SCENARI DI CRISI (di G.Gabellini)

I grandi eventi nella "grande narrazione" umana, pur connotati da originali e inedite sfaccettature, incanalano archetipi eterni nel solco della storia. Ogni fatto cruciale è frutto di un amalgama che coniuga fattori storici ricorrenti a variabili impazzite, fissate di volta in volta da criteri legati allo zeitgeist che domina il momento. Proprio per questo motivo, l'attuale crisi che ha messo in ginocchio milioni di lavoratori salariati, è stata paragonata da moltissimi osservatori a quella, famigerata, del 1929.
Le differenze tra queste due crisi sono però abissali, troppo profonde, in virtù dei radicali cambiamenti che ha subito il sistema economico in questi ultimi ottant'anni. Quella crisi è stata efficacemente affrontata dal presidente Fraklin Delano Roosevelt che, con la sua politica economica fondata su una sistematica redistribuzione assistenzialistica che è andata a ingrossare le fila della generalizzata e variegata "middle class" ("upper" o "lower" che sia, cambia ben poco), ha dato il via all'era keynesiana (i cui meccanismi sono stati poi “oliati” con la Seconda Guerra Mondiale). La crisi petrolifera del 1973 che ha regalato agli Stati Uniti ben otto milioni di disoccupati (provenienti in larghissima parte dal settore automobilistico), mai realmente riassorbiti, ha chiuso l'esperienza keynesiana e spalancato le porte all'incombente ultracapitalismo. L'impresa fordista, che faceva della solidità il proprio fondamento, ha lasciato così il posto all'azienda "liquida", fluttuante, i cui concetti chiave sono "flessibilità" e "dinamismo". L'avvento delle nuove tecnologie ha poi chiuso il cerchio, dando luogo a un capitalismo preminentemente finanziario, che ha spinto le imprese a spostare il proprio nucleo dalla fabbrica a Wall Street. La logica della Borsa ha reciso di netto i legami che intercorrevano tra tasso di crescita dell'economia reale e indice di rendimento dei titoli finanziari; l'ondivago corso azionario non rispecchiava più la situazione delle imprese. Il valore economico non è, quindi, direttamente riconducibile a criteri di oggettività, ma corrisponde a un tipo di ricchezza essenzialmente virtuale. Questa colossale evidenza è però belluinamente ignorata anche da diversi addetti ai lavori, che per ignoranza (diversi casi) o palese malafede (stragrande maggioranza dei casi), martellano con frequenza ossessiva l'opinione pubblica con analisi, editoriali e commenti finalizzati ad alimentare l'illusione che le crescenti titolarizzazioni di borsa attestino una maggiore produttività effettiva di beni. Il graduale abbandono del vecchio modello renano di capitalismo, fondato su una certa forma di sussidiarietà, e la conseguente adozione del modello anglosassone sopra descritto, molto più performativo, ha dato luogo a un’economia il cui fondamento basilare è il rischio. Poiché l'acquisizione dei titoli di borsa da parte degli agenti capitalistici avviene sempre a credito, la bolla speculativa non può che allargarsi e caricarsi di ripercussioni potenzialmente devastanti su tutti i vari strati che compongono il tessuto sociale. L'ultimo esempio di questa follia è stato lo scoppio della bolla sui cosiddetti "derivati", che sono delle operazioni commerciali basate sul calcolo della probabilità e sui fattori di rischio. Massimo Fini scrive opportunamente che si tratta di "Opzioni su opzioni su opzioni, scommesse su scommesse su scommesse, speculazioni sulla speculazione e sulla speculazione delle speculazioni, transazioni su simboli di simboli di simboli, moltiplicazioni di moltiplicatori in un avvitamento all'insù, verso il futuro, che teoricamente non ha limite". Questo sistema ha consentito agli agenti del capitale di accumulare un potere immenso, di cui si avvalgono sistematicamente per manovrare le decisioni che spettano alla politica, di cui hanno già ampiamente limitato le sfere d’influenza. Un esempio eclatante di questo sistema è stato il crac economico dell'Argentina, giunto alla fine del 2001. Questo paese aveva seguito pedissequamente le direttive di quell'abbazia del Pensiero Unico che è il Fondo Monetario Internazionale, privatizzando quasi tutto il patrimonio nazionale (petrolio, miniere, acqua, ferrovie ecc.), tagliando i fondi destinati al Welfare, liberalizzando il commercio estero e, ciliegina sulla torta, livellato il valore del peso a quello del dollaro. Il dissesto nazionale, accompagnato all'endemica corruzione dell'intera classe politica del paese, non solo non riuscì a coprire il deficit pubblico, ma lo accrebbe a cifre esorbitanti. Ciononostante, l'allora ministro argentino dell'economia Diego Cavallo fu insignito del titolo di "Eroe liberale dell'anno" dal "New York Times" nel marzo 2000. Il patrimonio di un paese era stato svenduto a investitori (preminentemente esteri) privati in ottemperanza alle direttive impartite dal FMI. Al di là dei suoi noti esiti, il dato cruciale che ha è emerso da questa vicenda è un altro. Così come le imprese, gli stessi stati nazionali sono diventati oggetto di valutazioni specifiche, operate da compagnie di rating quali “Moody's”,  “Standards & Poor's” e “Fitch”, che rispondono a criteri quali "competitività" e "affidabilità". Il cosiddetto processo di "globalizzazione" ha registrato una improvvisa impennata con l'applicazione di questo modello anglosassone, statunitense in realtà, a tutti gli stati europei prima, e dell'intero globo a lungo andare. Le differenza strutturali che i vari paesi presentano con gli Stati Uniti vengono così "misurate" in base alla loro distanza dall'epicentro, che risiede appunto a Wall Street. L'economista francese Robert Boyer spiega acutamente che "Si comparano con questa società, figura emblematica del capitalismo, tutte le altre, per scoprirle "emergenti" o "arcaiche". In altri termini, la maggior parte degli analisti americani applica alle altre economie gli strumenti concettuali utilizzati per analizzare la società americana, supponendo che essi siano necessari e sufficienti". La pialla livellatrice assume quindi un aspetto di natura non esclusivamente economica, ma anche culturale, e questo spiega l'attuale sostituzione della vecchia cultura europea con l'attuale "occidentalizzazione" (e "macdonaldizzazione") del mondo. La scomparsa della vecchia distinzione sociale tra borghesia e proletariato, ceti ambedue confluiti nella "middle class" di stampo americano, ha disinnescato la carica esplosiva contenuta nell'analisi congegnata dal vecchio Karl Marx, che faceva del proletariato quel "soggetto rivoluzionario" che avrebbe decretato la fine del capitalismo e l'avvento della società comunista. Molti economisti e filosofi alla Toni Negri hanno dimostrato di non aver colto questo nodo essenziale, ribadendo la solita tesi incentrata sulla lotta tra dominanti e dominati, cosa che li ha portati a pronosticare che la fine della crisi apporterà lacerazioni strutturali all'interno del capitalismo, irreversibilmente avviato verso il tramonto. Contrariamente a quanto sostenuto da costoro, la crisi è il frutto degli scontri tra agenti del capitale, in lotta perenne per il predominio. Il capitale finanziario è il loro braccio armato, mediante il quale azzannano la giugulare di stati nazionali come la Grecia o degli agenti
loro nemici, allo scopo di riaffermare o ridisegnare le gerarchie mondiali. Uno scontro durissimo combattuto a spese del tessuto sociale, letteralmente lacerato dai terribili colpi che gli agenti capitalistici si assestano reciprocamente. L'esasperazione di questi scontri può, come in questo caso specifico, sfociare in crisi congiunturali. Un passo avanti sarebbe quello di analizzare la situazione senza i filtri di un'ideologia oramai ridotta a religione, un altro quello di riportare l'economia all'interno del complesso delle attività umane, strada indicata a suo tempo dal vecchio Karl Polanyi. La necessità che presenta questa particolare fase che si avvia verso il policentrismo è quella di riaffermare il primato della politica sull'economia, in modo da frenare lo strapotere degli agenti del capitale, che non hanno avuto remore a spingere sull'orlo del baratro un paese di dieci milioni di abitanti come la Grecia. Il problema è che le classi politiche portatrici di un minimo progetto di autonomia nazionale sono oggetto di continui attacchi, di natura non squisitamente mediatica (si pensi al golpe che aveva momentaneamente tolto di mezzo Hugo Chavez o alle tante rivoluzioni colorate dell'Asia centrale). L'America Latina, tra i tanti, ha dimostrato però di non essere più il "cortile di casa" di Henry Kissinger, se è vero che sono riusciti a salire al potere uomini politici come Chavez, Lula, Correa, Kirchner, Morales e Mujica. L'Europa, invece, continua a trincerarsi dietro un silenzio grottescamente eloquente.