SECONDO STRALCIO DI UN LUNGO LAVORO, di GLG

gianfranco

5. Come già detto non ha più molto senso dibattere sul primato delle forze produttive o dei rapporti si produzione. Una simile preoccupazione è stata tipica di una fase in cui ci si era convinti dell’ingrippamento dell’Urss e del “campo socialista”, credendo però ancora alla possibilità di rivitalizzare la ricerca di una via per riprendere il presunto cammino verso la formazione sociale di transizione (socialismo) alla società comunista. Caduta questa illusione, si tratta di ripristinare il senso della ricerca scientifica di Marx mostrando l’errore di prospettiva (futura) in cui cadde. Per ottenere un simile risultato bisogna tornare al nucleo centrale e fondante dell’analisi marxiana della società; ma con specifico riferimento a quella capitalistica.

Marx accetta dai classici la concezione secondo cui il valore di un bene prodotto (egli non lo chiama mai bene, ma adesso non sottilizziamo) – valore attorno a cui oscilla poi il prezzo di mercato, pur espresso in termini monetari – è il tempo di lavoro speso per produrlo. In un certo senso è come se quel prodotto fosse un coagulo di lavoro, forgiato secondo la forma che il lavoratore (singolo o collettivo) gli dà affinché serva ai bisogni della vita associata in quella determinata fase storica di “evoluzione” della società. Fin qui Marx non innova nulla rispetto agli economisti della scuola classica (Smith e Ricardo essendo i più importanti). La vera “scoperta” decisiva, l’asse centrale da cui si diparte l’intero suo sistema teorico (e anche l’interpretazione di determinati svolgimenti storici) è la distinzione tra lavoro e forza lavoro.

Il primo è il lavoro in atto, l’attività lavorativa – erogata in una qualche sua forma concreta – che, come appena ricordato, costituisce il valore dei beni prodotti. La seconda è il lavoro in potenza, la capacità di erogare l’attività lavorativa; capacità strettamente connessa alla corporeità umana, ai muscoli, nervi, cervello, ecc. La società capitalistica vede cadere i vincoli schiavistici e servili di chi lavora e produce. La dissoluzione di tali vincoli avviene progressivamente, nel corso di forse un paio di secoli, ma la teoria non è storia e parte immediatamente da tale carattere. Chi non capisce tale fatto è bene che non si dedichi alla scienza; faccia lo storico, pensi all’essere e al divenire del mondo, ma si allontani dal settore scientifico perché qui procura solo guasti.

Nell’analisi di Marx, sussiste un retaggio della vecchia formazione sociale d’origine (feudale), ma soltanto nella distinzione tra chi ha la proprietà (potere di piena disposizione) dei mezzi produttivi e chi non l’ha. Anche qui non si cada tuttavia in confusioni. Il potere di disporre della terra (tipica forma feudale in cui tale potere si esplicava su tutto ciò che sulla terra esisteva, compresi gli esseri umani asserviti) non è quello decisivo; si muta nella semplice proprietà di una delle forze produttive (oggettive), quelle più decisive e specifiche del capitalismo essendo invece gli strumenti di produzione e le materie prime da trasformare producendo, ecc. La dissoluzione del Terzo Stato, e la divisione che per Marx viene a stabilirsi tra borghesia (capitalisti) e proletariato (operai, lavoratori salariati), dipende da questa preliminare distinzione tra chi ha la proprietà dei mezzi produttivi e chi no. Data la liberazione dai vincoli servili, chi non ha proprietà deve, per vivere, cedere l’unica cosa che possiede: la propria capacità lavorativa o forza lavoro. E non può che cederla ai proprietari che hanno bisogno d’essa per far funzionare quanto altrimenti resterebbe un semplice “ornamento” della loro condizione sociale (ma quanto durerebbe quest’ultima senza produzione?).

Dato che non esiste più alcun vincolo di dipendenza personale, è necessario che si crei il luogo ove è possibile funzioni una certa forma di rapporti sociali che assicuri la possibilità al non proprietario (dei mezzi produttivi) di vendere quello che ha a disposizione, cioè la sua semplice capacità lavorativa, il lavoro in potenza. Questo luogo è appunto il mercato dove vanno a confluire ormai i prodotti decisivi per il mantenimento e riproduzione di quella forma dei rapporti sociali definita capitalistica; cioè della nuova formazione sociale (borghese) che ha sostituito la feudale. E’ questa la sfera (più “superficiale” e dunque più visibile e…. vissuta) di detta formazione sociale: “la sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita della forza lavoro [ormai trasformata necessariamente in merce, altrimenti non potrebbe essere venduta dal suo possessore; ndr]”.

Tale sfera è “in realtà un vero Eden dei diritti innati dell’uomo. Quivi regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham. Libertà! Poiché compratore e venditore di una merce, per es. della forza-lavoro, sono determinati solo dalla loro libera volontà. Stipulano il loro contratto come libere persone, giuridicamente pari. Il contratto è il risultato finale nel quale le loro volontà si danno un’espressione giuridica comune. Eguaglianza! Poiché essi entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di merci, e scambiamo equivalente per equivalente. Proprietà! Poiché ognuno dispone soltanto del proprio. Bentham! Poiché ognuno dei due ha a che fare solo con se stesso. L’unico potere che li mette l’uno accanto all’altro e che li mette in rapporto è quello del proprio utile, del loro vantaggio particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro, tutti portano a compimento, per una armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici di una provvidenza onniscaltra, solo l’opera del reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell’interesse generale” (Marx, Il Capitale, libro I, cap. IV: Trasformazione del denaro in capitale).

Avete capito? Non c’è inganno, non c’è uso della forza, non c’è obbligo alcuno nella sfera della circolazione mercantile. C’è perfetta libertà di contrattazione, nella quale ora può prevalere uno degli scambisti, ora l’altro. E soprattutto c’è la “legge” della domanda e dell’offerta per cui il prezzo oscilla, sia pure avendo come centro di gravità il valore (lavoro speso, incorporato, seguendo in ciò la scuola “classica”). E la forza lavoro, senza vincoli servili, è divenuta una merce; quindi gli scambisti della stessa (venditore e compratore) si trovano in libera contrattazione nella sfera della circolazione, che è di tipo mercantile. Chi possiede solo i mezzi di produzione (dunque non è artigiano che lavora con i propri strumenti e il proprio sapere) è obbligato a comprare la forza che li mette in movimento, che dà loro il significato proprio che hanno, altrimenti “arrugginiscono” (in senso lato). Chi possiede solo la capacità lavorativa (forza lavoro) è obbligato a trovare un compratore.

Nel reciproco obbligo essi s’incontrano, contrattano e ottengono “liberamente” (non per costrizione) quanto desiderano ottenere: uno ha bisogno di acquistare la merce con cui far funzionare i propri mezzi produttivi, l’altro ha bisogno di vendere la merce che possiede, che altrimenti pur essa “arrugginisce”. E’ l’unica che ha, dicono i miserabilisti; poverino, che altro può fare? E il capitalista che altro può fare se non acquistarla per non avere solo la proprietà di “ferri vecchi”? I buonisti, i pietosi, sono solo degli sciocchi che non pensano. Quando la merce forza lavoro è abbondante si avvantaggia il capitalista; quando è scarsa (in specie in certe qualificazioni) si avvantaggia il “poveretto” che non ha “altro da vendere”. Lo ripeto: basta piangere sul proletariato! Ma cosa avete capito del povero Marx; ha perso una vita in miseria per parlare a dei fessacchiotti. Brutta fine!