Sistema-mondo: tutto da buttare? di P. Pagliani

 

Sarà colpa della forma-intervista, ma Immanuel Wallerstein si è in effetti lasciato andare ad alcune profezie iperboliche e ad argomentazioni che anche a me paiono fastidiose, pur non considerandolo né studioso di seconda mano, né colluso sotto-sotto (“oggettivamente”?) col potere statunitense per via della sua posizione accademica negli USA – cosa non detta né nell’intervento di GLG, né in quello di GP, ma lasciata trapelare qua e là in scambi di opinione. Qui però mi tocca dire che francamente non ne posso più delle accuse di “nemico del popolo” lanciate a destra e a manca: anch’io per un certo estremismo di sinistra sono un “nemico del popolo”, un “borghese” che si rapporta solo ad altri “borghesi”, cioè gli amici di RipensareMarx, se non addirittura una specie di rossobruno (e GLG conosce il piacere di queste accuse). Non se ne può più. Sto attento dove devo stare attento, ma non voglio diventare paranoico, né subire la paranoia degli altri.

Finito lo sfogo, torniamo a Wallerstein.

Pur non essendo egli un “nemico del popolo”, lascia un po’ di sasso la sua previsione di “fine del capitalismo”. Sembra più una boutade giornalistica che una riflessione. In realtà la tesi dei teorici del sistema-mondo è diversa e molto più articolata, non così “catastrofista-classica” come sembrerebbe dall’intervista.

Ognuno pensa con la propria testa e Arrighi non è Wallerstein, ma la tesi sistema-mondista suona in un altro modo che cercherò di illustrare.

Ne “Il lungo XX secolo”, Giovanni Arrighi dopo aver analizzato la crisi del sistema monocentrico basato sugli Stati Uniti e quindi l’entrata del mondo in un periodo di “caos sistemico” (noi diremmo di “tensione verso il policentrismo”) e dopo aver confrontato questa crisi (non finanziaria ma di assetti di potenza) con quelle precedenti da lui identificate, si pone davanti a due alternative.

La prima è una riconquista della posizione dominante da parte degli Stati Uniti:

 

Ma tale tendenza [al cambio della potenza egemone, come avvenne tra Inghilterra e USA nella crisi sistemica  precedente, n. d. a.] è contrastata dalla portata stessa delle capacità belliche e di formazione dello stato della vecchia nazione dominante, la quale potrebbe senz’altro essere in grado di appropriarsi, attraverso la forza, l’astuzia o la persuasione, dei capitali eccedenti che si accumulano nei nuovi centri, ponendo così fine alla storia del capitalismo attraverso la formazione di un impero mondiale davvero globale.

 

Quindi per Arrighi un impero mondiale non può essere un impero capitalistico (Arrighi non si è mai trovato d’accordo con Negri), ma la fine del conflitto interdominanti, insita in un impero per la prima volta mondiale, porterebbe alla fine del capitalismo così come lo abbiamo conosciuto finora. Perché per Arrighi il capitalismo che abbiamo conosciuto è conflitto di potenza, conflitto di poteri. Inoltre per Arrighi “non capitalistico” non significa necessariamente “comunista”, anzi.

Ad ogni modo l’impero (non capitalistico) mondiale può anche essere un’ipotesi da non prendere nemmeno in considerazione date le evidenti scosse telluriche geopolitiche alle quali stiamo assistendo (e di cui la crisi finanziaria è un fenomeno). Ma non è un’ipotesi teoricamente illegittima.

Può essere un’ipotesi inutile, perché si spinge oltre la “fase”. Ma anche Marx si è spinto oltre la fase (spingendo a sua volta Engels e Kautsky a procurare guai teorici e politici, siamo d’accordo) e non è un buon motivo per buttarlo via tutto.

 

Nel secondo scenario, la vecchia nazione dominante [cioè gli USA, n. d. a.] potrebbe non riuscire ad arrestare il corso della storia del capitalismo, e il capitale dell’Asia orientale potrebbe giungere a occupare una posizione dominante nei processi sistemici di accumulazione del capitale. La storia del capitalismo dunque continuerebbe, ma in condizioni radicalmente diverse da quelle esistite a partire dal moderno sistema interstatale. La nuova nazione dominante ai vertici dell’economia-mondo capitalistica sarebbe priva delle capacità belliche e di formazione dello stato che, storicamente, sono state associate alla riproduzione allargata di uno strato capitalistico alla sommità del livello di mercato dell’economia-mondo. Se Adam Smith e Fernand Braudel erano nel giusto nell’affermare che il capitalismo non sarebbe sopravvissuto a questa dissociazione, allora non sarà, come nella prima ipotesi, l’azione di un particolare agente a porre termine alla storia del capitalismo: essa giungerebbe al termine come risultato delle conseguenze non intenzionali dei processi di formazione del mercato mondiale. Il capitalismo (il “contromercato”) si estinguerebbe assieme al potere statale che ne ha fatto le fortune nell’era moderna, e il livello sottostante dell’economia di mercato farebbe ritorno a qualche tipo di ordine anarchico.

 

Anche qui la visione di Arrighi si spinge ben oltre la fase visibile e possiamo benissimo dissentire. Tuttavia c’è da notare che non si sta parlando di una caduta catastrofista del capitalismo per via di inceppamenti del meccanismo di accumulazione o di sviluppo delle forze produttive unitamente alla ineluttabile missione storica della classe operaia, bensì di una fine del capitalismo dovuta a una disintegrazione della sua funzione di potenza (funzione conflittuale, perché la potenza serve per il conflitto). Tanto è vero che la strada verso i due scenari potrebbe essere caratterizzata da un periodo di guerre così intenso da aprire un terzo scenario: “un ritorno stabile al caos sistemico dal quale [il capitalismo] ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione”.

Ora possiamo anche opinare che non di Asia orientale si tratterà ma di Russia, o di Eurasia o di Patto di Shanghai, o di altro. Arrighi cerca di portare argomenti alla sua tesi, che possono benissimo essere confutati (magari anche ricordandogli l’errore sul Giappone – ma non mi ricordo se ne fu proprio lui l’autore). Ma contesto che sia un economicista o un determinista. Per lui l’espansione finanziaria è il sintomo del dissesto di una configurazione di potere (ovviamente con effetti di retrazione), ma non ne è la causa. E più di una volta ha affermato  che se anche si spingeva a fare delle ipotesi non di fase, tuttavia non aveva la sfera di cristallo e quindi erano solo ipotesi da prendere con le pinze.

Chiarito questo possiamo anche contestare ogni singolo argomento dei sistema-mondisti, ma almeno non sbaglieremo il bersaglio.

 

L’affermazione di Wallerstein sull’importanza dell’azione individuale per me è criptica. Nel senso che non riesco nemmeno a capirla. Nel sistema-mondo si parla, per l’appunto, di sistemi, di formazioni statali, di classi, ceti, funzioni, ma almeno personalmente non mi è mai capitato di veder discettare di “azioni individuali”. Quindi lascio perdere.

 

Concordo sulla stucchevolezza della moda di spiegare fenomeni relativi alla sfera sociale con esempi tratti dalle scienze matematiche, fisiche e naturali. Sono – a volte innocentemente a volte no – delle vere “imposture intellettuali”, come dicevano Bricmont e Sokal, opportunamente citati da GLG. Inoltre Ilya Prigogine è in questo rispetto uno studioso veramente bistrattato, gli hanno fatto dire di tutto e di più, terzo in questo esecrabile sport dopo Gödel e Heisenberg.

 

In definitiva, anche se passibili di svariate critiche, i teorici del sistema-mondo sono stati un tantino sopra le tiritere e le giaculatorie marxisteggianti, essendosi per lo meno posti il problema della funzione centrale che la potenza e il conflitto hanno nel sistema capitalistico e nella sua storia, tiritere e giaculatorie che a furia di “povertà”, “popolo”, “antifascismo”, “classe”, “stili alternativi di vita”, “rivoluzione” e “crisi strutturali” (economicistiche) stanno riapparendo con virulenza in questo periodo in cui i precedenti assenti di potere si stanno destrutturando in vista di qualcosa che non è facile capire.

Analizziamo quindi la fase (cercando però anche di stabilire volta per volta qual’è la miglior granularità di analisi) e agiamo di conseguenza, senza però dimenticarci che la generazione seguente agirà, nella fase che ancora non scorgiamo, sulla base di quello che saremo o non saremo stati in grado di fare e non dimenticandoci che per ora anche noi siamo solo quattro gatti che ci annusiamo l’un con l’altro e non certo una forza organizzata.

E cerchiamo di evitare di diventare a furia di idiosincrasie, tre, due, uno, one man band.

 

Piero Pagliani