“Marx non era marxista” di G. Moretti

Karl-Marx

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Qualcosa di molto simile a ciò che riguarda il presunto “razzismo di Marx” (http://www.conflittiestrategie.it/marx-razzista-si-vergogni-chi-lo-ha-scritto), che in questo momento storico penso davvero si configuri nell’ambito del nascènte movimento BLM di otporiàni abbattitòri/imbrattatòri di statue, stavolta in chiave anti trumpiana ma in reminiscenza della furia iconoclasta che si abbatté in Europa alla caduta dell’URSS, si può dire a proposito del notorio “Marx non era marxista”, su cui Diego Fusaro incentrò il suo “Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario”.

Che Marx sia stato largamente frainteso e manipolato è chiaro a tutti, o comunque a molti. Certo non è marxista così come la stessa critica, molto spesso ma certamente non esclusivamente destrorsa, a Marx, vuole intendere. Per esempio, l’operaio marxiano (qui si intende il riferimento a Karl Marx) non è quello marxista (e qui s’intende il luogo comune sul personaggio e sulla sua dottrina economico-filosofica). Nell’ontologia marxiana operaio è il lavoratore salariato tanto quanto, anzi, lo è soprattutto, l’imprenditore che quell’opera, appunto, produce, anch’esso sfruttato dai modi di produzione capitalistica attraverso la doppia metamorfosi del ciclo produttivo che dal primordiale m-d-m tramuta in d-m-d e successivamente in d-d. In epoca preindustriale, il lemma “operaio” non aveva la semantica che la neolingua, marxista ma non solo, ci ha imposto tra i cassonetti delle catene di montaggio di Mirafiori. In Marx, la figura dell’operaio è la riduzione a livello ontico del “lavoratore collettivo”, a cui lo stesso Marx si riferisce esplicitamente per esempio nel celebre frammento accelerazionista, di concezione platonica e che dà forma alla materia grezza rendendola pienamente sensibile e ..suscettibile di valutazione economica. Dunque, la lotta di classe, in Marx, non è affatto da ridurre al dualismo imprenditore/lavoratore salariato di un “marxismo” popolare alla “Sciur padrun da li beli braghi bianchi” delle mondine vercellesi così come il monismo materialista marxiano ha poco a che vedere con quello hegeliano.

«Affermare che l’unità non è, non può essere l’unità dell’essenza semplice, originaria e universale, non significa dunque, come credono coloro che sognano il “monismo”, concetto ideologico estraneo al marxismo, sacrificare l’unità sull’altare del “pluralismo” – significa tutt’altro: che l’unità di cui parla il marxismo è l’unità della complessità stessa, che il modo di organizzazione e di articolazione della complessità costituisce precisamente la sua unità. Significa affermare che il tutto complesso possiede l’unità di una struttura articolata e dominante. È questa struttura che fonda in ultima istanza i rapporti di dominanza esistenti tra le contraddizioni e tra i loro aspetti, che Mao descrive come essenziali … se si considera il tutto complesso con l’unità semplice di una totalità; se si considera il tutto complesso come il semplice sviluppo di un’unica essenza o sostanza originaria, allora si cade, nel migliore dei casi, da Marx a Hegel, e nel peggiore dei casi a Haeckel!» Louis Althusser, Pour Marx, Paris, 1996.

Il monismo panteistico è la particolare cosmogonia che sviluppa l’idealismo assoluto e da cui però Marx si dissocia, preferendo riferirsi all’uomo vivo, anziché alla sua “astrazione concreta” di althusseriana memoria. Marx, dunque, non era, diciamo così, hegelianamente monista. Il marxismo da cui Marx si discosta tende dunque a confondere capitalismo e imprenditoria; pesca nella produzione del “filosofo” di Treviri e radicalizza il concetto di alienazione e plusvalore identificati nello sfruttamento dell’operaio inglese a danno del quale avviene la famosa accumulazione originaria, privandolo della proprietà dei mezzi di produzione e in questo identificando l’intera “sovrastruttura” della lotta di classe in cui contrappone, ribaltando Marx, salariati e imprenditori. Inoltre, e forse soprattutto, a differenza del rossobrunismo, Karl Marx ritiene che lo Stato, che in quanto anch’egli prussiano identificava nello stesso tipo di potere oligarchico a cui si contrapposero i bolscevichi, sia strumento funzionale della classe dominante la cui “estinzione” è il naturale processo storico (da cui al materialismo storico/dialettico di reminescenza hegeliana) cui è destinato. Questo differenzia sostanzialmente Marx da Lenin. Marx non è un rivoluzionario nel senso bolscevico del termine, ma insieme ad Engels, nel ’48, scrive il Manifesto del Partito Comunista ed è proprio in questo documento fondante dell’ideologia comunista, che descrive fin quasi nel dettaglio il concetto di nazionalizzazione del sistema industriale strategico, del sistema bancario ordinario e della banca centrale, che i bolscevichi (sono stati i soli a provarci) tentarono di realizzare senza riuscirvi pienamente.

La cosa più curiosa di tutte, oggi, è che oltre ai rossobruni anche i sovranisti identificano il punto centrale del loro manifesto politico nel celebre quinto punto del manifesto del ’48, che a proposito di fraintendimenti di Marx a detta di taluni fu scritto “sotto minaccia”. La “Lega dei Giusti”, nata a Parigi e organizzata come la carboneria francese, sorta, questa, sul modello della carboneria italiana del Buonarroti, il discendente di Michelangelo che organizzò la Congiura degli Eguali, che aveva lo scopo, come l’aveva Proudhon, di abolire la proprietà privata sostenendo, come Rousseau, che la terra non è proprietà di nessuno mentre i suoi frutti appartengono a tutti, era capeggiata da Engels e Marx. Dalla Lega dei Giusti ebbe origine la Lega dei Comunisti – che poi diventò la celebèrrima Internazionale Comunista – sorta con la fusione dei “Democratici Comunisti di Londra” e dei Fraternal Democrats, e che commissionò il “lavoro” ad Engels e Marx. Detto questo, il Marx che scrive il Manifesto del PC nel 1848 è sostanzialmente antipodico, rispetto a quello che solo quattro anni prima scriveva i Manoscritti Filosofici, ma la “rottura epistemologica”, se pur solo a detta di Althusser ma avvenuta proprio in quegli anni, giustifica questa stranezza ben più di un ritardo nella consegna dello scritto rispetto alla data pattuita, che produsse la “minaccia di provvedimenti” da parte della Lega.

A questo si aggiunga il fatto che quando Engels riporta la famosa frase “Tout ce que Je sais, c’est que je ne suis pas marxiste” lo fa a riguardo della posizione che l’Internazionale assume rispetto ai “marxismi nazionali”, in generale, e in particolare al movimento operaio francese di Malon, Geusde e Lafargue, da cui Marx prende nettamente le distanze definendolo come un “terrorismo del futuro che durerà fino a che l’inchiostro della stampa non avrà ghigliottinato anche l’ultimo oppressore borghese”. Quindi sì, è vero che Marx ed Engels non erano marxisti, di quel marxismo che anche Gianfranco la Grassa e Gianni Petrosillo criticano giustamente e ferocemente, ma lo erano invece totalmente e nonostante le “minacce”, anche queste da contestualizzare all’ambito storico in cui vengono pronunziate, quando scrissero il Manifesto del ’48. Lo stesso, del resto, è necessario dire dell’ancor più celebre frase secondo cui “la religione è l’oppio dei popoli”, che va ben oltre il semplice outing di una critica religiosa così facilmente utilizzabile, e utilizzata e strumentalizzata, sia dal “marxismo” che dalla sua controparte politico/dialettica, e si configura invece, sempre a proposito della “rottura epistemologica”, nella più ampia e ben più profonda critica filosofica al misticismo dialettico dell’idealismo assoluto hegeliano – fra resto iniziata da Feuerbach. la frase in questione infatti è sua – e della “coscienza infelice” con cui Hegel descrive la prima delle fasi del rapporto dialettico servo/padrone.