METAMORFOSI DI BONTEMPELLI: E’ UN TONI NEGRI DEPRESSO

di G.P.

Forse a qualcuno sarà capitato di imbattersi nell’ultimo “ritrovato” teorico di Massimo Bontempelli intitolato “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”. Come si evince dal titolo ci sta dentro un po’ di tutto, frammenti di analisi marxiana, spicchi di filosofia tra Kant e Hegel, qualche piccola nozione economica e, dulcis in fundo, “fettine” di psicologia post-apocalittica rinvianti irrimediabilmente allo spaesamento dell’individuo nell’era della tecnica e del capitalismo assoluto. Eviterò di addentrarmi troppo nelle questioni specificatamente filosofiche con le quali Bontempelli inizia il suo cammino verso le categorie marxiane di sussunzione formale e di sussunzione reale del lavoro al capitale, lasciando volentieri questo compito a Mauro Tozzato che s’intende di filosofia molto più di me. Mi limiterò qui soltanto a tracciare il percorso della coppia categoriale in discussione, così come viene sceverata da Bontempelli nel suo saggio.

In sostanza, Marx avrebbe ricavato il concetto di sussunzione dalla logica kantiana (riconduzione di un termine al rapporto insieme di inclusione e subordinazione che gli è proprio rispetto ad un termine più esteso), operandone un riadattamento nell’ambito di categorie sociali come il lavoro e il capitale. Fin qui poco da dire, soprattutto per chi come me deve limitarsi a confrontare queste analisi con le scarne reminiscenze (peraltro ricavate dai testi scolastico-filosofici di Bontempelli) su Kant ed Hegel. Il filosofo di Stoccarda viene chiamato in causa perchè la sussunzione contempla due aspetti, uno appunto formale e l’altro reale. Bontempelli sostiene che la sussunzione formale in Marx si richiama esplicitamente alla logica hegeliana e al concetto di forma in Hegel.

Hegel definisce la forma come “relazione fondamentale le cui determinazioni stanno di contro al contenuto” il quale, così posto, “è determinato già in lui stesso come fondamento della sua unità particolare con sé, e sta di contro alla forma quale relazione intera di fondamento e fondato”.

Fortunatamente Bontempelli fornisce la traduzione della complessa “terminologis hegeliana” e di questo devo ringraziarlo perché altrimenti avrei interrotto la lettura già a questo punto: “Il senso di questa [affermazione] si ritrova nel Capitolo VI inedito. Il lavoro artigiano, o il lavoro contadino indipendente, sono contenuto della storia, e sono un contenuto determinato già in lui stesso, nel senso che il suo concreto svolgimento nasce dalla sua natura, e non da alcunché di esterno”.

Ci siamo adesso? Mica tanto? Comunque continuiamo a seguire il suo ragionamento. “Il lavoro artigiano, cioè, è determinato dai suoi strumenti, dalla sua materia prima e dalla sua tecnica specifica, ovvero in lui stesso, indipendentemente dal fatto se sia sfruttato oppure no da un potere esterno, e da chi e da quale finalità sia eventualmente sfruttato.” Insomma, esso “fonda competenze, relazioni e stili di vita”. Ecco così svelato il senso  dell’espressione “fondamento nella sua particolare unità con sé”. Adesso resta da chiarire la seconda parte dell’affermazione, quella che parla de “la relazione intera di fondamento e di fondato”.

Prendiamo l’esempio del lavoro contadino. “Il lavoro contadino indipendente come lavoro è fondamento, fondamento della vita del contadino, nella sua particolarità avulso dal più generale contesto storico di relazioni sociali, ma se viene inserito in tale contesto relazionale, ad esempio in rapporto di dipendenza feudale da una signoria rurale, si rivela fondato dalle regole e dagli scopi di tale rapporto, pur rimanendo fondamento a livello della sua particolarità specifica”.  Si capisce, pertanto, che il complesso dei rapporti sociali feudali è, invece, quella relazione più generale che inglobando il lavoro contadino particolare lo “derubrica” a fondato, essendo la relazione più generale quella fondamentale. Con un ultimo sforzo le cose si fanno ancora più chiare: il lavoro del contadino indipendente è, se storicamente e socialmente “decontestualizzato”, fondamento mentre se esso viene ricontestualizzato nell’ambito dei rapporti feudali dominanti, si riduce a fondato da quegli specifici rapporti di produzione. Quindi, dice Bontempelli, mentre per Hegel la forma è assunzione “da parte di una relazione generale, di un contenuto più particolare determinato in sé stesso” per Marx invece, fuori dalla logica e trasposta nell’ambito dei rapporti di produzione, la forma è “forma di appropriazione, da parte di un rapporto sociale globale ed in funzione della sua autoriproduzione, del prodotto di un lavoro predeterminato ad esso nel suo modo di essere”.  Marx fa riferimento qui a quella prima fase in cui il capitale raduna presso di sè uomini e mestieri, nelle manifatture, senza intervenire sulla natura del lavoro, in quanto i saperi produttivi sono ancora ben saldi negli uomini che da poco hanno abbandonato le proprie botteghe per andare a lavorare, costretti dalle nuove condizioni, sotto uno stesso tetto e per conto di un capitalista. Questo implica che “il processo lavorativo è sottoposto al capitale e il capitalista vi entra in qualità di dirigente, considerandolo insieme e immediatamente come processo di sfruttamento del lavoro altrui” (Marx, Capitolo VI inedito). Però “a questi cambiamenti […] non si è finora accompagnata una trasformazione sostanziale nel modo d’essere vero e proprio del processo lavorativo, del processo di produzione reale”. In pratica, il comando capitalistico può agire con maggiore o minore violenza sugli uomini, costringendoli ad un lavoro prolungato, per ottenerne maggiore profitto (plusvalore assoluto), ma non oltre un certo limite di durata della giornata lavorativa, la quale non può essere allungata all’infinito.

Da questo consegue, come giustamente ribadisce Bontempelli, che “solo una modificazione del processo lavorativo può evidentemente consentire la produzione nello stesso tempo di una maggiore quantità di merce, e quindi una minore quantità di lavoro incorporata in un’unità di merce, per cui il pluslavoro relativo è necessariamente associato ad una sussunzione non più formale ma reale”.

E così giungiamo finalmente a poter definire la sussunzione reale in Marx. I rapporti specificatamente capitalistici sono precisamente il risultato dell’incremento delle forze produttive sociali del lavoro “mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine, e, in genere, la trasformazione del processo di produzione  in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi”, poiché tale “incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione delle scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – al processo di produzione immediato, si rappresentano ora [e solo ora] come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione” (Marx, op.cit.). Finalmente siamo arrivati a comprendere il concetto di sussunzione in Marx nella sua duplice forma, presi per mano da Bontempelli il quale, visto che c’era, ci ha condotti a fare un giro prima nella logica kantiana e poi in quella hegeliana. Ci abbiamo impiegato un po’ più di tempo ma, tutto sommato, il “panorama filosofico” era piacevole e l’ “aria intellettuale” della giusta temperatura.

Forse però usciamo un po’ più ebbri del dovuto da questo de-tour, tanto che il nostro autore pensa proprio adesso di poterci di rifilare il suo “pacco filosofico”. Ed ecco la novità dell’ipotesi bontempelliana: “l’operazione concettuale che da tempo propongo per la sua possibile fecondità interpretativa è quella di riformulare, per trasporla come categoria illuminante in un più vasto ambito, la nozione marxiana di sussunzione, alla stessa maniera  in cui Marx ha riformulato la nozione kantiana di sussunzione per riferirla al rapporto tra capitale e lavoro. Si tratta cioè di pensare la distinzione  tra sussunzione formale e sussunzione reale  non più soltanto del lavoro al capitale, ma dei contenuti della stessa vita umana al capitale”. E no Bontempelli! Questa non è affatto nuova perchè l’ho già sentita, non mi è piaciuta all’epoca e non mi piace nemmeno oggi. In Impero di Toni Negri e Michael Hardt (ma anche in precedenti opere di quell’uomo che sentiva il calore della classe operaia solo quando si calava il passamontagna) si parla precisamente di ciò, del fatto che saremmo passati da una sussunzione formale del mondo al capitale, caratteristica del vecchio capitalismo industriale, ad una sussunzione reale del mondo al Capitale, contrassegno dell’Impero senza centro che assomiglia molto al capitalismo assoluto di Bontempelli (a tal proposito basta andare a rileggersi la recensione di M. Turchetto al libro “Impero” che potete trovare a questo link: http://lists.autistici.org/message/20020320.005224.5f71dff2.en.html).

Certo, Negri è più affascinato che perplesso di fronte alla nuova situazione perché, a suo modo di vedere, l’epoca dello sfruttamento intensivo del mondo coincide con l’era post-industriale più pulita ecologicamente e meno “ingombrante” industrialmente. Ma, a parte le differenze, resta la sostanza della premessa iniziale che, come si può ben vedere, può sfociare in punti di vista letteralmente agli antipodi. Bontempelli è più onesto di Negri ma un bel po’ più depresso.

Di qui in avanti l’incedere dialettico di Bontempelli diviene una litania pretesca su quanto dovremmo pentirci di mangiare polli allevati in batteria, usare troppo la tecnologia e viaggiare in macchina. Tutte cose che corrompono la nostra soggettività.

Non ci credete? Ecco qualche passaggio.

Dal paragrafo intitolato “Dominio sul vivente”: “Occorre sapere che chi oggi mangia spesso carne, chi consuma regolarmente prodotti vegetali fuori dalla loro produzione naturale, chi accetta la frutta standardizzata e non maturata da supermercato, non solo si nutre male e perde il senso dei sapori ma dà, per così dire, il suo democratico voto quotidiano a favore dello sfruttamento capitalistico (molto più democratico e molto più determinante del voto nella cabina elettorale), proprio come chi usa frequentemente l’automobile e si affretta a comprare gli ultimi ritrovati della tecnologia immessi sul mercato”. Non fate orecchi da mercante voi che vi "abboffate" con pollo allevato in batteria perché costa meno del filetto, il filosofo ce l’ha proprio con voi. E da domani niente più macchina, a meno che non vi serva come predella per improvvisare comizi sulla decrescita. Infine, attenti alla tecnologia la quale, si sa, è uno strumento che corrompe il vostro spirito rivoluzionario.

Ma andiamo avanti nello sproloquio.

Dal paragrafo intitolato “il senso comune sviluppista e la sua critica”: “Chi, perciò, sta dalla parte dello sviluppo, sta di fatto dalla parte del sistema vigente, qualunque illusione coltivi riguardo alla sua collocazione, e si condanna all’inintelligenza della trama di connessioni effettive tra i molteplici aspetti del mondo attuale […] Non si possono contrastare le derive belliche dell’imperialismo attuale se non in una prospettiva di decrescita. Chi è a favore dello sviluppo è, anche se crede il contrario, a favore delle guerre imperialistiche che dello sviluppo sono un corollario.” Gli americani sentitamente ringraziano perché, effettivamente, loro non avranno più bisogno di fare le guerre se gli altri si tagliano le palle da soli.

Dal paragrafo intitolato “La sussunzione della persona umana”: “Succede però spesso che un militante antimperialista  si muova frequentemente e naturalmente in automobile, senza rendersi conto che bruciare benzina nel motore significa votare per il sistema in maniera ben più sostanziale che con una scheda elettorale, e che un luogo imprescindibile di attacco al sistema stesso sarebbe quello della circolazione autoveicolare privata”. Povero militante antimperialista, invece di farsi bastonare dalla polizia per poi poterne contare orgogliosamente i lividi, avrebbe potuto, molto più semplicemente, spaccare qualche auto in sosta. Ma l’oppositore è un ingenuo perché non capisce che “ha in molti casi una personalità adattata  a vivere senza troppo soffrirne in mezzo alle conseguenze negative del traffico autoveicolare privato […] e ad accettare quella particolare privatizzazione e desocializzazione della strada che la circolazione autoveicolare crea.” Finito? Macché: “[…]Si può dire che la freddezza riguardo alla decrescita, l’incapacità di sentirne l’urgenza, e la tendenza a fraintenderne il senso, sono tipici segni rivelatori della personalità sussulta sotto il capitale: una tale personalità, infatti, ha interiorizzato lo sviluppo come modello di comportamento individuale, per cui manca della sensibilità per cogliere il valore di aspetti statici del paesaggio naturale e sociale, e per soffrire della loro dissoluzione, cosicché i processi innovativi del capitalismo non lo spaventano […]”. Ammetto di essere un deviato, di avere una personalità completamente sussunta, ma purtroppo non me ne rendo conto perché il capitale ha completamento ridisegnato la mia mappa cerebrale, agevolato in ciò dalle mie “tendenze interne anch’esse prodotte dal capitale”.

Dal paragrafo intitolato “Le forme della personalità nella sussunzione reale” (in questo paragrafo vengono sciorinati tre diversi livelli di psicopatologia: il disprezzo di sé, la personalità concretista, la personalità narcisista): tutto ha inizio dal fatto che “[…] oltre un certo sviluppo il capitale non può realizzare il plusvalore che produce se non con un ritmo particolarmente veloce degli acquisti di massa delle merci” e che “questa velocità cambia l’immagine sociale della merce. Essa diventa un oggetto da consumare in maniera rapida e definitiva” favorendo l’insorgere ne “l’individuo che non rispetta gli oggetti, perché li consuma velocemente, e che non rispetta il suo ambiente, perché lo sporca con oggetti trasformati in rifiuti […]il disprezzo di sé[…], l’individuo non trova più nei suoi beni materiali i segni esteriori della durata dello spirito umano nel tempo”.  Per sfuggire a questo disprezzo di sé l’individuo si rifugia nell’appartenenza (personalità concretista) alle più diverse organizzazioni, trovando in ciò un “pavimento” che gli impedisce di sprofondare nella sua nullità. Qualora nemmeno questo escamotage dovesse bastare, perché, magari, uno è tanto acculturato da sottrarvicisi, ecco che arriva: l’ “autorappresentazione grandiosa della propria personalità” (personalità narcisista). Volete un esempio di personalità narcisista? I signori sono serviti:“Napoleone, che, angosciato dal disprezzo di sé quando frequentava la scuola militare, dove gli altri allievi ufficiali lo emarginavano e lo schermivano perché non nobile e non francese, lo ha poi impercompensato nell’immagine gloriosa e carismatica di se stesso”. Ma oggi che il capitalismo è divenuto assoluto può produrre da sé (ed in serie) questo tipo particolare di personalità narcisistica la quale, come ci insegna Bontempelli, esisteva anche in un periodo precedente (come attesta l’esempio di Napoleone) ma era molto meno diffusa. Difatti “la costituzione del soggetto come terminale della circolazione delle merci contiene dunque gli elementi basilari del narcisismo: una storia familiare che abbia iniziato e poi accentuato il disprezzo di sé, ed un’educazione intellettuale che abbia trasferito l’autorappresentazione ipercompensatoria dal rapporto con la merce a quello con le persone, ed abbia consentito d’investirvi abilità effettive e talenti mentali”.  Insomma, il grosso di noi è già fottuto, l’unico che si salva è, naturalmente, il filosofo Bontempelli il quale ha “capacità interpretative in questo campo” decisamente fuori dal comune.

La sussunzione è compiuta, andate pure in pace.