PRIMA DI TUTTO (di Giellegi 2 aprile ’11)

Prima di affrontare altri problemi di questa fase storica sempre più complessa, e ormai nuova pur con la presenza di vecchie stimmate ben riconoscibili, è necessario porre in netto risalto l’indecenza ormai totale e non più rimediabile degli schieramenti detti politici odierni, in particolare di quelli definiti come “sinistra”; anche di quelli che ancora si pretendono comunisti o qualcosa di simile. Ormai purtroppo gli ultimi resti di un grande movimento storico hanno insozzato il nome “comunista”, esattamente come gli ultimi anarchici sputtanarono un movimento con cui non sono mai stato d’accordo, ma che comunque aveva una sua precisa dignità. Oggi come oggi, ritengo obbrobrioso continuare ad usare il termine comunista; non si può far altro che sporcarlo sempre più.

Innanzitutto, onde evitare inutili disquisizioni, dico subito che è assurdo ancora discutere con linguaggio inappropriato, suggestivo, impreciso, sfuggente, usando termini quali popolo, masse, umanità e in genere altri nomi “collettivi”. O per meglio dire: ci sono contesti di semplificazione in cui essi si possono impiegare, nello stesso senso in cui spesso parliamo di Italia, Usa, Russia, ecc. A volte siamo del resto pure usi indicare un nome per intendere un paese o un dato gruppo dominante, ecc. Parliamo di Obama, di Putin, di Berlusconi; oppure andando al passato: Mao, Stalin, Lenin, De Gaulle, Roosevelt, Churchill, ecc. ecc.

Non si può fare a meno di utilizzare simili semplificazioni, ma si deve fare attenzione ai contesti in cui si usano e soprattutto non ci si deve far fuorviare né voler fuorviare gli altri mutando senso all’impiego fatto. Questo è particolarmente evidente nella malafede con cui si è cianciato in questi ultimi tempi di rivolte di “popoli arabi”, di “risorgimento arabo”, e altre espressioni che conducono a caricare subito di valore positivo un evento, senza più bisogno di farsi carico di una qualsiasi analisi; o, quasi ancor peggio, producendo un’analisi molto schematica dopo aver però creato intanto nel lettore la netta impressione della positività dell’evento, in cui un “popolo” (il che sottintende: tutto il popolo) si è ribellato, solitamente a qualche “dittatore” o, quando si compie perfino un certo sforzo di spersonalizzazione, a un regime dittatoriale, autocratico, e altri termini consimili che devono subito indurre ad alzare osanna per il popolo ed esecrazione per il tiranno (o gruppo tirannico).

Ovviamente, si apre così la strada ad altre sottili mistificazioni. Se il tiranno, il regime autocratico, ecc. resiste, pur avendo il popolo (tutto il popolo) contro, è evidente che deve star pagando dei mercenari per difendersi dalla rivolta di questo popolo (tutto intero). Se nei bombardamenti contro il tiranno vengono uccisi membri del popolo (i “civili”, che non possono non essergli tutti avversi), o si tratta di modesti effetti collaterali oppure è stato il “Cattivo” ad utilizzarli come scudi umani. Non tutti quelli che parlano dei “magnifici popoli in rivolta” contro i gruppi dominanti (che dominano senza consenso alcuno, per definizione) osano trarre subito l’insieme delle conclusioni appena esposte; alcuni si fermano per intanto ad osannare i popoli in rivolta. Però, quando si comincia con simili svarioni, nel 90% dei casi arriverà il momento in cui si parlerà dell’oppressore che si serve di scherani per mantenersi al potere contro il popolo, che usa quest’ultimo come scudo umano, per cui è ancora più giustificato chi aggredisce questo “maledetto” con tutte le armi a disposizione.

Se si arriva a sostantificare in modo così vergognoso il popolo o le masse – oppure all’incontrario, di fatto lo stesso atteggiamento (antitetico-polare), se si denuncia un dato personaggio quale causa di ogni male di una società; tipico esempio, ormai di scuola, l’uso fatto di Berlusconi, non come effetto della degenerazione legata al rinnegamento di ogni principio politico e morale da parte della sedicente sinistra, ma come causa di tale degenerazione cui si opporrebbero quelli che sono invece i veri agenti patogeni nella nostra società – si è prodotto l’oscuramento totale dei reali motivi di certe azioni, che in genere sono quelle dei gruppi dominanti in aggressione: non dei “popoli” (non ripetiamo la stessa oscenità dei nostri nemici), ma di un assetto di rapporti sui quali si è retto un certo equilibrio necessario al predominio dei gruppi aggressori in questione. Quell’equilibrio, nella strategia dei dominanti che poi aggrediscono, si basava o su strutture politiche ad essi subordinate ma non più adatte ai “nuovi tempi” (in realtà, più semplicemente, alla nuova strategia d’attacco per non perdere la precedente supremazia) o su strutture che favoriscono gruppi nemici, anche se non nell’immediato; cioè nemici attuali o solo futuri ma che è bene depotenziare fin d’ora.

In casi come questi, cianciare di popoli o masse (a volte, per renderle ancor più positive, dette lavoratrici; nascondendo con questo termine generico un mondo specifico e strutturato, nel cui ambito non tutto è positivo) è un colossale imbroglio. E’ come delimitare un campo (di lotta) indicando il semplice perimetro esterno; senza che si conosca nulla di come il campo è strutturato (di come lo si pensa strutturato, perché la realtà non ha struttura, entità statica per eccellenza, che al massimo noi rendiamo “mobile” con la cinematica, impropriamente definita dinamica, ricorrendo spesso al calcolo differenziale, per infinitesimi di variazione da uno stato all’altro). E’ come costruire un bel mappamondo con tutti i vari paesi ben disegnati nei loro confini. Sappiamo allora qualcosa di Italia, Egitto, Pakistan, India, ecc.? Oppure costruiamo una bella mappa di città (Roma ad esempio), in modo da poter trovare le strade e potervi girare, magari indicando pure la localizzazione dei vari monumenti da visitare. Utilissima la mappa, ma crediamo di conoscere con essa Roma, la sua società, la popolazione che l’abita, la sua “strutturazione” abitativa che ha una certa relazione con la struttura dei suoi diversi ceti sociali? E via dicendo.

Basta con queste puttanate. Non esistono in senso specifico i popoli, né tanto meno le masse. Si può parlare al massimo, pur in senso generico, di ceti popolari; perché tale termine rinvia, pur vagamente, a quelli maggiormente “plebei”, quelli dei suburbi o periferie, quelli a più basso livello di reddito e di condizioni di vita. Si può parlare di una moltitudine di qualche centinaio di migliaia di individui (su milioni che ne conta in genere un qualsiasi paese anche piccolo) che sono andati in piazza, non si sa attraverso quali mezzi di mobilitazione e se spontanea o meno. Siamo poi in regime di completa disinformazione come mai prima d’ora. Si costruiscono le scene di massa, le uccisioni, le famose “fosse comun
i”, le rivolte, ecc. secondo i mezzi così genialmente dimostrati nel film “Sesso e Potere”. Ci parlano di milioni – come anche quando i sindacati (pensionati) convocano le manifestazioni a S. Giovanni a Roma – laddove un simile numero contrasta con la legge dell’impenetrabilità dei corpi (anche supponendo che tutti gli eterosessuali si scopino e tutti i gay s’inculino; non è sufficiente questa compenetrazione).

Non sappiamo la composizione per età ma soprattutto per ceti sociali, perché non ci mostrano mai analitiche visioni dei vari comparti di folla, uno per uno, spazio dopo spazio, in primo piano e su campi lunghi scelti con intenti di oggettività, per quanto mai perfetti. L’alterazione, la falsificazione è invece di norma apertamente ricercata; così come mostrare immagini di repertorio già viste (e scordate) in altre occasioni. Mi fu facile scoprirlo ai tempi dell’esodo dei kosovari perseguitati in Serbia. Fidando nella totale disattenzione del “poppolo”, ripetevano in TV ogni due-tre sere, talvolta ogni sera, le stesse immagini raccontandoci che erano di quel giorno. E non parliamo appunto delle fosse comuni, delle esecuzioni, delle cariche della polizia; perfino eventi di anni prima, in occasioni del tutto diverse, talvolta in paesi diversi, fidando della scarsa attenzione della “ggente” alle divise, vestiti, ecc. E poi, tocco finale ed estremo in mancanza di altro materiale, la costruzione in studio della realtà “virtuale”. 

2. Altro concetto da demistificare obbligatoriamente è quello di democrazia, che fa del tutto a pugni con la politica. Non esiste quest’ultima se non nell’ambito di una serie di mosse condotte da attori (giocatori) che, perfino nel momento in cui attuano pratiche cooperative, non devono rivelare l’intero contenuto e modalità delle stesse. L’alleanza in quanto comunità di intenti – quelli più generali ed essenziali, sempre accompagnati da un necessario “premio” per se stessi, altrimenti addio azione comune – è in genere rivolta ad un vantaggio per i gruppi (o individui) alleati, che non possono non scontrarsi con altri. E, nello scontro, tanto più non vanno rivelate le proprie mosse. Se due giocatori di scacchi cominciano con l’intento di comunicarsi le intenzioni di gioco, è perfettamente inutile che si mettano a giocare. Ogni gioco richiede che “gli avversari” si affrontino; e nascondano perciò le proprie scelte di movimento, cercando invece, se possibile, di carpire quelle altrui. Pensate a quanti giocatori vi sono nella scacchiera mondiale. Un certo numero di potenze globali, poi quelle regionali, le subpotenze, i giocatori “sfigati” ma che tentano di fare da “camerieri” ai più potenti; anche il cameriere però non può rivelare tutte le mosse di servizio (agli altri o ad un altro) che intende compiere, altrimenti un più abile cameriere può batterlo sul tempo, migliorare il servizio, ecc. fottendogli il posto.

Può darsi, e non è del tutto sicuro, che in una comunità di qualche centinaio, forse migliaio, di persone, più o meno tutti si conoscano, riescano a dividersi cooperativamente i compiti essenziali della comunità, possano parlare apertamente delle loro intenzioni, ecc. Può darsi, ma non ne sono nemmeno tanto sicuro. In un caso come questo, tuttavia, non esiste la politica, non esiste alcun gioco né cooperativo né conflittuale (se non c’è conflitto, l’alleanza cooperativa ha un significato molto limitato, laddove per compiere certe attività “l’unione fa la forza”). Dove la collettività diventa più complessa (e intessuta di relazioni più complicate), esiste la necessità della politica, nel senso delle diverse mosse (strategie) per condurre il gioco in conflitto o alleanza (dove gli alleati devono comunicarsi soltanto lo stretto necessario per cooperare, altrimenti vi è il rischio di “fuga di notizie” verso gli avversari). Non è un caso che tutti gli Stati del mondo (“da quando esiste il mondo”, logicamente quello della società umana) si dotino di un apparato, i Servizi (sottinteso: segreti, di intelligence), del tutto fondamentale, pena la disgregazione di quel dato “comparto di società” a causa dell’azione di chi è più informato rispetto agli altri e sa meglio difende i propri “segreti” dagli altri. Se andiamo alle imprese o ad una qualsiasi associazione umana che compete con altre (anche una squadra di calcio o di ciclismo, ecc.), l’apparato di spionaggio (e di difesa da quello altrui) è sempre più o meno sviluppato e perfezionato, ma mai del tutto inesistente.

Se una popolazione di milioni di individui deve essere chiamata – e ogni tanti anni – a scegliere tra “squadre” o “associazioni” diverse, deve farlo senza essere a conoscenza delle mosse che esse compiono per prevalere l’una sull’altra tramite l’attività che, in tal caso, è quella realmente definibile politica. Ben nota la scappatoia: alla fine del periodo in cui gli elettori hanno nominato una “squadra” di governo, questa verrà giudicata per il suo aver fatto o meno gli interessi della popolazione. Quest’ultima non è omogenea, è divisa in gruppi con interessi diversi, talvolta divergenti od opposti. Nuova scappatoia: i vari gruppi giudicheranno gli eletti in base ai loro interessi difesi o meno da questi ultimi. I critici di tale scappatoia obiettano che in realtà, oggi, chi ha in mano gli “onnipotenti” mezzi di informazione di massa riesce a far credere ciò che vuole ai suoi elettori, anche la presunta difesa dei loro interessi mentre in realtà li turlupina o perfino danneggia. Una “mezza verità” che, come al solito, spesso diventa una effettiva falsità.

Il problema non è l’inganno tramite informazione. Per carità, esiste pure tale inganno – in questi giorni, con riferimento al Nord Africa, lo vediamo all’opera indefessamente – ma da solo non funzionerebbe a dovere. La difesa degli interessi di “collettività” numerose e complesse (segmentate e stratificate con molteplici interrelazioni) non avviene a mezzo dell’elezione di chi rappresenta i diversi strati e segmenti. Questa logica, detta “corporativa”, funziona a malapena sul piano “sindacale”. E anche su quest’ultimo, chi viene eletto ai vertici dell’associazione non può né deve rivelare le proprie mosse nel gioco strategico multiplo in corso di svolgimento; il suo successo o meno non è facilmente giudicabile e giudicato nel corso di brevi periodi e in base a successi o insuccessi chiaramente definiti e identificabili dalla maggioranza degli associati (salvo appunto che si tratti di piccole, minime, associazioni). Se poi ci si riferisce a popolazioni di interi paesi, è semplicemente ridicolo pensare che si sia in grado di valutare con sufficiente grado di approssimazione i risultati positivi o negativi ottenuti da certi vertici “eletti”, sceverando quali sono gli interessi realmente difesi con successo, quali invece ignorati, quali perseguiti ma non raggiunti per impossibilità “oggettive” (magari per il fatto di essere in minoranza; per cui una minoranza inefficiente o disonesta può accampare la scusa del suo essere minoranza e continuare a chiedere e godere dell’appoggio degli elettori), ecc.

I vertici “eletti” hanno alle spalle in genere ben altri vertici con poteri
economici, politici, alleanze trasversali tra gruppi apparentemente nemici, capacità di sostituire gli eletti che avessero scontentato i loro elettori con altri apparentemente “rinnovati”, servitori degli stessi vertici di potere assai più discretamente disposti dietro le quinte. Insomma, non vorrei adesso continuare con una casistica specifica, che è perfino impossibile esemplificare con metodo di esaustione. Gli elettori, chiamati “democraticamente” alle urne, non hanno possibilità alcuna di controllare le mosse di numerosi attori in gioco. Ma tale non controllo (cioè non conoscenza) è essenziale, lo ripeto, affinché ci sia la politica; altrimenti, se il gioco divenisse scoperto, se non esistesse “segreto” per quanto riguarda le proprie mosse nel gioco, la politica scomparirebbe. Parlare di “politica democratica” è un ossimoro. Qualora ci potesse essere vera democrazia (cioè sostanziale trasparenza), non esisterebbe politica; e dove infine questa viene in evidenza, e quanto più essa assume rilevanza in una società, la democrazia (elettorale) è un puro flatus vocis.    

In linea generale, quando non esiste un contrasto troppo acuto tra gli attori dotati di effettivo potere decisionale, o quando uno degli attori ha un potere decisionale nettamente superiore nell’ambito di una certa area più o meno ampia di riferimento (un paese o un sistema di paesi, ad es. il “campo capitalistico occidentale”, ecc.), sussiste di fatto una situazione monocentrica (o monopolare), dotata di sufficienti pesi e contrappesi regolatori; in tal caso le elezioni “democratiche” solleticano l’amor proprio dei “cittadini”, creano in loro benefiche illusioni, e non provocano eccessivi disturbi al “governo del gioco” secondo certe direzioni o versi di scorrimento delle successive mosse. In certi casi, però, si crea la situazione contraria e allora sono dolori. Le elezioni diventano solo una delle mosse di uno scontro squilibrante, possono essere minacciate o anche svolte effettivamente, ma sempre come paravento di altre scelte e decisioni dotate di ben altra pregnanza se si vuole ritornare ad un governo minimamente equilibrato del gioco, che esige però allora il reale predominio di uno degli attori. Se nemmeno questo è possibile, resta la scelta estrema: l’uso dei reali apparati che di un complesso sistema degli stessi fanno uno Stato in senso proprio per imporre date regole del gioco, certamente a favore dell’attore in grado di usarli appropriatamente a tal fine. O altrimenti è necessario il totale rivoluzionamento di quel sistema di apparati con l’assegnazione del controllo di quelli fra questi, che costituiscono appunto lo Stato in senso proprio, ad un totalmente diverso attore che prima era in pratica messo “fuori del gioco”.  

In ogni caso, la “democrazia” è il trastullo, tuttavia necessario da ormai oltre un secolo nelle formazioni di una certa tipologia, dietro il quale si nasconde la vera politica, che deve nutrirsi di strategie nascoste, nient’affatto “visibili ad occhio nudo”, pena l’annullamento del gioco e il caos completo. In realtà, tale evento non si verifica mai. Il caos non nasce dalla fregola dei vari giocatori di dimostrarsi onesti e trasparenti presso i propri elettori; si manifesta solo quando essi entrano in collisione aperta e non mediabile. Il caos perdura fino a quando uno di essi (o l’alleanza fra alcuni) prevale infine, rovescia la scacchiera, altera le regole precedenti (o le sospende tutte salvo quella della propria insindacabile, e allora non più “democratica”, decisione).

Occorre veramente una nuova analisi dello Stato; questa la conclusione sia pure provvisoria. Le banalità sconfortanti di questi ultimi anni siano di insegnamento, in specie per i più giovani; inizino fin d’ora ad essere disincantati e ad abbattere le insulse false credenze su questa pantomima che è la “democrazia”. Si affermino le ragioni della politica, che non ammette questa “democrazia” (elettorale), se non come semplice forma, in pratica inessenziale o quasi; solo fonte, in condizioni di “equilibrata tranquillità”, di passivo consenso da parte di cittadini posti al di fuori della “città della politica.