PUNTUALIZZAZIONE SENZA OPPORTUNISMI

1. Un conto sono i tatticismi, le scelte di opportunità che a volte si è costretti a compiere in situazione di difficoltà; un altro l’opportunismo di alleanze di fatto subordinate agli interessi dell’antagonista principale, da cui discendono piccoli vantaggi, e prebende, anche per i “cedevoli”, in realtà per chi tradisce. Cerchiamo di esporre ordinatamente certi fatti onde far capire la differenza tra i due comportamenti.

Ho già chiarito non molto tempo fa che negli anni tra fine ’60 e metà ’70 i maoisti considerarono il “socialimperialismo” (Urss) quale nemico principale rispetto ai pur più forti e aggressivi Stati Uniti (“l’imperialismo”). Non metto in dubbio che, per i dirigenti cinesi – possiamo, io credo, dire tutti – tale posizione corrispondeva ad attriti tra i due paesi, tra una potenza già sviluppata ed un paese aspirante a tale ruolo. Gli Usa erano più lontani dell’Urss; e la Cina, per crescere di influenza nelle zone dove era in grado di ottenere dei risultati, non poteva che scontrarsi più acutamente con i sovietici. Ricordiamo l’Ussuri, la guerra tra Cina e il Vietnam riunificato (filosovietico), ecc. Tra Cina e Usa, vi fu certo all’inizio la drammatica guerra di Corea, e poi le migliaia e migliaia di “importanti” (ma un po’ ridicoli) avvertimenti lanciati con riguardo a Taiwan e alla rivendicazione sulle isole Quemoy e Matsu. In realtà, a oriente la Cina era chiusa (come lo è adesso) dal Giappone e dalla Corea del Sud che in pochi anni mostrò la sua enorme superiorità (capitalistica, va detto) su quella del Nord. A sud c’era l’India e l’influenza sul Pakistan era condivisa, come adesso, con gli Usa. L’Urss (con la Siberia, entro la quale non penetrò alcun cinese, Stalin vivo) era un “ventre” un po’ più molle.

Il mediocre Gorbaciov cercò nell’89, con la complicità del segretario del Pc cinese, di creare disordini anche in Cina, ma sappiamo com’è andata a finire (fortunatamente). In ogni caso, non essendo certo in grado di ricostruire qui i complessi rapporti tra Urss e Cina dopo la vittoria di Mao nel 1949, riandando agli anni della rottura rilevo che i maoisti del tipo del sottoscritto accettarono la tesi del socialimperialismo nemico principale solo tatticamente, sperando nell’indebolimento dell’appoggio sovietico a quelle che si pensavano quali direzioni revisioniste (neokautskiane) affermatesi nella maggioranza dei partiti comunisti del mondo. Negli anni ’70 commisi, non credo proprio da solo, l’errore di credere alla effettiva rifondazione del comunismo. Non si ragionava però nei termini degli anni ’90, dopo il crollo del “socialismo reale”; si era convinti della possibilità di rovesciare il revisionismo e di riprendere in mano la direzione dei comunisti in buona parte del movimento mondiale.

Per quanto mi riguarda, all’inizio degli anni ’80 una simile prospettiva mi appariva del tutto esaurita e quindi l’Urss tornò comunque ad essere per me soltanto una potenza antagonista degli Usa, senza più tanti “grilli per il cervello”. Per carità, non che non si parlasse ancora del comunismo, ma come di un movimento che doveva veramente ricominciare tutto da principio, senza più l’ingenua convinzione di aver conquistato importanti parti della società mondiale. Non a caso, non feci una piega al crollo dell’89, non ebbi né sorpresa né smarrimento; semmai, se devo dirla tutta, pensai e scrissi che sarebbe stato meglio se quell’evento si fosse prodotto un bel po’ prima, perché così avremmo anticipato la “curatela fallimentare”, mettendoci assai prima all’opera per “realizzare” qualche “credito” magari ancora esigibile. Fui immediatamente contro, e con particolare fastidio e irritazione, i bisonti che si aggrappavano alla Cina in quanto ancora “socialista”; a tutt’oggi non ho sciolto il dilemma se erano (o forse sono?) fessi oppure imbroglioni.       

Comunque, non importa. Resta il fatto che, quando nel 1985, venne al potere Gorbaciov – e dovetti assistere inorridito alla trasformazione di tutti gli intellettuali già “maoisti” (compresi gli althusseriani; compreso, mi duole dirlo, il mio Maestro Bettelheim) in sfegatati cantori della “glasnost” e della “perestrojka” – pensai immediatamente (pur se lo scrissi in Democrazia proletaria solo nell’autunno dell’86; veramente lo scritto uscì con almeno sei mesi di ritardo!) che costui sarebbe stato il liquidatore del “socialismo reale”. Non potevo immaginarne i tempi e le forme, ma capii che eravamo entrati nel periodo della liquidazione. Fin dall’inizio compresi, all’ingrosso, che tale processo avrebbe innanzitutto riguardato il “socialismo europeo orientale”, poiché Gorbaciov, in un primo tempo, sembrò nutrire la speranza di ricevere qualche aiuto e supporto dagli Usa in cambio di tale servigio. Si rendeva insomma loro succube convinto d’essere aiutato a sopravvivere e magari pure associato, sia pure in funzione subordinata, alle loro operazioni di predominio mondiale (forse non del tutto diversamente agisce oggi un Medvedev).

Nel comprendere tutto questo fui aiutato dall’avere intuito già da un bel po’ le preoccupazioni di certi Servizi orientali (ma credo anche di settori di quelli sovietici, perché durante il periodo brezneviano di apparente cristallizzazione, era in corso una sorda battaglia solo alla fine sfociata nel “gorbaciovismo”) che, come già riferito altrove, stavano pure all’origine di certi aiuti dati al “terrorismo” italiano (e non solo) degli anni ’70. Certamente in funzione anti-piciisti (Berlinguer, compromesso storico e poi viaggio di Napolitano, ecc. ecc.; tutte cose che ho già scritto), ma soprattutto per difesa da possibili “svendite” operate da un’eventuale direzione sovietica non più in grado di controllare la situazione e la competizione con gli Usa. E non era preoccupazione peregrina. Si pensi allo sbocco finale del processo: il “bacio di Giuda” di Gorbaciov ad Honecker, le medesime trame in Cecoslovacchia e Polonia, l’aiuto dato dai Servizi sovietici ad Iliescu per liquidare ed eliminare con processo farsa, rapidissimo e di fatto segreto, Ceausescu (senza bisogno di manifestare particolare simpatia per quest’ultimo, per carità: ma la “svendita”, e non la “conquista della democrazia”, fu evidente).

 

2. Di fatto, oggettivamente, l’azione svolta da Gorbaciov deve chiamarsi tradimento. I suoi tentativi di portare zizzania anche in Cina – dove trovò complicità in settori non irrilevanti del partito comunista – lo qualificano come “agente” di una potenza straniera. Per fortuna, lo ripeto, le sue mene furono fermate in quel paese, sempre indipendente dall’Urss, con estrema energia e senza farsi infinocchiare dalla canea reazionaria d’occidente sulla mancanza di “democrazia”. Semmai, si dimostrò, già allora e ben prima delle “rivoluzioni colorate”, che simile democrazia è il Cavallo di Troia degli Usa e dei loro scherani. Lo è tuttora; e la pericolosità del “damerino&r
dquo; Medvedev non fa che ripetere i nefasti di Gorbaciov. Egli dovrebbe essere identificato come tipico “agente” della potenza straniera; appunto oggettivamente, per la funzione che svolge, poiché non ci interessa quel che pensa o di quale “ideologia” ammanti questa sua funzione.

In Urss, dopo poco meno di un ventennio di equilibrio solo apparentemente stabile (Breznev) che era frutto di contrasti non risolti implicanti un immobilismo simile alla sclerosi, la situazione si mise in movimento con un pendolarismo significativo, ma breve: Andropov, che anticipava Gorbaciov, Cernienko, che era un ritorno verso il periodo precedente, e poi la definitiva svolta verso il “baratro”. Per capire simili spostamenti credo fosse comunque utile l’analisi compiuta da Bettelheim nelle “Lotte di classi in Urss” (non andata però oltre il 1953), ma soprattutto alcune conclusioni tratte in merito alla struttura sociale creatasi nel corso di quello che è stato uno sviluppo non capitalistico nel senso occidentale, ma comunque un processo di rapida industrializzazione, in cui la stratificazione sociale non ha certo seguito i canoni prescritti dal marxismo.

Scarterei oggi la tesi dell’esistenza di un capitalismo di Stato (e tanto meno dell’esistenza di una “borghesia di Stato” o di “partito”, che aveva ripreso il potere). Non trascurerei invece la considerazione di un blocco prevalente costituito da gruppi dominanti – tramite l’aggancio ad apparati di potere del partito/Stato – con egemonia sui gruppi sociali, presi per “classe operaia”, formati da lavoratori delle basse mansioni esecutive di fabbrica e da altri lavoratori dello stesso basso livello gerarchico nei servizi e amministrazioni pubblici. Vi era un sostanziale accordo tra il non disturbare né mai contestare (anzi appoggiare) i gruppi di potere, nel mentre questi tolleravano l’incredibile bassa produttività e gli assai blandi ritmi lavorativi di questo personale esecutivo. Furono sacrificati e frustrati gli ampi – e assai poco conosciuti e analizzati – “ceti medi” che sempre si formano nel corso dello sviluppo industriale fondato comunque sulla forma dell’impresa; uno sviluppo tutt’affatto diverso, direi opposto, a quello pensato da Marx e da Lenin (si leggano le banalità sconfortanti sostenute al proposito in Stato e Rivoluzione, preso come testo teorico che tutto avrebbe detto intorno allo Stato, mentre contiene solo affermazioni propagandistiche strettamente legate all’agosto-ottobre 1917).

Lo sviluppo capitalistico non riduce tutto a semplice registrazione e catalogazione, che potrebbe fare anche la ben nota “cuoca” dedita agli affari di Stato. In ogni settore – della sfera economica e politico-amministrativa – cresce e si ramifica lo specialismo e non vi è nulla di semplice secondo il presunto modello dell’amministrazione delle Poste o delle Ferrovie, che invece anch’esse procedono seguendo complicati percorsi specialistici. L’idea della taylorizzazione degli uffici e settori impiegatizi – che fu anche, in occidente, del Braverman, e che tanto fu seguita da noi poveri tapini – si è rivelata una delle solite sciocchezze di “rivoluzionari da operetta”. In ogni caso, non c’è affatto una generale semplificazione dei compiti; ed è su questa non semplificazione che crescono i sedicenti “ceti medi”, un effettivo concetto-ripostiglio dove si ammassa di tutto e che invece esigerebbe un’analisi assai attenta e del tutto urgente. Perché sono sempre questi ceti, vero “buco nero” dell’organizzazione (funzionale) sociale, a costituire il problema di una base di massa o per settori dominanti in cerca di autonomia propria o di altri che trovano convenienza a legarsi ai settori e centri strategici di una potenza straniera predominante in quella data fase storica.

L’Urss, non risolvendo i problemi della complicazione e degli specialismi durante uno sviluppo che non conduceva certo alla “costruzione del socialismo”, si è probabilmente insabbiata per l’azione del blocco sociale ormai reazionario sopra delineato. Nuovi gruppi dominanti, quelli che vengono (e anche in tal caso semplicisticamente) definiti gli “oligarchi”, hanno fatto leva sui livelli più alti dei ceti medi, fondamentali per ogni sviluppo per nulla tayloristico bensì specialistico di una società “avanzata” in via di crescente “modernizzazione”, conducendo il paese nella direzione dei loro prevalenti interessi, che implicano stretti legami, in particolare finanziari, con l’occidente capitalistico.

 

3. Non sto a ricostruire il tentativo di “colpo di Stato” dell’agosto 1991, in cui alcuni alti gerarchi dell’apparato partito/Stato – preoccupati per la piega presa dal crollo socialistico, di fatto favorito dalla prassi gorbacioviana, e tuttavia troppo attenti ai propri interessi di dominanti (di vecchio stampo) e incapaci di creare un blocco sociale alternativo, in cui ci fossero gruppi decisivi di “ceti medi” – vollero invertire il processo di degenerazione, senza tuttavia averne creato le condizioni sociali di base. Di fronte alla crescita di Eltsin, un ancor più “puro” rappresentante degli “oligarchi” e del loro blocco sociale, i “cospiratori”, secondo quanto si riesce a capire, si fidarono ancora di Gorbaciov, crederono di poterlo avere dalla loro parte, mentre il “traditore” fece fallire il colpo di Stato (invero assai debole per quanto si poté constatare, proprio per questo incauto e maldestro fidarsi di un uomo così infido) e aprì la strada a colui che seppellì pure lui (consenziente? Tutto sommato penso di sì).

La ripresa di una alternativa di autonomia del paese – diventato Russia e ben ridotto di dimensioni – si ebbe a fine secolo con Primakov, forse uno dei personaggi più “positivi” degli ultimi tempi (primo ministro per un solo anno, in cui vi fu però la crisi serba). Poi venne Putin, che fu scelto da Eltsin proprio come contraltare a Primakov (che si comportò in senso direi favorevole a rapporti con i comunisti, che volevano l’impeachment del presidente). Putin, eletto presidente nel 2000 (e rieletto nel 2004), non fornì una grande prova di sé durante la crisi seguita all’ambiguo attentato alle Torri Gemelle, con l’aggressione statunitense all’Afghanistan, che fu accettata e seguita da tutti, Russia e Cina comprese, in nome di quell’autentica menzogna della “lotta al terrorismo” e del nemico n. 1 costituito da Al Qaeda, ancora oggi in voga senza che nessuno si prenda la briga di approfondire la sua equivoca funzione. Nel 2003, nel mentre gli Usa aggrediscono più decisamente l’Irak (non fermandosi a 30 Km. da Bagdad come nel 1991), sembra iniziare per la Russia un nuovo periodo della sua storia.

Il punto di svolta mi sembra essere stato il viaggio estivo di Putin in Libia e Algeria e poi, di ritorno, il passaggio in Sardegna dove incontra Berlusconi e mette a punto i programmi per il Southstream, i rapporti Eni-Gazprom, ecc. In un primo tempo, la Turchia sembra favorire il progetto alternativo (Nabucco patrocinato dalla UE, in realtà in mano agli Usa e soprattutto teso ad indebolire la Russia nei suoi rapporti con l’Europa). In seguito, la Turchia mostra rispetto ai due progetti una “neutralità”, che di fatto significa schierarsi per quello Eni-Gazprom. Appare oggi però abbastanza evidente che non si sono ancora decisamente prodotti in Russia nuovi equilibri; e nuovi rappor
ti di forza tra gruppi dominanti ed eventuali blocchi sociali, che però dubito esistano al momento in forme consolidate e minimamente stabili come quelle del periodo poststaliniano fino a tutta la fase brezneviana. Quello che sta accadendo, e che va tenuto assai più sotto attenzione di quanto non abbiamo fatto ultimamente, sembra un nuovo “cedimento strutturale” del tipo della fase gorbacioviana. Se continuano a prodursi siffatti fenomeni, è ovvio che si sconta tuttora una debolezza nella tessitura della rete di rapporti tra gruppi e raggruppamenti nella società in formazione in seguito all’Evento del 1917; una rete che si smaglia troppo facilmente.

A mio avviso, una nuova svolta (“a ritroso”, se così si può dire) si è prodotta infatti con l’improvviso viaggio di Berlusconi (più o meno da solo) da Putin e videoconferenza con Erdogan (mi sembra fosse l’ottobre 2009). Non si è capito subito, ma nemmeno adesso possiamo esserne sicuri, che forse si è preso allora atto della debolezza del costituendo “asse” Russia-Turchia-Italia-Libia (e Algeria). Sembra non esservi la forza di consolidarlo; e probabilmente per tutta una serie di contrasti interni. Quelli cui è sottoposto Berlusconi – incapace di esercitare il controllo sugli apparati di Sicurezza e del potere reale – sono piuttosto evidenti. Probabilmente, anche Erdogan deve fare molta attenzione ai suoi oppositori (che controllano, almeno a quanto se ne sa, l’Esercito), Putin deve essersi reso conto che il presidente da lui fatto eleggere un anno prima non è poi tanto fidato. Probabilmente, quello che si sente più al sicuro è “l’assente”, cioè Gheddafi (almeno è sembrato effettivamente sorpreso dell’ostinazione Usa a volerlo destituire). Del resto, in quel periodo non credo si subodori alcunché delle “rivolte arabe”. Qualcuno l’avrà forse saputo, ma è più probabile che la nuova strategia si basi sul “passo dopo passo”, guardando anche alla piega che vanno prendendo gli avvenimenti di periodo in periodo.

 

4. Si aggiunga che la nuova strategia (del serpente), seguita dagli Usa dopo la sostituzione di Rumsfeld con Gates, non si basa più, se non come elemento sussidiario, sulle rivoluzioni “colorate” (si parla ancora di esportare la “democrazia”, ma è un po’ più evidente il fine solo ideologico, non si è poi così convinti ed accaniti nel sostenerlo). Importante è entrare più finemente nei contrasti interni al “nemico”. Appunto: tra Medvedev e Putin, tra Erdogan ed esercito, tra Ahmadinejad e Khamenei, tra Olp e Hamas, ma anche all’interno di quest’ultima organizzazione. E via dicendo. Si bastona la Siria, diffondendo le solite menzogne su massacri che sono come la fossa comune di Tripoli, però si lascia aperta la porta; perché in realtà si vuole agire sulle crepe interne al regime. E non tanto quello siriano quanto quello iraniano (poiché l’Iran è “alleato” di Assad). Si userà probabilmente anche dei Fratelli Musulmani in Egitto, assegnando loro un ruolo non secondario, mentre saranno almeno in parte ridimensionati i “democratici” filo-occidentali tipo El Baradei; sempre per giocare sulle contraddizioni interne all’islamismo. Comunque, non insistiamo adesso su problemi su cui bisognerà tornare e non certo una sola volta.

Data la situazione venutasi a creare, ed essendo molto in ritardo circa la formulazione di una teoria del conflitto sociale che sappia adeguatamente sostituire l’ormai vetusto e semplicistico marxismo, ho sostenuto la necessità – transitoria, ma di una transitorietà di carattere storico, d’epoca, non certo di pochi anni – di puntare intanto su fattori di carattere “nazionale”, con ciò intendendo soprattutto riferirmi a politiche, e all’individuazione di settori politici e sociali di eventuale sostegno ad esse, in grado di garantire margini di autonomia ai vari paesi (per quanto ci concerne, l’ovvio riferimento è all’Italia); un’autonomia che sia però utile a vasti settori della popolazione. Qualche buontempone ha pensato che si tratti di “mussolinismo”. Come se proponessi, visto che siamo oggi in tema, di contrastare bellicamente altri paesi al fine di spartirsi la Libia; mentre invece si vorrebbe fosse portato sostegno al suo legittimo e sovrano Governo, certamente anche per soddisfare interessi propri.

Il problema cruciale è appunto rappresentato dall’implosione di una vecchia teoria del conflitto sociale, che ci si è ostinati a prolungare per un secolo e mezzo. Oggi, i pretesi eredi del vecchio movimento, che su tale teoria si basava, sono ormai puri reazionari al servizio dei predominanti centrali; e quanto a quella teoria non ne capiscono più nulla, l’hanno martoriata e massacrata fino a renderla una caricatura di ciò che fu. Siamo i primi ad avvertire il vuoto che essa ha lasciato. Proprio gli opportunismi, che si cominciano a manifestare in merito alle mosse russe e cinesi – non perché si pretenda che Russia e Cina si facciano paladine della Giustizia Internazionale (a simile falso compito è sufficiente si dedichino gli Stati Uniti), ma semplicemente perché si nota un loro cedimento e subalternità alle mosse del paese più (pre)potente – dimostrano come non basti più ragionare in termini di paesi, Stati, nazioni, quasi costituissero dei “soggetti” in senso proprio, unitari e compatti. Essi sono invece reti di conflitti interni, che rischiano in dati casi (in troppi, oggi) di favorire la potenza straniera predominante; come la Prussia degli Junker o gli Usa dei “cotonieri” del Sud giocavano, per interesse esclusivo di questi gruppi sociali, a vantaggio dell’Inghilterra.

Prendiamo sempre più consapevolezza che è limitativo dire Russia e Cina, India e Brasile, ecc. Tuttavia, lo ribadisco, non deve più essere utilizzata la vecchia teoria (della divisione della società in senso duale e in verticale) relativa al conflitto sociale. Dobbiamo intanto promuovere una resistenza di fase, che non può che essere di sapore nazionale; senza alcuna concessione, da parte nostra, al nazionalismo aggressivo ed espansivo, teso alla conquista di pretesi “spazi vitali”, in nome della quale ci si impegnava a sottomettere altri paesi, altre popolazioni. Tale atteggiamento non c’entra nulla con la nostra posizione, puramente transitoria ed obbligata dall’arretratezza teorica, che farabutti, al servizio di una potenza straniera, tendono a perpetuare. Ci impegniamo ovviamente nel ripensamento della teoria; ma intanto dobbiamo resistere nazionalmente (se possibile, non pretendiamo miracoli) ad una deriva, che si va facendo pericolosa, verso la subalternità a quello che è, oggi e non per l’eternità, il nemico generale (e più criminale) di ogni aspirazione all’indipendenza delle popolazioni di tutto il mondo.

A questo compito chiamiamo chiunque comprenda, senza più opportunismi e calcoli miopi di piccoli vantaggi propri, quale pericolo si corra attualmente di fronte agli Assassini Globali, che sono all’opera a partire da un ben preciso paese (nemmeno esso, tuttavia, una “totalità indistinta”), mentre altre forze, a livello internazionale, stanno traccheggiando e cedendo, passo dopo passo, alla prepotenza di questi criminali. Tutto lì, se si vuol infine capire qual è la questione cruciale. Altrimen
ti, pazienza, saremo una colonia e leccheremo le mani a chi trucida e massacra in tutto il mondo in nome della libertà e democrazia. D’altra parte, non è la prima volta nella storia che gli Assassini dilagano (anzi è la norma); anche se è la prima volta che raccontano di essere campioni della “Libertà e Democrazia”, trattate da autentiche “puttane impestate”.