PRIMA E DOPO

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Nell’agone politico, alcuni eventi, più di altri, rivelano lo spessore di un ceto politico e dei loro cantori. Di per sé potrebbero anche non essere cruciali; gli elementi rivelatori sono la rappresentazione offerta e l’importanza ad essi attribuita dalla retorica partigiana.

Il recente Consiglio Europeo è uno di questi momenti; su questo il Corriere ha costruito una vera e propria campagna mediatica all’interno della quale trovano la loro collocazione emblematica due editoriali: uno di Angelo Panebianco, precedente e l’altro di Ferruccio de Bortoli, attuale direttore del quotidiano, successivo all’evento.

PRIMA

Nel primo, datato 21 giugno e intitolato “Moneta unica e democratica”, Panebianco riesce a condensare buona parte dell’armamentario teso a legittimare sessant’anni  di sudditanza.  In particolare, con “il crollo dell’euro“”

verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale.”.” Senza l’Unione Europea “l’Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo.” “Si può pensare che sia addirittura offensivo, o magari antipatriottico, dipingere un’Italia minorenne, incapace di gestirsi da sola, senza tutori e imposizioni esterne”, ma “Per tutto il periodo della guerra fredda la democrazia italiana sopravvisse più a causa dei vincoli esterni (la Nato e, per essa, il rapporto con l’America, la Comunità europea in subordine) che a causa delle sue tradizioni e della sua cultura politica”.”Oggi, il rapporto con un’America sempre più lontana non funziona più come vincolo, non può più proteggerci da noi stessi. È rimasta solo l’Europa” dissoltasi la quale, l’Italia vedrebbe precipitare due aspetti: “la condizione in cui versa la nostra democrazia politica e le vistose crepe che esibisce lo Stato nazionale.” Riguardo alla democrazia sarebbe sufficiente leggere le cronache quotidiane. “Altrettanto grave, e forse ancor più grave, è la condizione in cui versa lo Stato nazionale” e con essa “la grande questione italiana, la questione meridionale, non ha mai trovato soluzione”.” Se verrà meno il vincolo europeo quanto tempo passerà prima che il conflitto territoriale esploda in forme incontrollabili?” ” …la fine dell’euro, trascinando nella rovina anche l’Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi.”

Tesi trite e ritrite sin dall’immediato dopoguerra, in auge nei momenti di contrapposizione acuta nel paese con il Partito Comunista; più latenti e sommesse, ma sempre fondative, quando la retorica della Resistenza doveva servire ad accomunare progressivamente l’intero ceto politico allo schieramento occidentale.

Con buona pace dei “resistenti”, oggi è tempo di riconfigurare apertamente e rinserrare le vecchie gerarchie. Non ostante quasi settant’anni di palestra democratica, alcuni paesi, compreso il nostro, avrebbero ancora bisogno di vincoli esterni per conservare le prerogative democratiche e l’unità nazionale. Si tratta della stessa retorica che nel dopoguerra accomunava  gli europeisti funzionalisti, diretta emanazione del Dipartimento di Stato Americano e quelli federalisti, i quali attingevano a piene mani dall’Università di Harvard, senza particolari sforzi di originalità, per le loro elaborazioni visionarie e che trovò nel tentativo di costruzione della CED (Comunità di Difesa Europea) e della CPE (Comunità Politica Europea) il momento di massima consonanza tra le due componenti e di massimo furore ideologico.

Trattandosi di movimenti elitari finirono per frammentarsi  in continua polemica tra di loro, ma con due tratti che li accomunavano: la continua ricerca di sostegno nelle élites di potere atlantiste e la retorica antinazionale la quale individuava nel nazionalismo guerrafondaio l’esito predestinato dell’identitarismo degli stati nazionali europei e nella liquefazione di questi la condizione per costruire l’Unione Europea, la pace mondiale e, per i più ottimisti, l’Unione Mondiale.

La contingenza politica di quei decenni, in un contesto iniziale di occupazione militare e di contrapposizione crescente al blocco sovietico, la progressiva consapevolezza della estrema fragilità dei due residui imperi inglese e francese, condussero gli Stati Uniti ad abbandonare i propositi di annichilimento della Germania, attraverso il piano Morgenthau, e a costruire una struttura di dominio dove vi erano ampie opportunità di crescita per i paesi dell’Europa Occidentale. In questo contesto avvenne il boom economico italiano, pilotato, però, verso settori maturi ma continuamente osteggiato nei suoi timidi tentativi di costruzione di una industria strategica e di una politica più autonoma. Un ruolo determinante nel consentire la costruzione di una formazione sociale profondamente trasformata, ma così subordinata, fu assunto dal peso crescente di strati parassitari continuamente alimentati specie a partire dagli anni ’70. L’Unione Europea, nei suoi vari passaggi dalla CECA alla UE, statutariamente subordinata alle strategie della NATO, fornì la cornice istituzionale e buona parte degli strumenti di controllo per indirizzare queste dinamiche. Si trattò, comunque, di costruire un ordine dinamico che offriva prospettive di sviluppo. In quegli anni i tecnocrati e i funzionalisti ebbero sempre interlocutori autorevoli negli esponenti di partiti popolari ben radicati nella popolazione e con qualche margine di autonomia.

Oggi, la situazione si presenta del tutto rovesciata.  L’area di influenza della formazione dominante è molto più estesa ma meno compatta, con il sorgere di formazioni con ambizioni competitive. Nel volgere di un ventennio, gli squilibri creati da questo allargamento ha indebolito e reso meno cruciali alcuni interlocutori e rafforzato altri sino ad alimentarne le ambizioni sovraniste. Si tratta, quindi, di imporre un controllo più rigido sui propri satelliti, un drenaggio di risorse sempre più predatorio e delle strutture complementari con gerarchie determinate dalle capacità di autonomia residue delle formazioni e dalla loro collocazione geopolitica. Il resto è terra di nessuno su cui impantanare gli avversari e gli amici troppo intraprendenti. Altro che “America sempre più lontana”. Si tratta soprattutto di destrutturare e di distruggere.

Quel disprezzo elitario che sino a trenta anni fa era contemperato dalle forze popolari e dalle prospettive di sviluppo oggi ha preso il pieno sopravvento, ha assunto le sembianze di lacchè privi di carica ideologica e di contrappesi tali da far loro assumere un qualsivoglia minimo ruolo di leadership autorevole fondata sul radicamento nazionale.

La vittoria, probabilmente fatua, di Monti al Consiglio Europeo, non è stata la vittoria dell’Italia, della Spagna e della Francia contro la Merkel. È stato il successo di un rappresentante di questa élite apertamente sostenuto dall’attuale amministrazione del paese dominante e da tutti quei gruppi subordinati presenti nei paesi europei e nelle strutture burocratiche comunitarie.

A ben vedere, lo scetticismo ed il disprezzo dell’accademico Panebianco, del tutto simile a quello di Monti, è il risultato di chi non confida strutturalmente nelle potenzialità di un paese e per questo sceglie pavidamente ed opportunisticamente di confidare nella severità e nella magnanimità del dominante.

È l’atteggiamento che ha impedito, per settant’anni, la formazione di un gruppo dirigente realmente sovranista e che ha distrutto, progressivamente e al momento, ogni struttura ed ogni centro di potere capace di incubarlo con qualche probabilità di sopravvivenza; che ha clonato, in serie, una pletora di funzionari sempre più grigi ed asettici, dalla luce propria sempre più fioca. Un atteggiamento parassitario che ha spento la spinta partecipativa e democratica e alimentato quei conflitti territoriali  e corporativi che Panebianco denuncia. Si tratta, appunto, dell’Europa delle regioni e degli individui contrapposta agli stati nazione.

Non differisce in niente dagli esportatori di civiltà che hanno dato una parvenza di nobiltà alle costruzioni imperiali e coloniali del millennio passato, se non nella sua maggiore carica distruttiva e nihilista.

DOPO

Il 30 giugno è Ferruccio de Bortoli, con il suo “il dividendo del professore”, a propinarci dosi massicce di ottimismo e perle di cauto inquietante buon senso. “

L’Italia non è solo una grande squadra. È un grande Paese.” “Il merito è di Mario Monti.”” con un’Italia più ascoltata, anche se non ancora più forte” . Entusiasmo irrefrenabile con una sequela sorprendente di “ma” che dovrebbero aver fatto rosicare il Professore. “La reazione positiva delle Borse lo testimonia, anche se è prematuro illudersi”; “Il patto per la crescita impegna 120 miliardi: l’effetto moltiplicatore dell’occupazione e del reddito non sarà decisivo ma nemmeno trascurabile. Con l’incognita di quanti siano veramente i capitali freschi a disposizione.” “Lo scudo anti-spread è la novità più rilevante, ed è mal digerita dai tedeschi” “Sulla funzionalità di questo meccanismo è opportuno mantenere alcune riserve” Con buona pace dei detrattori “i richiedenti non saranno costretti a cedere sovranità“. De Bortoli conclude così: “Merkel e Sarkozy fecero l’errore di coinvolgere i privati nella crisi greca”; quello che conta è che “il significato politico più importante di questa misura è l’affermazione dell’ineluttabilità della moneta unica”. Il fervore probabilmente acceca le migliori penne e gli assist paiono in realtà delle polpette avvelenate di sicuro al paese, avvertito che il logoramento proseguirà a tempo indeterminato; certamente ai partiti i quali dovranno continuare a sostenere Monti, pena il pubblico ludibrio dei facitori di opinione pubblica; qualche residuo tossico potrebbe intaccare, però, anche il fegato del “conducator”. ‘sti giornalisti ci sono o ci fanno? In queste penne smarrite, l’uno e l’altro.