RIPOSIZIONARSI, NON ABBARBICARSI AL DECREPITO

presentazione di G.P.

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Il capitalismo si sta accasciando su sé stesso? La crisi finanziaria, sempre percepita, al suo primo manifestarsi, come ultima e irreversibile, sta suonando l’ultima ora fatale del modo di produzione capitalistico? Il sistema finirà schiacciato sotto il peso dell’aleatorietà della speculazione che annuncia il fantomatico ultimo stadio di un capitalismo ormai giunto al limite delle sue possibilità di sviluppo?

Secondo alcuni tra i più ascoltati e lodati intellettuali “proto/post/ex-marxisti” o ancora tali – come si può intuire, ce n’è per tutti e per tutte le età, poiché anche i più giovani e promettenti non si distinguono poi tanto, per acume e intuizione, dai venerandi volponi accademici i quali, perennemente incassati nelle loro cattedre, cavalcano le mode editoriali con variazioni sul tema in base ai gusti preponderanti – il sistema capitalistico sarebbe arrivato al capolinea, per una ineluttabile forza del destino. La Storia ridotta a mitologia è alla base di questa concezione che contribuisce a riprodurre visioni escatologiche da “giudizio universale”, già profetizzate a più riprese (e puntualmente duplicate, per meglio confondere le idee, quando avanza un periodo di crisi) ogni qual volta il mondo viene scosso da qualche terremoto, specie se finanziario.

A nessuno viene in mente che, come già accaduto in altre epoche, le crisi (sempre ricorsive) sono sì il sintomo di profonde alterazioni sistemiche che possono modificare la morfologia del potere ma, allo stesso tempo, le stesse non necessariamente sono foriere di una palingenesi  trasformativa dei rapporti sociali “a dominanza”, sui quali si fonda il capitalismo. Anzi, la preservazione del meccanismo di riproducibilità dei suoi rapporti, che la crisi non scalfisce se forze rivoluzionarie non sono in grado di approfittarne, finisce per allargare l’influenza di detti rapporti sociali, dando al sistema nel suo complesso nuova linfa e nuova vita. 

Le crisi possono certo annunciare un cambiamento, piccolo o grande che sia, o con un semplice riposizionamento degli attori in gioco che danno vita a ridefinite alleanze o con l’emergere di diversi gruppi dominanti, sempre legati a specifiche formazioni sociali, che si collocano in maniera strategicamente più avanzata rispetto alle posizioni precedentemente occupate (mettendo in discussione la predominanza del paese centrale). L’attuale crollo finanziario, data la sua profondità, potrebbe essere sintomatico di una metamorfosi politico-sociale, in piena gestazione ma non ancora conclamata, che si corrobora con lo stesso sfaldamento degli anteriori assetti consolidati, ora vacillanti sotto la spinta e le pressioni di forze nazionali in progressiva ascesa (Russia, Cina ecc. ecc.).  Quando quest’ultime saranno in grado di neutralizzare e contrastare l’azione di quella attualmente preminente si aprirà una nuova epoca storica, con passaggio da una fase monocentrica (attualmente solo nel novero delle possibilità e quindi ancora di là da concretarsi), fondata appunto sul predominio quasi assoluto della potenza americana,  ad una fase policentrica che rimetterà in discussione detti rapporti di forza e di influenza tra aree mondiali.

Lo spostamento di paradigma proposto da La Grassa permette di uscire, in questi termini, dalle interpretazioni economicistiche prevalenti e di guardare all’evoluzione (politica, economica, ideologica) dei fenomeni sociali, senza dare per scontati i loro esiti finali.

Con la teoria degli agenti strategici il campo teorico viene destrutturato e ricomposto sulla base di concetti chiave innovativi, i quali ci permettono di leggere e comprendere le società capitalistiche sotto una diversa luce. Il vecchio apparato teorico marxista, imperniato sulla nozione di modo di produzione (e sulla supremazia della sfera economica, considerata determinante in ultima istanza), è finito in cul de sac e  nonostante gli innumerevoli sforzi per rianimarlo e riadattarlo alla “modernità”, con “ripensamenti”, “ritorni all’origine” e “recuperi” di ogni genere esso non è più in grado di mantenersi sulle proprie gambe. In verità, ciascuno dei tentativi messi in atto è servito, più che altro, a dare una passata di vernice fresca alle pareti, ottenendo come unico risultato quello di abbellire e rendere apparentemente adeguato ai tempi, un palazzo teorico ormai fatiscente e inabitabile.

Date queste condizioni, il lavoro più intelligente da fare è quello di rimettere mano alla scienza per dare consistenza ad un’ipotesi teorica di diverso spessore interpretativo e previsionale,  al fine di distanziarsi dagli errori del passato e dalle aspettative ormai smentite dalla storia.

Invece, nulla di tutto questo da parte dei sedicenti rivoluzionari. Quando la scienza smette di funzionare, l’ideologia prende immediatamente il suo posto, isterilendo la capacità degli uomini di comprendere ciò che accade sotto il loro naso. E stiamo parlando della variante peggiore dell’ideologia: quella che trasforma in argomenti di fede categorie comunque nate nell’ambito di un precedente ragionamento scientifico le quali, per continuare a sopravvivere nella nuova situazione, devono tramutarsi in dogmi indiscutibili. Con questo modo di operare è morta la scienza marxiana ed è nato il culto marxologico, con tanto di gerarchie ecclesiastiche e di fedeli oranti al seguito, impegnati a predicare la rivoluzione ma solo come prospettiva ultraterrena e fantastica,  da quanto la realtà alla quale essi si riferiscono è totalmente fiabesca.

Ed immaginari sono persino i dibattiti che si riaprono, brutta copia e cattiva interpretazione di tematiche già trattate ed esaurite in altri periodi. Si pensi, ad esempio, alla vecchia diatriba sulle forze produttive che, in un’altra fase storica, vide contrapporsi i sostenitori della tesi per cui occorreva premere sull’acceleratore dello sviluppo affinché le contraddizioni capitalistiche giungessero al loro limite estremo (con rottura definitiva dell’involucro dei rapporti capitalistici) e chi, invece, non riteneva per nulla valida tale supposizione (che era servita, più di ogni altra cosa, a giustificare l’attendismo e il riformismo dei corrotti partiti comunisti occidentali) in quanto il sistema aveva dato ampiamente prova di sapersi autoriformare e di non evolvere verso forme puramente parassitarie.

Oggi, questa polemica che a suo tempo ebbe un grande valore, si ripropone in una variante da “pezzenti”, con i sostenitori delle decrescita che, nel loro sermone  contro il capitalismo, propongono “il desviluppo o una forma diversa di sviluppo (presunto sostenibile in base ad incerte proiezioni futurologiche simili a quelle di un meteorologo che pretenda di dirci come saranno le estati dei prossimi dieci anni)”, essendo in questo specularmente “eguali a quelli che predicano la sopra criticata teoria delle forze produttive. Mettere il segno meno invece che più ad una entità, non ne muta il valore assoluto. Manca sempre la considerazione, sia pure in base ad ipotesi, dell’effettiva struttura dei rapporti tra i vari gruppi sociali, l’articolarsi delle loro possibili lotte e delle condizioni favorevoli o sfavorevoli per il successo di questi o di quelli, ecc. Si spera solo nel convincimento delle moltitudini “disgustate” (ma quando mai lo sono; è proprio un’utopia bella e buona!) dal consumismo, dal degrado culturale o da quello ambientale ecc. ecc.” (La Grassa)

E, come se non bastasse, dobbiamo sentirci rimproverare da questi menzogneri, di essere filo capitalisti (anche se non lo sappiamo, sic!) perché siamo per lo sviluppo delle forze produttive e per la più vasta mercificazione sociale ed umana (i filosofi sono sempre così bravi a mescolare categorie economiche e filosofiche per confondere la gente!). Chiariamo una volte per tutte questa faccenda. Noi non riteniamo che con la crescita si approfondiranno le contraddizioni capitalistiche, con conseguente e deterministica implosione del citato modo di produzione ma, più semplicemente, siamo convinti che il progresso tecnico-scientifico sia funzionale ad un obiettivo tattico poiché esso“non è il semplice sviluppo delle forze produttive (materiali), bensì quello della potenza, per favorire un più celere avvicinamento alla fase policentrica e alla possibilità delle “brecce di Porta Pia”…Comunque, è chiaro come il Sole che non aderisco [e nessuno tra i membri di questo modesto gruppo di lavoro lo fa, G.P.] a nessuna tesi secondo cui lo sviluppo delle forze produttive è il Demiurgo della transizione al comunismo o almeno di una fuoriuscita dal capitalismo. La mia posizione teorica (che fa tutt’uno con quella politica) è di fase, prende atto delle trasformazioni in corso (anzi di quelle già avvenute perfino nella precedente epoca policentrica capitalistica) e dell’assoluta incapacità della teoria – non solo marxista – di almeno “intuire” tali cambiamenti. Piaccia o meno, credo di averli invece intuiti, di aver già forgiato una serie di ipotesi teoriche nuove, di essere quanto meno al “flogisto”. Molti altri annaspano, come tutti quelli il cui cervello si è rappreso alla guisa di una colata di cemento”. (La Grassa)

Adesso, se qualcuno è ancora in grado di cogliere la differenza tra fase ed epoca storica e tra tattica e strategia, valuterà queste accuse per quello che realmente sono, ovvero vaneggiamenti inconsulti di apostoli ed eremiti dell’apocalisse che hanno divorziato, da un bel po’, dal mondo reale.

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