RISCHI E OPPORTUNITA’ (di G. Gabellini)

Alle turbolenze che da mesi e mesi scuotono il panorama politico italiano, è andato ad aggiungersi il generale subbuglio del mondo arabo innescato dai moti tunisini, che hanno funto da detonatore della complessa polveriera nordafricana e mediorientale (che coinvolge tutti i paesi arabi che vanno dal Marocco al Pakistan) in costante pericolo di deflagrare.

Dopo i fallimenti di quasi tutte le rivoluzioni colorate – con la magra consolazione georgiana – tentate (Iran) e solo in principio andate in porto (Ucraina, Kirghizistan), gli USA si trovano ora a celebrare la presunta "voglia di democrazia" del popolo tunisino, che si millanta sceso in piazza per dar luogo alla rivolta eloquentemente ribattezzata dalla stampa statunitense come "Rivoluzione dei Gelsomini", termine che rimanda sinistramente proprio a quelle sommosse a orologeria fomentate da Washington nei paesi un tempo facenti parte dell'Unione Sovietica (soprattutto), in cui OGM finanziate dai soliti "filantropi" di turno (Soros in primis) e fazioni politiche strettamente legate ai centri di potere statunitensi, in evidente convergenza di interessi, hanno unito le proprie forze per gettare in un unico calderone equiparante ragioni reali del’esistente malcontento popolare e notizie false o enormemente gonfiate, in un intruglio esplosivo tale da acuire la tensione fino al punto di rottura, che sarebbe dovuto poi culminare con il rovesciamento degli ordini costituiti sgraditi a Washington. Tuttavia il detonatore della rivoluzione tunisina non sembra essere stato affatto quella smania "democratica" indicata dalla stampa made in USA (che come sempre riduce il tutto a motivazioni molto organiche ai propri interessi), quanto la crescita esponenziale dei prezzi relativi ai beni di prima necessità – quali pane, latte e altri alimenti – dovuta alla voracità delle "cavallette" finanziarie che stanno letteralmente distruggendo la produzione mondiale (spazzolandosi industrie a piè sospinto), facendo così schizzare alle stelle i prezzi dei beni sopra indicati, e alla sconsideratezza della cricca legata al presidente appena cacciato, Ben Ali, che solo dopo aver udito il tintinnar di sciabole si è deciso a disporre che i prezzi venissero calmierati. Ciò non è servito a molto a placare la furia popolare, che si è ugualmente abbattuta sul governo di Tunisi, spingendo Ben Ali a una fuga ignominiosa. La cosa ha suscitato un malcelato sollievo al Segretario di Stato Hillary Clinton, che pur nella sua proverbiale loquacità ha "stranamente" messo la sordina agli evidenti moventi economici della sommossa per rilasciare le solite trite e ritrite dichiarazioni pubbliche infarcite di retorica umanitaria, inneggianti alla "sovranità popolare" e sull'auspicio che la "sete democratica” tunisina venga tempestivamente placata. Il motivo che l'ha spinta a puntare su tale cavallo di battaglia lo spiega con estrema chiarezza il brioso Webster Tarpley, che sottolinea il fatto che "Il carattere economico delle agitazioni in corso rappresenta un vero problema per gli imperialisti di Washington, poiché le linee guida del Dipartimento di Stato tendono a definire i diritti umani esclusivamente in termini politici e religiosi, mai come un problema di diritti economici o sociali. Controllo sui prezzi, politiche salariali, assegni per la disoccupazione, strumenti del welfare, diritto alla salute, politiche abitative, diritti sindacali, controllo sulle banche, tariffe doganali protezionistiche e altri strumenti di autodifesa nazionale non trovano alcuno spazio nei mantra ripetuti da Washington". Primo mistero (di Pulcinella) svelato. L'esaltazione di determinati atteggiamenti da nababbo che Ben Ali avrebbe tenuto, operata dai soliti cablogrammi a orologeria di Wikileaks e amplificata da certa stampa ricorda però molto da vicino la campagna diffamatoria montata, tempo fa, sul presidente georgiano Edouard Shevardnadze da alcuni giornali tedeschi, i quali, accusandolo di aver acquistato una lussuosa villa nella località di Baden Baden con soldi dei contribuenti, contavano di mettere in piena luce la corruzione che serpeggiava all'interno suo governo. La notizia si scoprì esser stata inventata di sana pianta, ma solo dopo che Shevardnadze fu costretto a lasciare il posto al suo successore, Mikheil Saakashvili, nel corso dell'unica rivoluzione colorata coronata da successo, quella cosiddetta "delle Rose". Il fatto stesso, inoltre, che Hillary Clinton abbia invitato compagnie come Google a smettere di assecondare le richieste di censura inoltrate dai governi “tirannici”, a tutela della cosiddetta "libertà di rete" in riferimento alla decisione del governo tunisino di oscurare internet (oltre a tingersi di ridicolo) è facilmente interpretabile come l'ennesimo tributo a social network quali Facebook e Twitter, le cui potenzialità eversive sono state ampiamente dimostrate in occasione del più colossale fallimento "colorato", quello della sedicente "Onda Verde" in Iran. Tuttavia, la rivolta tunisina pare esser dettata da solide e comprensibili motivazioni, cui va riconosciuto un rispettabile grado di genuinità. Ragion per cui sembrerebbe conferibile una buona dose di credibilità alla tesi secondo la quale gli USA stiano in realtà tentando in ogni modo di appropriarsi della sommossa, di tirarla dalla propria parte in modo tale che da essa scaturiscano gli effetti graditi ai facinorosi strateghi installati nel Pentagono e nel Dipartimento di Stato. Essi starebbero quindi tentando di canalizzare l'ondata popolare per i giusti condotti, di sfruttare il malcontento popolare esistente in molti paesi africani ed asiatici per innescare un effetto domino di rivoluzioni (colorate o meno) sulla falsariga del modello tunisino; un vortice che risucchierebbe tra le proprie spire tanto presidenti invisi a Washington come Gheddafi in Libia e Assad (e stirpe) in Siria quanto gerontocrati fedeli all'atlantismo ma resi inadeguati dalle recenti dinamiche geopolitiche, come (per l'appunto) Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto. In Egitto è in corso una rivolta che molti hanno accomunato a quella tunisina, ma i punti di contatto comuni non paiono molti. In Egitto (malgrado l'attenzione che la stampa occidentale sta riservando a El Baradei) come in Tunisia i rivoltosi non paiono essersi asserragliati dietro la figura di un leader unico, ma nel primo paese esiste una compagine forte come la Fratellanza Musulmana di cui non esiste traccia nel panorama politico del secondo. La Tunisia si è inoltre rivoltata contro una classe politica certamente filoccidentale, ma per ragioni squisitamente economiche, ovvero contro una classe politica al potere da un ventennio, dedita al mantenimento dei propri interessi specifici e indifferente al continuo peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Le ragioni che hanno portato all'insurrezione egiziana sembrano invece legate più che altro alla trentennale sottomissione di Mubarak all'atlantismo più oltranzista, alla linea politica completamente vincolata ai voleri di Washington e Tel Aviv e, di conseguenza, estremamente repressiva nei confronti delle fazioni religiose (come, per l'appunto, la Fratellanza Musulmana) avverse ad Israele e solidali con il vicinato arabo. L'importanza che il governo di Tel Aviv riconosce ad un alleato come Mubarak la si evince tra l’altro dal fatto che la stessa stampa israeliana ha recentemente dato risalto alla notizia secondo cui il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman a
vrebbe disposto che gli ambasciatori israeliani in Europa, in Russia e negli USA facessero presente ai paesi interessati l'urgenza di sostenere il regime di Mubarak. Anche gli USA, dal canto loro, non hanno nascosto una certa preoccupazione per ciò che sta avvenendo in Egitto, pur senza sbilanciarsi come i loro alleati di Tel Aviv. Barack Obama si è limitato a un mero stigmatizzare, in maniera assai sibillina, gli "eccessi" della folla (cosa che non ha fatto in relazione alla vicenda tunisina) e ad auspicare una normale transizione "democratica". In effetti la situazione tunisina, in cui regna una caotica instabilità funzionale a Washington, desta assai meno preoccupazioni alla Casa Bianca rispetto a quella egiziana, che vede una forte fazione dichiaratamente maldisposta nei confronti degli occidentali, ovvero la Fratellanza Musulmana, in posizione favorita rispetto a tutte le altre nella corsa alla successione dell'esule Mubarak. E' probabilmente a ciò che si deve la riverenza con cui gli occidentali stanno trattando il semi – carneade El Baradei, che con ogni probabilità usufruirà del loro pieno sostegno, specie in sede elettorale, grazie alla nota "flessibilità" (o "manovrabilità") propria alla “prassi democratica”. Ma la destabilizzazione potrebbe rivelarsi incontenibile (almeno così spererebbero gli USA, secondo questa lettura), e coinvolgere paesi apertamente ostili come Libano, Siria, Yemen, e fare in modo che pericolose fazioni come Hezbollah vengano spinte nell'angolo in favore di candidati ben più morbidi e "ragionevoli", come il decadente Hariri o come i miliardari legati a doppio filo ai reali Sauditi, storici alleati degli USA. In generale, comunque, è possibile ipotizzare che la turbolenza generale che sta gettando nell'inquietudine numerosissimi governi africani e asiatici sia strumentale (ma non che vi rientri) al progetto di balcanizzazione targato USA atto a minare alle fondamenta gli interessi delle grandi potenze rivali, ovvero Iran, Russia e Cina, che stanno mettendo a segno colpi vincenti in tutta l'area interessata dal fenomeno tumultuoso. L'appeasement radicale della Turchia nei confronti delle tre potenze indicate ha reso ancor più urgente l'imperativo di isolare l'Iran, di compromettere gli affari d'oro che la Cina sta chiudendo con numerosi paesi africani e di limitare il raggio d'azione di Gazprom, braccio armato con cui Putin sta stringendo numerosi paesi europei sotto l'abbraccio energetico russo. La destabilizzazione del Pakistan, specie dopo l'avvicinamento di Islamabad a Pechino e l'intavolamento della trattativa finalizzata a coinvolgere Gazprom nella costruzione del gasdotto con l'Iran, procede con continuità. All'ambizioso progetto South Stream, con il quale Putin è riuscito a mettere in stretto contatto (con tutte le ricadute che la cosa comporta) le diplomazie di numerosi stati europei ed asiatici, gli USA e i burocrati di Bruxelles hanno tentato di rispondere con l'utopico gasdotto Nabucco, finalizzato ad allentare la naturale interdipendenza tra Europa e Russia. Pochi giorni fa è maturata la secessione del Sudan del Sud – paese con cui la Cina da tempo mantiene stretti legami diplomatici e commerciali – nel contesto di una lunga guerra civile (pur di natura completamente diversa rispetto a quella tunisina o egiziana) piena zeppa di ingerenze esterne. Si tratta di operazioni tutte iscrivibili nel disegno strategico statunitense. Queste recenti turbolenze non sembrano invece frutti del medesimo albero, e sarebbe quindi sbagliato assimilarle alle altre. Tuttavia i paesi interessati dai tumulti faranno bene a rimanere vigili sui prossimi sviluppi, e a gestire attentamente la presente situazione, che da un lato offre loro margini di manovra inconcepibili per i gerontocrati che erano rimasti al loro posto grazie a decenni di tresche, favori e accordi sottobanco, ma che li vede al contempo estremamente esposti e vulnerabili. Se riuscissero a far convergere i reciproci interessi potrebbero trovare la forza necessaria per effettuare una drastica inversione di rotta, magari riappropriandosi del controllo delle proprie risorse senza incorrere nel medesimo destino del vecchio statista persiano Mossadeq, agnello sacrificale dell'imperialismo. Intanto, potrebbero arginare gli ambienti parassitari e asserviti ai poteri forti, come sta facendo Hezbollah, e porre un calmiere dei prezzi sui beni di prima necessità, come fecero a suo tempo i rivoluzionari francesi. Una volta stabiliti questi vincoli, potrebbero adottare una politica economica improntata al protezionismo e volta a stimolare l'ottimizzazione della propria produzione interna in vista di una reale indipendenza da altri paesi. Una rilettura critica del pensiero di Friedrich List, così come la dispose a suo tempo l'Iran dell'Ayatollah Ruollah Khomeini all'indomani della Rivoluzione Islamica, che culminò proprio con la cacciata di un parassita asservito come lo Shah Reza Pahlavi. Non sarà di certo semplice governare il caos odierno, ma come sempre ai rischi corrispondono anche opportunità, che paesi come Tunisia ed Egitto (e altri, ovviamente) potrebbero cogliere al volo per scuotersi dal loro atavico torpore, che li ha inchiodati per decenni in una posizione che definire subalterna sarebbe un eufemismo decisamente limitativo.