POVERO MARX! RISPETTIAMO CIO’ CHE HA DETTO, POI RIDISCUTIAMOLO

Non so quanti altri autori siano stati “torturati” (e “triturati”) quanto Marx. Più si allontana il tempo in cui visse ed elaborò la sua teoria, e sempre più, quando se ne parla, lo si sottopone a tale trattamento. Per cui, c’è da augurarsi che si sbaglino quelli che parlano, di questi tempi, di Marx renaissance, altrimenti verrà proprio “conciato per le feste”. Ovviamente, non posso inseguire tutte le interpretazioni, più o meno consentite o invece cervellotiche, cui è stato sottoposto, e viene tuttora sottoposto, da chi ne tratta con mero “andamento” accademico, completamente distaccato da un uso apertamente politico che è invece quello più appropriato per Marx, poiché questi non era per nulla un semplice studioso, un teorico. Accennerò solo, per brevissimi cenni, ad alcune delle peggiori manipolazioni del suo pensiero.
Innanzitutto ci sono gli “elogiatori” che riscoprono il “pensatore” capace di anticipare di oltre un secolo la globalizzazione attuale, la mercificazione generale della produzione mondiale, con la presunta fine della funzione degli Stati nazionali e il predominio completo del mercato (globale appunto). Sinceramente, non so cosa di diverso abbia detto Adam Smith – poco meno di un secolo prima di Marx – con il suo riferimento alla “mano invisibile”, che è precisamente quella del mercato generalizzato (senza giungere alle idiozie della fine delle funzioni statali). Veramente bravo questo Marx, un banale ripetitore, in ritardo, di tesi smithiane.
Ci sono poi quelli che si affannano nel perfezionare una “teoria matematica” dello sfruttamento, eliminando le “aporie” della trasformazione (dei valori in prezzi di produzione). Se ne parla dalla fine dell’ottocento e adesso qualcuno è convinto di aver risolto il problema. Credo che costui faccia confusione tra livelli diversi di “astrazione” e che non trasformi per nulla il valore (una quantità di lavoro “in generale” speso per produrre i beni) nel prezzo di produzione di cui parlava Marx, per nulla affatto un prezzo reale, empirico, bensì della stessa natura del valore (di “partenza”), ma trasformato – si tratta dunque, anche in tal caso, di una “sostanza” lavorativa che comunque la merce capitalistica possiede già in sé prima di essere avviata al mercato effettivo, concreto – onde tenere conto di questioni attinenti alla concorrenza tra capitali e alla formazione (tendenziale) di un saggio di profitto eguale per tutti i concorrenti ecc.
Non vado oltre (ci si diletti pure di queste argomentazioni e si vedano magari le due pagine di Tozzato nel nostro blog ripensaremarx; una giusta dimensione, solo due pagine). Il problema in questione, pur se venisse veramente risolto (ma non credo che lo sarà mai rispettando il livello di astrazione, affatto lontano dal “contatto” empirico, cui si attiene Marx), resterebbe semplicemente un teorema matematico risolto. Questo darebbe grande soddisfazione intellettuale allo studioso (proprio nel senso di un individuo chiuso nel suo studiolo, con “carta e penna”, dedito a risolvere certi puzzles per tener allenato il suo cervello), ma non serve a un bel nulla per capire il mondo attuale e le politiche (internazionali e interne), lo scontro tra potenze (in atto o in via di formazione), l’attuale configurazione di quella che veniva definita “lotta di classe” (e oggi solo un pazzo, con la “zucca” fuori dal mondo reale, potrebbe non aggiungervi quelle nazionali, etniche, religiose, ecc.). Quindi ai più giovani consiglio di lasciar perdere questi personaggi, chiusi nel loro “piccolo mondo antico” di intellettuali démodés (quelli à la page si dedicano ad altri problemi altrettanto “appassionanti e utili” ai fini della reale trasformazione: non dei valori ma del mondo).
Poi vengono (o forse venivano, perché oggi mi sembra che il dibattito in oggetto si sia assopito) gli ecologisti che protesta(va)no perché Marx non ha considerato nel valore la Natura, ma solo il lavoro. Circa centomila volte (faccio per dire), Marx ha ripreso una formula non sua ma di Smith, anzi ancor prima di Petty e credo ancor prima di altri, secondo cui il “padre” della ricchezza prodot-
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ta (che è una somma di valori d’uso) è il lavoro, ma la “madre” è appunto la Natura. Il valore è semplicemente la sostanza di ciò che si manifesta nella forma del valore di scambio delle merci. Ma non è che la sostanza venga prima della forma in cui si manifesta, poiché non esiste la sostanza se non in quella forma e non esiste quella forma se non per rendere manifesta (“dietro” o “sotto” di sé, in cui è chiaro il significato metaforico di tali termini intercambiabili) la sostanza. Il porre il problema come unità di sostanza e forma voleva solo consentire di andare oltre il valore relativo – ad es., tre unità di bene x per una unità di bene y – e scoprire che cosa, in realtà (nella sostanza appunto), consentiva che si potesse manifestare quel rapporto di scambio (non che si manifestasse concretamente, ma che potesse manifestarsi; si intende la differenza?).
Quel rapporto rischia di apparire casuale, e muta inoltre continuamente nello scambio mercantile effettivo. E allora Marx – non differentemente dai classici a questo proposito – voleva capire se vi era un punto di equilibrio (sempre instabile), un centro di attrazione, attorno a cui oscilla quel rapporto (“in media”). E lo trovava appunto nella sostanza lavorativa che costituisce il valore; tenendo ben fermo fra l’altro – e ciò riguarda anche la discussione sulla trasformazione – che il prezzo di produzione (in quanto mero valore trasformato) si situa al medesimo livello del valore, cioè a quello della sostanza, non certo a quello della forma di manifestazione, il valore di scambio, che in assenza della sua base sostanziale si ridurrebbe a semplice valore relativo (rapporto di scambio; i 3x contro 1y dell’esempio poco più sopra fatto). Sia però chiaro che anche la forma di manifestazione non va presa come semplice prezzo di mercato empirico, che è espresso in moneta. Un discorso complesso e intricato, senza dubbio, ma senza tener conto del quale è inutile accingersi a risolvere teoremi matematici. Io non sono un grande filosofo (anzi assai becero), tuttavia capisco che tra un filosofo e un economista corre il rapporto che c’è tra un architetto e un geometra. Ho conosciuto architetti meno intelligenti di alcuni geometri, ma se uno vuole costruita una casa che abbia un qualche rilievo estetico e culturale, e non semplicemente “geometricamente” ben fatta, deve rivolgersi ai primi.
Certo Marx aveva poi risolto la sostanza-base del valore in un tempo di lavoro “astratto”; non so se sia stata una scelta felice, poiché il tempo introduce un elemento di concretezza, che rischia di sfociare nell’empirico e confondere di nuovo i diversi livelli di astrazione. In ogni caso, per tornare alla nostra questione, il lavoro non è per nulla affatto l’unico elemento creatore di ricchezza, poiché questa appartiene sicuramente al “mondo” concreto-empirico dei beni prodotti per soddisfare i bisogni umani (sia pure di uomini fra loro in rapporto nell’ambito di società storicamente determinate). Marx non era “un fesso” e sapeva che il lavoro non crea nulla dal nulla; nella Critica al programma di Gotha si incazza come una iena leggendo la formulazione lassalliana secondo cui al lavoratore deve essere tornato, sotto forma salariale, l’intero frutto del suo lavoro. Marx ulula, ricordando che la ricchezza non è solo frutto del lavoro, e che bisogna ricostituire tutto ciò che si è consumato (appunto, anche in termini di Natura) per produrla; oltre, ovviamente, a ciò che va detratto per le spese generali della società, per investire e allargare il ciclo della riproduzione, ecc. Se uno non ha letto nulla di Marx, salvo qualche sunto Cetim redatto da un fessacchiotto, perché si ostina a criticarlo? La critica va lasciata a chi lo conosce.
Tuttavia, pure sul punto di cui si sta discutendo, siamo sicuri che abbia senso dibattere oggi una questione del genere? Penso di no, non la vedo tanto differente dall’accapigliarsi sul problema della trasformazione.
3. Ci sono poi quelli che parlano di capitalismo “assoluto”. Onestamente, non mi sono più che tanto soffermato sulle loro argomentazioni. Non so veramente a che cosa serva discutere di un capitalismo assoluto; un po’ di sobrietà è richiesta. Ho accennato prima alla differenza tra architetti e geometri. Se tuttavia un architetto, preso dalla smania artistica e culturale, mi costruisce una casa con tanti arzigogoli da essere impraticabile, inabitabile, debbo prendere un materasso, lenzuola, coperte e quant’altro, e trasferirmi in giardino (se ne trovo uno nelle vicinanze). E veniamo pure alla questione oggi di moda presso gruppetti di intellettuali “scontenti” del mondo moderno, che sono ri-
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gorosamente bipartisan. Mi riferisco al problema della decrescita, del degrado dell’ambiente, ecc.; problemi fra loro collegati, che si tengono “insieme”.
Sono sicuro di non essere un patito del “progresso” (inteso nel senso dello sviluppo tecnico-scientifico), e nemmeno mi sento più che tanto appassionato al mondo come lo vivo oggi in questo “occidente” che mi sembra in forte declino. Vivo poi in Italia, che è il paese peggiore di questo “occidente” (almeno fra i paesi a maggior sviluppo; perché se vivessi in Romania, Bulgaria, ecc. non so che cosa penserei). Vi sono tuttavia alcune “questioncelle” che non quadrano nel ragionamento di certuni. Partiamo dalle più banali.
Da quando sono nato (si fa per dire), sento annunciare sciagure e disastri ambientali legati a questo “cattivo” uomo che non si rassegna a vivere in frugalità e senza bisogni “superflui” (solo la teoria neoclassica, e di un tempo che fu, distingueva tra bisogni primari e secondari; Marx non mi sembra sia mai stato ossessionato da simile problematica; forse perché dava importanza ai rapporti sociali e non discettava sul primato della produzione e offerta o invece del consumo e domanda). Vorrei si ricordasse che negli anni cinquanta fu il Club di Roma a predire l’esaurimento delle risorse entro la fine del secolo. Il problema non sta soltanto nell’errore di previsione, ma pure nel fatto ben noto che tale Club era emanazione della Trilateral, che è come dire il gruppo Bilderberg, una vera mafia internazionale del grande capitale, in particolare quello finanziario. Fra i “più preoccupati” per i guasti all’ambiente vi sono oggi Al Gore, Bill Gates, quell’istituto di “beneficenza” che è la Goldman Sachs (ben nota, in specie in Italia, per quello che sta combinando anche politicamente) e soprattutto Soros, il “capitalista buono” (come Marchionne), che con la sua banda ne ha combinate molte e ultimamente ha tramato – per fortuna senza grande successo – per mettere il Kazakistan contro la Russia. E’ così difficile capire a che gioco giocano i capitalisti americani finanziatori di campagne per l’ambiente e sicuramente interessati alla decrescita (degli altri)?
Sono anche stufo di sentire di imprecisati gruppi di scienziati, nell’ambito dell’ONU (è noto chi controlla quest’altra istituzione di “beneficenza”?), che annunciano, tramite i vari TG e giornali dei servi degli USA, catastrofi di tutti i generi: buco dell’ozono, innalzamenti vertiginosi della temperatura (ma negli anni settanta si prevedeva invece l’imminente glaciazione) con scioglimento dei ghiacci (anzi adesso, entro trenta anni, esploderà la calotta artica; bum!) e innalzamento del livello dei mari; ogni volta affermando che vi è l’estate o l’inverno più caldi o più freddi o più piovosi o più aridi da 100, a volte 200, anni a questa parte (ma quando sono cominciate le serie e attendibili rilevazioni dei dati sul clima?). Recentemente si è tenuta a Roma la comica e indecorosa riunione organizzata da quel “bel tomo” di Pecoraro Scanio (su cui non dico altro per evitare querele, ma qualcuno dovrebbe pur aver sentito “qualche voce”), riunione sbeffeggiata dal fratello di Prodi (il fisico) e dagli altri scienziati italiani (e non solo).
Battaglia ha sfidato in TV Rubbia, ma questi – che porta avanti i suoi progetti “solari” con una società, in cui forse non è del tutto esente da cointeressenze – si è ben guardato dall’accettare. Perché i giornalisti asserviti e di regime non organizzano invece dibattiti del genere, coinvolgendo un numero crescente di scienziati, con tanto di nome e cognome? La gente ne capirebbe tanto quanto ne capirei io, ma qualche idea si può ricavare da uno scontro anche acuto; e comunque sono stufo di sentire blaterare sull’argomento solo incompetenti come Latouche o De Benoist, Galimberti o Capanna (assieme al grande Severino; grande però come filosofo dell’Essere, non certo su problemi scientifici e simili). Basta con l’approssimazione e la chiacchiera di persone che se ne stanno al caldo sputando su tutto ciò che ci ha reso queste comodità, di cui usufruiscono abbondantemente e senza ritegno. Mi dispiace, ma non abbiamo a che fare con persone serie; chiacchierano perché hanno la bocca e la penna “facile”. Del resto, tanto per fare un esempio, oggi si pretende di curare anche i problemi psichici con la filosofia; siamo all’en plein di “dottor Dulcamara”. Questa è la realtà della decadenza occidentale, che non è tanto quella dell’ambiente quanto, assai di più, quella della cultura e della sensatezza; dominano l’improvvisazione e le ciance dei tuttologi!
Anch’io spesso avverto il desiderio di un tuffo nel mondo di cinquanta o anche meno anni fa; semplicemente perché oggi vi è un mare di “affabulatori” che si fanno passare per maîtres à penser:  questo è il “livello dei mari” che si sta innalzando a causa dello scioglimento di quei “ghiacciai” che sono i loro cervelli. E tale degrado avanza di pari passo con quello della (im)moralità degli agenti capitalistici, privi di quel minimo di decoro che ancora manteneva la “borghesia”; oggi abbiamo solo banditi come “nella Chicago degli anni ’20” (frase detta da chi ci sta in mezzo e se ne intende). E qualche brava persona di sedicente ultrasinistra, ormai delusa perché tutti i suoi miti sono finiti nella “spazzatura della Storia”, si aggrappa al disastro prossimo venturo che dovrebbe provocare la catarsi. Mi dispiace, ma così si diventa patetici. Si è predicato intorno alla Classe universale, emancipatrice dell’intera umanità; poi sull’accerchiamento delle cittadelle capitalistiche da parte delle meravigliose masse diseredate e affamate del terzo mondo; adesso ci si inventa imprecisati movimenti di moltitudini che dovrebbero sconvolgere un capitalismo amebico – privo di centri (statali) di potere, invece sussistenti come sempre – ed essere prossimi a sotterrarlo. Oppure si pretende di farsi “cavare le castagne dal fuoco” dal degrado dell’ambiente che dovrebbe convincere le genti – ivi comprese le sterminate masse cinesi e indiane, che aspirano al contrario – a preferire la decrescita, a diventare frugali, a consumare sempre meno, a coltivare le ciliegie nell’orto vicino casa invece che produrle altrove e importarle, e altre banalità simili.
Darò a questi personaggi il consiglio che suggerì il finto folle Amleto alla povera Ofelia, impazzita per davvero: “Va in convento”. E’ il posto per questi individui. Quando sono in buona fede (e non sembrano in molti ad esserlo), sono tristi, sconsolati, amari, piegati (e piagati) a causa dei loro sogni infranti; e nel contempo, quindi, anche rancorosi, acidi, noiosi, attaccaticci, petulanti. Stacchiamoceli di dosso, andiamo oltre. So che non è un bel mondo quello in cui viviamo ma penso che lo sfascio sia più sociale, civile, culturale che non legato allo sviluppo. Non credo in un progresso solo tecnico-scientifico; resto però convinto che il segno (positivo o negativo) non debba essergli assegnato semplicemente in sé, bensì in relazione alla politica, alle strategie della lotta che bisogna riscoprire dopo il fallimento della trasformazione comunistica. Non do alcun credito ai presunti destini della Tecnica che ci avrebbe ormai segnato, indirizzandoci alla catastrofe.
Come si sarà notato non ho fatto riferimento alla geopolitica, al problema delle nuove potenze che crescono “ad est” e senza le quali non ci scrolleremo mai di dosso la supremazia statunitense. Se aspettiamo le “moltitudini”, stiamo freschi. E’ invece necessario che Russia, Cina, India, ecc. si rafforzino; e non lo faranno certo con la decrescita. Comunque, non mi sono servito di tale argomentazione, perché quelle tesi sono a mio avviso molto deboli anche in se stesse, non mi pare proprio possano risolvere i problemi di una lotta per la trasformazione dei rapporti sociali, in particolare nei paesi a capitalismo avanzato di quel genere che ho definito formazione dei funzionari del capitale.
4. Infine, ci sono quelli che trattano Marx da utopista perché pensava che, in una società comunista – se potesse mai venire ad esistenza, sarebbe evidentemente una società senza più classi dominanti e dominate, quindi senza bisogno di repressione, di “egemonia corazzata di coercizione” (Gramsci) – non sarebbe sussistito lo Stato. Su questo punto almeno, Lenin – con buona pace di Zolo – ha capito benissimo Marx. Lo Stato è uno strumento della classe dominante (nel capitalismo, secondo il marxismo, si tratta di quella proprietaria dei mezzi produttivi) ai fini della repressione dei dominati (la classe operaia) e della difesa dei suoi interessi. Bello sarebbe un comunismo in cui ci fosse ancora bisogno dello Stato! Personalmente non credo che il comunismo rientri negli orizzonti “umani”; e comunque mi basta, e avanza, che non rientri negli orizzonti dei prossimi decenni. Solo alcuni spudorati mentitori, al servizio dei dominanti (quelli imperialisti e non solo capitalisti), oppure degli esaltati dalle loro stesse elucubrazioni o degli ingenui adusi ad autoilludersi, diffondono la fola delle moltitudini già oggi comuniste. Tuttavia è certo che, se potesse un giorno esistere il comunismo, non avrebbe alcun senso pensare alla persistenza di un organo di repressione, di egemonia (corazzata di coercizione).
Tutti i marxisti (e perfino gli anarchici) hanno sempre ammesso la necessità che esista un organo di amministrazione degli affari generali della società. Non hanno tuttavia mai confuso quest’organo con lo Stato. E’ dunque gravemente errato (se non peggio) nascondere il vero carattere di quest’ultimo (in quanto organizzatore del dominio di classe, e sua difesa da ogni possibile attacco, interno ed esterno). Si rischia di favorire l’ideologia dominante interessata a diffondere la menzogna, secondo cui lo Stato ha quale principale funzione l’organizzazione e l’amministrazione degli affari sociali generali. Vengono messi in sordina i “distaccamenti speciali di uomini in armi”: polizia ed esercito. Ci si affanna a diffondere l’idea che i Tribunali (la magistratura tanto indipendente; e lo si vede anche in questi ultimi giorni in Italia!), le carceri, ecc. farebbero parte di un orizzonte eterno e immutabile di ogni struttura dei rapporti sociali. Per il marxismo, invece, tutto questo è lo Stato in quanto strumento di una classe (minoritaria) dominante sulle altre; si può criticare tale impostazione (e personalmente lo farò, prima o poi), a patto però di rispettare intanto ciò che hanno affermato realmente tutti i marxisti. Abbiamo visto sopra quanto scriveva Marx nella Critica al programma di Gotha in merito alla impossibilità di tornare ai produttori, pur in una società senza dominanti e dominati, l’intero frutto del loro lavoro; e, fra le detrazioni da operare, indicava appunto ciò che è necessario per l’amministrazione degli affari della società nel suo complesso (non però, evidentemente, per approntare e alimentare gli strumenti di repressione dei dominati da parte dei dominanti; non però, quindi, per mantenere lo Stato).
Sono obbligato a difendere persino Smith dalla critica di un Rosanvallon – già “geniale” esaltatore, nel ’68 e dintorni, dell’autogestione operaia alla Lip (se non ricordo male, produttrice di orologi) e oggi divenuto…..quello che è divenuto – tesa a sostenere che il fondatore della scuola “classica” in economia aveva una concezione utopica del capitalismo, in quanto considerava l’operare della “mano invisibile” (mercato), dimenticando o sottovalutando – anche lui – lo Stato. Uno sfoglia la Ricchezza delle nazioni e constata subito che tutto il libro V (Dell’entrata del Sovrano o della Repubblica, 240 pagine nell’edizione in ottavo grande della UTET) è dedicata allo Stato e alle sue indispensabili funzioni. Non si può certo pensare che Smith ne parlasse come di una Istituzione con carattere di dominio di classe; tuttavia, egli sapeva benissimo che nessuna società del capitale sarebbe stata in grado di funzionare con il semplice mercato, senza precise regole gestite e fatte rispettare da una autorità suprema (non lo si confonda con il russo Eltsin, fautore del locale “capitalismo selvaggio” tipico del primo decennio successivo al crollo del “socialismo reale”). Per Smith, come per qualsiasi altro pensatore liberale e liberista (si pensi anche ad Hayek), lo Stato (non visto come organo di classe, certamente) è fondamentale e non se ne può prescindere.
In definitiva, né Smith né Marx nutrivano alcuna forma di utopia; erano di una estrema concretezza e realismo. Hanno formulato teorie che adesso critichiamo come insufficienti o anche magari sbagliate; ma non erano utopisti e trattavano la società dei loro tempi con una “adesione ai fatti” da cui tutti noi avremmo molto da imparare, poiché abbiamo la vista assai alterata da tutte le false e sognanti credenze degli ultimi cinquanta e passa anni. Siamo saccenti, approssimativi, chiacchieroni a vanvera, non abbiamo nemmeno il 10% della serietà e capacità di analisi (concretissime) di quei pensatori e nel contempo anche “applicatori” delle loro teorie.
5. Personalmente, sono dell’opinione che convenga, tutto sommato, prendere Marx per quello che lui stesso pretendeva di essere: uno scienziato (ovviamente sociale); egli pensava probabilmente di avere elaborato una sorta di teoria generale dello sviluppo (e trasformazione) delle società. Althusser affermava che il fondatore di quello che fu poi chiamato “materialismo storico” aveva aperto alla scienza il Continente Storia. Probabilmente non aveva torto; comunque, Marx ha stabilito alcuni criteri generali (di carattere strutturale, dando il primato a quella struttura definita rapporti di produzione) per l’interpretazione della dinamica evolutiva di diverse formazioni sociali, nell’ambito di una linea di scorrimento temporale caratterizzata dal mutamento di ognuna di queste in una successiva. Lascio perdere quanto di deterministico e quanto di casuale vi fosse nel passaggio dall’una all’altra; su questo problema si è discusso nel secolo scorso persino troppo. Oggi mi sembra utile prendere soprattutto in considerazione l’analisi della formazione sociale a modo di produzione capitalistico (con i correlati rapporti), alla quale del resto Marx dedicò la maggior parte (e di gran lunga) del suo tempo e della sua riflessione, credendo di individuare nel suo dinamismo interno l’emergere delle condizioni che avrebbero condotto al comunismo, definito appunto – proprio per questa sua intrinsecità al capitalismo – il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.
Se si tratta Marx da scienziato, e non si cercano in lui altre “assicurazioni” d’ordine diverso, esiste ancora l’utilità di leggere e rileggere tale pensatore (e rivoluzionario). La scienza è però una strada che, una volta intrapresa, non ha mai termine (fino a quando non scomparirà l’umanità); è sempre in salita (più o meno ripida), ha periodiche (più o meno frequenti) svolte, o dolci o brusche; trova inoltre spesso il cammino impedito dal rovinio di abitacoli già edificati con la necessità di effettuare più o meno repentine deviazioni. In ogni caso, non si acquieta mai; le varie teorie non vengono, in genere, semplicemente buttate nel cestino dei rifiuti, ma certo si individuano in esse, con il senno di poi, lievi o gravi errori o dimenticanze o fraintendimenti o eccessive semplificazioni, ecc. E occorrono quindi mutamenti radicali. Se invece si ha bisogno di sentirsi gratificati dall’annuncio profetico della liberazione dall’oppressione o dell’avvento di una superiore Etica o di non so quali altre mirabolanti conquiste umane (che non si sono mai verificate, visto che, per fare un solo esempio, si ammazza oggi con maggior gusto e soddisfazione di ieri e con metodi puliti, asettici, estremamente perfezionati), allora l’opera dello scienziato non basta alla bisogna. Si ritiene perciò necessario cercare in Marx Verità più durature, anzi eterne; e chi crede di non essere religioso, magari le ricerca allora nella certezza di “dimostrazioni matematiche”. Oppure, in modo più specificamente filosofico, si spulcia qualche scritto di Marx fra i meno pregnanti e i meno riusciti della sua carriera di studioso della società.
Resto convinto che così si annienta Marx, lo si rende inservibile, salvo che per mantenere in piedi o piccole nicchie di rendita accademica o minuscole sette di disperati, sempre più isolati e sempre più amari e pieni di rancore verso chi non li fila per niente e non segue la loro predicazione da autentici forsennati. Se si vogliono alimentare ancora “principi Speranza” o convincersi che i “diseredati” comprenderanno matematicamente quanto sono sfruttati, e per ciò stesso faranno un putiferio, è perfettamente inutile rileggere Marx; c’è di meglio per perfezionare la propria sterilità. Sia chiaro: non ho mai creduto che le grandi masse si muovano con la scienza. Ci vuole qualcosa di molto più “caldo” ed “emozionante”. Debbono sussistere certamente le cosiddette condizioni oggettive che risiedono solitamente in situazioni di profondo e generale disagio, ad un certo punto ritenute dalla maggioranza non più tollerabili. Agendo in tali condizioni, i gruppi che dirigono strategicamente la “rivoluzione” (e senza dirigenza si finisce in un cul di sacco e si consente una schiacciante vittoria delle minoranze conservatrici e reazionarie) debbono però saper infiammare gli animi, infondere fiducia, indicare obiettivi di giustizia, esaltare valori ideali, convincere che si sta aprendo una nuova era della storia dell’umanità; non si otterranno certo simili risultati sbandierando i concetti della scienza marxiana della società.
Tuttavia, la scienza serve prima, durante e dopo; è necessaria al fine di comprendere quali sono le forze in campo e in quale situazione ci si trova: se di lontananza dalle suddette condizioni oggettive o invece di un loro approssimarsi, di quale tipo di condizioni si tratta e quali obiettivi si possono conseguire agendo in esse, ecc. Ogni passione che infiamma deve essere preceduta dalla freddezza di analisi e deve sfociare poi nell’ulteriore freddezza della valutazione di ciò che è indispensabile a stabilizzare la situazione nell’eventuale caso di successo. E anche durante il breve periodo della “fiammata”, bisogna alimentarla ma nel contempo valutare i vari passi che si compiono e se conviene andare avanti, puntando al risultato finale, o ritirarsi o comunque arretrare per consolidare date posizioni. In tutto questo arrovellarsi (di una direzione strategica), la scienza conta, eccome! Quella iniziata da Marx è a mio avviso decisiva. Sapendo tuttavia, come già rilevato, che ogni teoria scientifica invecchia, mostra le sue imperfezioni, i limiti, i punti di vista da mutare nella selezione dei “fatti reali” (mai rilevabili in sé e per sé), gli errori, le dimenticanze, il suo riferirsi a periodi storici di quella data società ormai superati e lontani, e via dicendo.
Per quanto mi riguarda, torno a Marx ben conscio che questi è irrimediabilmente “invecchiato”, pur se posso analizzare il capitalismo prendendo le mosse dalla sua impostazione di fondo, senza però seguire certe sue ipotesi circa la dinamica capitalistica, che non produce per sua intrinseca natura alcuna condizione di base per l’avvio di una trasformazione in direzione del socialismo e comunismo. E sono altrettanto consapevole di essere fedele a Marx proprio così comportandomi, giacché questa è la fedeltà dovuta ad uno scienziato, che non è profeta né capo di una religione o di una Chiesa. Non si tratta di seguire semplicemente il metodo di una certa impostazione scientifica, c’è qualcosa (molto) di più: l’entrare in quella forma mentis, l’indagare la società con quel costume d’analisi, il porsi quell’obiettivo che Marx espresse – forse in modo frettoloso, ma a mio avviso accettabile – con l’affermazione ben nota secondo cui “i filosofi hanno finora solo interpretato il mondo, adesso è arrivato il momento di cambiarlo”. Non ha senso perseguire attualmente il fine della trasformazione comunistica; se lo facessimo, andremmo al buio e saremmo quindi votati alla piena sconfitta. Dobbiamo pensare nell’orizzonte di qualche decennio, ed è già tanto. In quest’ambito, tuttavia, è indispensabile immaginare la società nella sua articolazione per raggruppamenti sociali e nell’interrelazione tra diverse aree e formazioni particolari (paesi, nazioni, ecc.).
Ho usato volutamente immaginare. La società non ha raggruppamenti, non è divisa da ben delineati confini in tante parti fra loro distinte; non lo è né in orizzontale né in verticale (e anche queste sono metafore, perché la società non è disposta spazialmente in questo modo). L’analisi, seguita dalla costruzione di una configurazione (immagine) semplice, cioè scarna, viene effettuata in base a date griglie teoriche che approntiamo ritenendole le più adeguate a promuovere (e, nei casi possibili, dirigere) una attività di trasformazione verso obiettivi, che ci siamo posti già prima dell’elaborazione teorica, e tuttavia in modo ancora confuso in questa prima fase; mentre poi li andiamo mettendo a fuoco in modo più definito, stagliandoli e distaccandoli da uno sfondo fluido e indistinto di possibilità, nel mentre precisiamo nel contempo la struttura e gli ambiti della teoria in formazione. Quella originaria di Marx, seguita dai comunisti per un secolo e mezzo, ha dato impulso a molti “gruppi di azioni”, andando incontro infine ad un fallimento pressoché generale (e non so bene perché dico “pressoché”; forse per un residuo di “credenza” non ancora cancellato). Dobbiamo oggi rivedere gli obiettivi, le azioni e dunque le elaborazioni, relativi ad una immagine teorica sia della struttura delle diverse formazioni capitalistiche in reciproca interrelazione nello spazio, sia della loro dinamica evolutiva nel tempo.
E qui mi fermo, perché si tratta appunto del lavoro già avviato da almeno un 10-15 anni, e sul quale continuo a chiamare a raccolta i più giovani (finora certo pochi rispondono), che avvertano l’urgente desiderio di uscire dalle secche di una ripetizione del già fallito o della riproposizione di speranze ormai vane, non rinunciando però alla critica serrata di una società, senza dubbio sempre più sfatta e incivile, e alla volontà di trasformarla (nei limiti delle nostre possibilità). Direi di finirla sia con l’“elaborazione del lutto” per la “morte del comunismo” (già avvenuta da un pezzo) sia con l’aspirazione a chissà quale catarsi epocale. Ci avviamo verso nuove tragedie (e meno male! Scusate la mia sincerità) e ad esse dobbiamo attrezzarci, più che non ai sogni del “Paradiso in terra”, del “Sole dell’avvenire” e di altre “congetture emozionanti”, cui non è detto però dobbiamo rinunciare sul piano di quegli slanci ed entusiasmi che sono il sale della nostra vita. L’importante, per dirla con il solito stereotipo, è non confondere la poesia con la prosa. Non si spengano i sogni, solo non li si sostituisca alle possibilità reali. E’ inutile voler affermare, solo intellettualisticamente, la nostra unitarietà: in noi sussiste, idealmente, un certo dualismo, e nemmeno la più perfezionata delle teorie scientifiche ci muoverebbe all’indignazione e alla volontà di sotterrare questi sporcaccioni di dominanti attuali. Però, diciamo se volete purtroppo, abbiamo bisogno anche di “grigia” teoria e di lucida freddezza. Odiamo e, insieme, analizziamo e valutiamo; proprio affinché l’odio giunga un giorno (magari non per noi, ma per “coloro che verranno”) a saziarsi.
Pubblicato sulla rivista “Comunismo e Comunità” Gennaio 2008 N. 0