ed una ancora indefinita di multipolarismo, se non, in un tempo da venire, policentrica.