LO SPUTO DEL LAMA (di G. Gabellini)



Il conferimento del Premio Nobel per la Pace al "dissidente" cinese Liu Xiaobo ha riaperto una questione mai seriamente affrontata in passato, ovvero l'uso strumentale della non – violenza a precisi e specifici fini di cruda realpolitik. Un tempo il protagonista e teorico assoluto del movimento non – violento era il vecchio Mahatma Gandhi, uomo politico estremamente lungimirante che ha approfittato del declino dell'impero britannico per ottenere senza ingenti spargimenti di sangue l'indipendenza del proprio paese.

Ora invece il clero mediatico occidentale ha arbitrariamente sostituito l'ammirevole figura di Gandhi con quella del vecchio occhialuto tibetano, il quattordicesimo Dalai Lama, impegnato a tempo pieno a convertire al buddismo tutti i ricconi di Hollywood. Costui detiene la primogenitura della curiosa categoria di "dissidente" non – violento nei riguardi della Cina e dei suoi maggiori uomini politici, da Mao Tze Tung a Deng Xiao Ping fino all'attuale Wen Jibao. Quasi tutti i membri del clero politico, giornalistico ed universitario, con tanto di annessi e connessi, si sono bevuti questa indegna fandonia e hanno preferito rimanere nella propria "genuina" ignoranza sull'argomento, disposti come sono a interrogarsi su ciò che bolle in pentola in quel di Pontida o di Palazzo Grazioli ma del tutto disinteressati alle vicende del Tibet o dello Xinjiang, su cui però pretendono sempre e comunque di avere voce in capitolo. Da un verminaio simile non poteva che emergere la favoletta dei "mostri" Mao Tze Tung e Deng Xiao Ping feroci persecutori del "pacifico" Dalai Lama e di tutta la sua altrettanto mansueta compagine. Per comprendere correttamente la realtà è opportuno, come sempre, fare qualche passo indietro, al crepuscolo dell'Ottocento, quando la Cina fu dissanguata dalle cosiddette "Guerre dell'oppio" promosse dal'impero britannico, che le impose con la forza di importare ingenti quantità di oppio prodotto dalla vicina colonia indiana dietro lauti pagamenti in argento. Oltre all'inevitabile crisi economica, la Cina si vide costretta a fronteggiare i fortissimi slanci imperialistici inglesi, che miravano allo smembramento (un classico delle potenze marittime) della sua unità territoriale, con particolare attenzione a Hong Kong, Macao, Taiwan e, per l'appunto, al Tibet. Ben presto gli Stati Uniti si resero addirittura conto dei vantaggi che avrebbe fatto ricadere sulla loro economia l'arruolare la forza lavoro cinese, magari da impiegare, tra le altre cose, per la costruzione della linea ferroviaria americana. Mentre la demonizzata cultura comunista dell'epoca, per bocca di Friedrich Engels, denunciava il tutto come una vergognosa "Schiavitù camuffata dei coolies cinesi", la grande intellighenzia liberale dell'epoca, da brava servitrice, diede il suo immancabile contributo per ammantare con una patina di nobiltà la vicenda; John Stuart Mill, ad esempio (uno dei padri del liberalismo), ebbe l'ardire di definire le "Guerre dell'oppio" come "Guerre combattute al fine di tutelare la libertà dell'acquirente (Cina) nonché del venditore (impero britannico)". In ogni caso, l'opera di saccheggio andava a sommarsi a quella, ben più pericolosa, di smembramento. I cinesi, accortisi del pericolo, diedero luogo alla grande rivolta dei "Boxers", la cui imponenza assunse dimensioni tali da spingere le grandi potenze occidentali (Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Francia, Germania ecc.) a mettere per un momento tra parentesi le proprie controversie per dar organizzare una grande spedizione militare finalizzata a stroncare la spinta rivoluzionaria cinese. La furia repressiva degli invasori riportò indietro la Cina di decenni, cosa che aggravò ulteriormente le già critiche condizioni di vita del suo popolo, ridotto letteralmente alla fame e incapacitato a far fronte alle varie carestie (spaventosa quella del 1928, che provocò la morte di tre milioni di persone nella sola provincia dello Shenxi). Agli occidentali si sostituirono ben presto i giapponesi, che si distinsero per brutalità e ferocia (nel corso del dimenticato "Stupro di Nanchino morirono più di trecentomila persone), specie nelle aree in cui la resistenza si faceva più accanita, dove perpetrarono la politica dei cosiddetti "Tre tutto" (saccheggia tutto, uccidi tutto, brucia tutto). Fu in questo contesto che dalle viscere della "Cina crocifissa" emerse un uomo politico, già distintosi in occasione della guerra contro il Giappone, particolarmente abile e astuto, il leader del partito comunista Mao Tze Tung. Costui salì al potere nel 1949, alla guida di quello che appariva alla popolazione come l'unico partito in grado di strappare il dragone dalle avide grinfie occidentali e giapponesi. Mao si mosse però con cautela e, cercando di non indispettire troppo le soverchianti potenze in questione, si limitò a portare avanti la guerra civile senza toccare le regioni di Hong Kong e Macao, attendendone le relative scadenze d'affitto. Dal canto loro, gli USA, del tutto refrattari ad accettare il massiccio processo d'emancipazione cinese, appoggiarono il leader del Kuomintang Chaing Kai – Shek, acerrimo nemico di Mao, e militarizzarono l'isola di Taiwan, dove costui si era rifugiato, non esitando a far ricorso alla minaccia nucleare per bloccare le mire unificatrici cinesi. Al fronte orientale, individuato in Taiwan, gli USA decisero di aprirne uno occidentale, promuovendo la secessione del Tibet. I tanti "sinistri" di oggi si sono evidentemente gettati alle spalle il loro passato da "antimperialisti", se ancora oggi ignorano, o (assai più probabilmente) fingono di ignorare, il fatto che la sovranità cinese sul Tibet ha alle spalle secoli e secoli di storia, e che i primi a mettere in discussione questa inoppugnabile realtà sono stati i britannici, "lievemente" interessati ad ottenere la frammentazione di uno sterminato paese come la Cina. Ma mettendo momentaneamente da parte l'ignoranza o la malafede della teppaglia contemporanea, e tornando alla Storia, occorre sottolineare che prima dell'inizio della "Guerra fredda" gli USA non si erano mai sognati di mettere in dubbio la sovranità cinese sul Tibet, specie fintanto che in quel di Pechino sedeva Chaing Kai – Shek, e solo in corrispondenza con l'ascesa al potere di Mao iniziarono a ritirar fuori questa strumentale falsità. A portare acqua al mulino di questa tesi, viene George Merrel, l'incaricato d'affari degli Stati Uniti in India, che in una lettera datata 13 gennaio 1947 ed inviata al presidente Truman, suggerì che "Il Tibet può essere considerato come un bastione contro l'espansione del comunismo in Asia o perlomeno come un'isola di conservatorismo in un mare di sconvolgimenti politici". Presto fatto: gli USA fecero leva sulla forte acredine esistente tra il governo centrale e il regime lamaista dominante nella regione, e si spinsero ad appoggiare apertamente il leader del secondo, il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gaytso. Costui, sul cui capo è stata sparsa una quantità di incenso storicamente inedita, era la massima autorità di un regime (alla faccia dell'ostentato pacifismo) teocratico feudale, che aveva ridotto la maggior parte della popolazione in schiavitù. Molte critiche si possono muovere a Mao ma gli va di certo riconosciuto il merito d'aver introdotto delle riforme che, proprio in Tibet, hanno abolito il feudalesimo, il servaggio e
la teocrazia, allungato la durata media di vita dei tibetani e diminuito la percentuale di analfabetismo. E' senza dubbio vero che i metodi utilizzati da Mao non sono stati certo "ortodossi", ma è altrettanto vero che il clima in cui si trovava ad operare non era esattamente tutto rose e fiori; sulla Cina aleggiava lo spettro della frammentazione, fortemente alimentato dalle consistenti mire imperialistiche statunitensi; se ne ricordino le odierne "anime belle". Il signor Dalai Lama si era invece strenuamente opposto alle riforme disposte da Mao, dimostrandosi a dir poco recalcitrante ad accettare la divisione tra stato e religione e l'abolizione del feudalesimo. Fu in questo contesto che maturò la rivolta tibetana del 1959, repressa con estrema durezza dalle forze armate cinesi. Il Dalai Lama riparò in India, dalla quale recapitò immediatamente un messaggio a Washington, reclamando armi e munizioni per quarantamila uomini. Gli USA, vista e considerata la non certo favorevole situazione, risposero picche, preferendo orientare momentaneamente l'attenzione più a sud. I facinorosi strateghi del Pentagono si resero infatti conto del fatto che al fine di formare una tenaglia entro cui racchiudere "L'espansione del comunismo" occorreva prima congiungere la ganascia orientale (Taiwan) con un perno meridionale, che fu individuato nell'Indonesia. La CIA si attivò tempestivamente in questo senso, appoggiando il colpo di stato del generale Suharto, che si sbarazzò in poco tempo di qualche centinaio di migliaia tra comunisti o presunti tali. Una volta sistemato il perno meridionale, le attenzioni degli USA sono immediatamente tornate a orientarsi verso la Cina. I signori di Washington si sono prodigati, oltre a dar luogo a numerose esibizioni muscolari in chiara funzione anticinese (Reagan e Bush in particolare), ad esaltare grottescamente il Dalai Lama, assurgendone la figura a vero e proprio status symbol del pacifismo oltranzista. Il fatto che il Premio Nobel per la pace gli sia stato assegnato proprio nel 1989, anno dei disordini di Piazza Tienammen e della ferma risposta di Deng Xiao Ping, non è assolutamente un caso, ma risponde a pieno titolo alla tattica mediatica statunitense, che si serve dei pagliacci di Oslo per esaltare i propri "boys" (angioletti come Kissinger, Carter e Obama, oltre a vari "beati" alleati Begin e Peres) e demonizzare di volta in volta interi popoli. Il fatto, poi, che Obama abbia richiesto, non si capisce bene a quale titolo, il rilascio del "dissidente" Liu Xiaobo, fresco di Nobel, senza che uno straccio di giornalista gli chiedesse conto dei suoi "dissidenti" rinchiusi a Guantanamo e Abu Ghraib senza la minima prova della loro colpevolezza, la dice lunga sullo spirito del tempo.