SOMMARIE RIFLESSIONI SULLA CRISI – PARTE TERZA

gianfranco

Le prime due parti qui

 

CONCLUSIONE: LA CRISI DIPENDE DALLA POLITICA

 

1. Nella seconda parte si è chiarita la sequenza logica che va dal “profondo” alla “superficie”, dal “dietro le quinte” al “palcoscenico”, ecc. Bisogna sempre partire dall’indagine intorno alla relazione intercorrente tra le varie parti costituenti la società mondiale; parti che sono da me state denominate formazioni particolari: fondamentalmente i paesi, ancor oggi, spesso, le nazioni. Tali parti sono in perpetua frizione fra di loro; e tuttavia, quest’ultima conosce gradazioni assai diverse d’intensità. In certi periodi storici, si ha quello che ho indicato quale monocentrismo, in cui una parte ha sostanziale preminenza – mai perfetta, mai esente da tensioni e conflitti, in cui essa riesce tuttavia, in diversa guisa, a tenere testa e a prevalere di fatto – sulle altre. Lo squilibrio delle forze in campo, la loro oscillazione vibratoria, provoca scontri tra le varie formazioni: acuti oppure sordi, magari “sotterranei”. Per lunghi periodi sembra sussistere un buon equilibrio, che in genere è quello preso dalle varie teorie come punto di partenza perché ritenuto prioritario. Alla fine, invece, le energie accumulate nelle incessanti frizioni si scaricano e lo squilibrio – la situazione “normale” di un qualsiasi sistema di relazioni – diviene così manifesto; da qui inizia un periodo caratterizzato da urti in via di accentuazione. Si entra allora nelle epoche di multipolarismo e poi di policentrismo fortemente conflittuale che preme verso un regolamento di conti di tipologia bellica (sia pure di vario genere).

Poiché, come appena rilevato, gli ideologi dei dominanti tendono, salvo rare eccezioni, a mettere in primo piano l’equilibrio quale condizione “normale”, le varie forze in lotta si illudono a lungo sulla possibilità di ripristinarlo con mutua cooperazione, continuano ad incontrarsi e a “parlamentare”, sfruttano organismi e istituzioni (internazionali) creati nella precedente epoca monocentrica fingendo che essi funzionino veramente da luoghi di accordo e smussamento dei contrasti, mentre lo erano soltanto in quanto risultato della netta preminenza di una formazione particolare (o di due come nel mondo bipolare durato dal 1945 al 1989-91), cui le altre si piegavano per mancanza di capacità d’opposizione. Simile finzione alla fine non regge più; eppure si continua ancora ad invocare la ragionevolezza dei gruppi dirigenti, che dovrebbero comprendere il vantaggio di reciproche concessioni.

In realtà, il brontolio del conflitto, facendosi sempre meno sordo e più esplicito, viene ritenuto da ognuno dei contendenti quale prova della mala fede degli avversari; d’altronde, per mantenere il precedente equilibrio (apparente), sarebbe indispensabile che venisse nuovamente accettata la preminenza di una formazione particolare, accettazione ormai impossibile da parte di altre che si sono andate rafforzando. Impossibile proprio perché la maggiore forza acquisita da queste altre implica una scelta di fondo: o non la si usa e quella formazione (paese) regredisce, la sua società nazionale entra in disfacimento, i gruppi al comando in essa vengono sempre più manifestamente contestati e poi rovesciati da nuovi in crescita con l’appoggio della maggioranza degli strati sociali di cui consta la sua popolazione; oppure è necessario farla valere contro le pretese della formazione particolare tuttora predominante per dimostrarsi degni di mantenersi al potere, difendendo gli interessi del proprio paese e della quota maggioritaria del suo popolo.

Nella formazione sociale (questa volta considerata nel suo aspetto generale, caratterizzante le principali e più avanzate formazioni particolari di una data epoca storica) detta capitalistica – quella società la cui struttura portante è stata considerata dal vituperato marxismo il modo di produzione specificamente capitalistico, in quanto sua “anatomia e fisiologia” (Lenin in Che cosa sono gli amici del popolo) – la cosiddetta sfera economica rappresenta un complesso di strumenti atti al conflitto tra i vari paesi; sia nella situazione di apparente equilibrio (qui sembra anzi essere la sfera più impegnata nella competizione, mentre le altre due dovrebbero servire a smussarla e promuovere accordi cooperativi tra questi paesi) sia in quella in cui si manifesta la “crisi” di scoordinamento con tendenziale stagnazione e depressione della maggior parte del sistema mondiale. Dopo alcuni secoli, da quando si è fondamentalmente compiuta la transizione dal feudalesimo (più in generale, dalle società precapitalistiche) al capitalismo, ancora permane questa ideologia di fondo, giustificata all’inizio dalla “sorpresa” di vedere una sfera (solo produttiva), del tutto subordinata all’esercizio del potere conflittuale negli apparati politici e ideologici, divenire essa stessa fonte (e non solo fornitrice di mezzi) di conflitto tra gruppi contrapposti.

Questo ampliamento (nel capitalismo) del campo del conflitto dalle sfere politica e ideologica all’economica – ampliamento consustanziale alla trasformazione della produzione in generalizzato apprestamento di merci con l’estensione dell’uso della moneta e la creazione dei vari apparati finanziari sempre più complessi – ha completamente obnubilato la vista dei pensatori che analizzavano il conflitto. La sfera economica è stata così creduta preminente e determinante: essa orienterebbe la lotta, la quale servirebbe principalmente (pressoché esclusivamente) gli interessi economici dei gruppi predominanti, esistenti appunto nell’economia e che prevarrebbero nettamente sugli altri (quelli della politica e dell’ideologia) asservendoli ai propri scopi.

Poiché nella sfera economica la componente più mobile e mobilizzabile è la “ricchezza liquida”, quella nella sua forma monetaria (quindi appannaggio della sottosfera finanziaria e oggetto delle manovre degli apparati che in questa operano), la Finanza (in maiuscolo data la venerazione che le è tributata) appare quale il vero deus ex machina della situazione. Il movimento in tale sottosfera (le manovre dei suoi apparati) è pensato come il più decisivo nella società odierna, i finanzieri sarebbero gli autentici gruppi dominanti in quest’ultima (e senza nemmeno più questione di nazionalità perché il denaro “non ha patria”). E la crisi, dunque, non potrebbe che dipendere dalle loro cattive manovre; essi, periodicamente, perderebbero il senso della realtà, assatanati dalla sete di accrescere i guadagni già ottenuti in precedenza, con ciò provocando i crac di Borsa, i fallimenti di banche, ecc. con effetti sconvolgenti sul quadro produttivo, e poi su quello politico, che invece, se dipendesse solo da loro, sarebbero guidati saggiamente dai gruppi di vertice preposti a tali settori della società.

 

2. L’althusserismo ebbe l’intuizione di una simile deviazione ideologica. Esso si rifugiò però (e all’epoca non si poteva pretendere di più) nella concezione di una sfera economica dominante nell’epoca del capitalismo concorrenziale, mentre con l’avvento del mono(oligo)polio la dominanza sarebbe tornata agli apparati politici e ideologici; pur se venne mantenuta, per “ortodossia”, una poco perspicua “determinazione d’ultima istanza” da parte dell’economia. Oggi, simile concezione si può considerare un errore gravido di spiacevoli conseguenze teoriche, poiché a mio avviso rischia di confinare troppo con la riduttiva concezione marxista (non marxiana) della centralizzazione capitalistica quale regime di mercato (monopolistico) e non come trasformazione del rapporto sociale che è il capitale con il presunto netto antagonismo tra capitalista divenuto rentier e lavoratore collettivo cooperativo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), previsione rivelatasi errata con tutte le conclusioni da me tratte, e continuamente rielaborate, da ormai poco meno di vent’anni a questa parte.

Bisogna più decisamente abbandonare l’ideologia della preminenza, e determinazione, della sfera economica nel conflitto per la supremazia che si scatena tra i vari gruppi dominanti e diventa poi scontro tra formazioni particolari per il predominio sul piano mondiale. La caratteristica generale di tale lotta – che conosce forme di manifestazione concreta, empirica, profondamente modificatesi nel corso dei secoli e millenni – è la politica nel suo senso di sequenza di mosse strategiche preordinate appunto al fine della conquista della predominanza. Tale politica investe generalmente, e da sempre, le sfere sociali della politica e dell’ideologia nelle epoche precapitalistiche; essa si estende poi a quella economica nel passaggio alla formazione sociale (generale) capitalistica. La cui anatomia, la “struttura ossea”, sarà magari la sfera economica (se così piace pensare), ma quest’ultima non determina l’andamento concreto e le finalità perseguite dagli individui in società; proprio come lo scheletro, o anche il sistema dei vasi sanguigni e linfatici, o anche quello muscolare, ecc. non determinano la condotta di noi individui umani poiché è il cervello l’organo direttivo fondamentale, veramente centrale in ogni azione, in ogni movimento.

Certamente, se non esiste un corpo funzionante, il cervello semplicemente pensa e non agisce; tuttavia il corpo è l’insieme degli strumenti indispensabili all’azione, ma da solo non sa che fare, è puro abbrutimento. Sostenere che, nei vari apparati del corpo, uno (magari il cervello nel suo lato più materiale e concreto) è più importante degli altri, è senz’altro possibile ma spesso fuorviante. Meglio, a questo punto, accettare quanto disse Menenio Agrippa; non con riferimento ai vari gruppi sociali (che secondo lui avrebbero dovuto cooperare), bensì in quanto insieme di sfere e apparati indispensabili al conflitto tra tali gruppi affinché uno – o una data alleanza tra gruppi – prevalga sugli altri (sulle altre). Le varie sfere sociali sono tutte necessarie (ivi compresa quella economica nella formazione capitalistica), e s’integrano fra loro – poiché, fra l’altro, la suddivisione della società in sfere è tutto sommato arbitraria, effettuata per comodità d’analisi – nell’essere usate per attuare sequenze di mosse strategiche operative forgiate dal pensiero, in interazione con le strategie degli altri individui (e gruppi di individui) contro cui si lotta.

E’ dunque la politica, il complesso di strategie conflittuali, ad essere la causa prima del movimento interattivo tra i vari gruppi in cui si suddivide una data formazione sociale in una specifica epoca storica (o nelle varie fasi d’essa). Va anzi subito chiarito che la suddivisione in questione è frutto della politica stessa. Anche in tal caso, l’althusserismo ebbe i suoi bravi meriti perché pose all’inizio la lotta di classe e non le “classi” (i soggetti già formati) in lotta fra loro. Tuttavia, ancora una volta si fece “distrarre” dall’ortodossia perché immaginò che la lotta formasse fondamentalmente due classi in antagonismo, una dominante e l’altra dominata. Non è detto che sia sempre così; anzi lo è solo nei momenti decisivi di un profondo rivolgimento (la rivoluzione), quando si affrontano fondamentalmente – e anche allora in modo tutt’altro che chiaro e netto – due assemblaggi di gruppi (solo “alleati” fra loro); e l’assemblaggio è sempre diretto da alcuni nuclei dotati delle strategie (della politica) più adeguate a riunire le due “alleanze” e a farle scontrare fra loro per la vittoria finale del nucleo dirigente di uno dei gruppi componenti una delle due alleanze.

Salvo che in questi cruciali tornanti della Storia (che diventano poi i paletti segnaletici di nuove epoche della formazione sociale o delle loro varie fasi), lo scontro si svolge tra più gruppi sociali, anzi tra più nuclei direttivi che tentano di prenderne la testa, cercando di convincere i gruppi in oggetto d’essere i loro effettivi rappresentanti. La situazione è ancora più complicata poiché Marx si sbagliò nel ritenere che ormai la storia sarebbe stata caratterizzata dall’estensione globale della formazione sociale capitalistica da lui analizzata nell’esemplificazione inglese (ci si ricordi il de te fabula narratur rivolto agli altri paesi della società mondiale). Egli attribuì nervatura centrale – la base economica – al modo di produzione capitalistico (un modo sociale, non certo tecnico, come poi interpretato in sede sindacale) e dunque pensò certamente a rapporti sociali, non al semplice sviluppo di mere forze produttive; tuttavia, si trattava di rapporti sociali esistenti soprattutto nella sfera economica (produttiva in specie) e quelli decisivi correvano tra i proprietari (controllori) dei mezzi produttivi (la borghesia) e i possessori e venditori di merce forza lavoro (operai, i salariati).

Si credé che tutta la società mondiale si sarebbe infine divisa in queste due classi fondamentali, le altre essendo solo “strati cuscinetto”, mantenuti dal plusvalore (pluslavoro) estratto ai lavoratori produttivi salariati (dove produttivo, per evitare le solite deviazioni di pseudomarxisti sprovveduti e ignoranti, significa soltanto creatore di plusvalore tramite erogazione di lavoro per un tempo superiore a quello necessario a produrre i beni per la sussistenza storico-sociale dei lavoratori stessi). Non a caso si immaginò un inesistente “internazionalismo proletario”, si blaterò intorno agli operai che non hanno patria, ecc. In realtà, la politica (e spero si sia infine capito che cos’è!) non è il semplice conflitto tra due classi (una dominante e l’altra dominata), e nemmeno soltanto quello tra dominanti considerati nella loro posizione di proprietari capitalisti. E’ un fenomeno complesso, che vede in campo più gruppi sociali con alcuni nuclei dirigenti fra loro in lotta, ma anche con la formazione di alleanze promiscue e mutevoli. Il conflitto tra i vari nuclei dirigenti non può essere analizzato con mero riferimento alla collocazione funzionale e di ruolo dei differenti gruppi sociali; è necessario tenere pure conto dell’interrelazione tra diverse formazioni particolari (paesi, ecc.), della maggiore o minore potenza delle stesse, delle loro sfere d’influenza (politiche e culturali oltre che economiche).

 

3. Ulteriori considerazioni a tal proposito saranno semmai sviluppate nel saggio sulle tre tipologie di “guerre” (di conflitti) sociali su cui mi sto arrabattando in altro luogo. Qui adesso debbo tirare alcune conclusioni sulla “crisi”. Non è l’economia la sfera in cui si svolge prevalentemente la lotta politica (le strategie conflittuali), e tanto meno lo è la sottosfera finanziaria; in detta sfera, inoltre, rileviamo l’esistenza di un insieme di strumenti (apparati vari, fra cui decisivi sono quelli denominati imprese) atti a condurre lo scontro secondo le pratiche specifiche in uso in tale “parte” della società; se ne conclude allora che l’analisi della politica deve essere svolta nel complesso intreccio tra le diverse sfere sociali (con i loro apparati politici, ideologici, economici), di cui non si può indicare per principio qual è la più influente nelle diverse fasi storiche e nell’interrelazione tra molte formazioni particolari (pre e subdominanti o addirittura nettamente subordinate). In linea generale, e teoricamente consistente, va soltanto affermato che l’aspetto logicamente prioritario, l’anello della matassa da tirare in ogni e qualsiasi analisi di qualsivoglia fase della società (mondiale, come anche quella di singoli paesi), è la politica.

Quest’ultima non riguarda esclusivamente la sfera sociale così denominata (apparati statali e “pubblici” in genere), bensì anche le altre; le diverse organizzazioni, peculiari di ognuna d’esse, sono gli attori che la svolgono, ma in quanto meri portatori soggettivi di un conflitto permanente che – sia pure con momenti di apparente stasi nelle situazioni di tendenziale monocentrismo – permea permanentemente l’intera società. E la permea poiché la situazione “normale” dei rapporti sociali, malgrado in certi casi sembri il contrario, è quella di squilibrio; ed esso – trasformando la suddivisione della società complessiva in diversi gruppi sociali e in differenti formazioni particolari, e alterando i loro rapporti di forza reciproci una volta che gruppi e formazioni siano venuti ad esistenza – implica necessariamente la lotta per ripristinare o invece mutare i suddetti rapporti implicanti il predominio di alcuni e la subordinazione di altri. Ogni forza, dalla quale soltanto dipende il movimento di tutte le “parti” del mondo, deve ovviamente trovare i suoi soggetti agenti; ma è la forza a crearli, non i soggetti già bell’e costituiti a produrla. E il movimento è appunto squilibrio, quindi gli agenti (i suoi portatori) ne subiscono le conseguenze e operano in base agli effetti, per loro positivi o negativi, dell’impulso squilibrante in questione.

Questo è l’autentico spirito scientifico (“astraente” dalla concretezza delle apparenze reali) che deve guidarci anche nella trattazione di quella che chiamiamo crisi, e che i superficiali considerano sempre come prevalentemente economica, dato che i suoi primi effetti, e per di più sconvolgenti per la vita empirica degli umani nell’ambito dei rapporti sociali di tipo capitalistico, si verificano nella sfera in oggetto. Con precedenza di quella finanziaria, dato che in questa si muovono gli agenti, i portatori soggettivi,  in possesso della “materia” più liquida e mobile che ci sia, la massa monetaria (ed equipollente), che è il “duplicato” della forma generale di merce assunta sia dai prodotti sia dalla stessa forza lavorativa umana, liberata da vincoli servili.

Non è mia intenzione contestare l’attenzione particolare che gli studiosi di scienze sociali – affascinati, come già rilevato, dall’estensione del conflitto alla sfera economica, estensione realizzatasi nel passaggio alla formazione capitalistica – hanno dedicato ai processi caratterizzanti detta sfera, con il loro andamento sinusoidale per quanto riguarda la crescita di tutta una serie di variabili (e “parametri”). Non giudico inutili gli studi compiuti intorno a tale andamento nelle sue varie tappe, di cui una – la brusca interruzione della crescita con inversione di tendenza – è definita crisi, pur essa analizzata e “spezzata” in differenti stadi del suo verificarsi. Se n’è studiata la lunghezza: i cicli brevi (Kitchin), medi (Juglar), lunghi (Kondratiev). Così pure per ciò che concerne le sue varie cause: climatiche (le prime e più rudimentali teorie), monetarie e creditizie, le innovazioni “a grappoli” (concentrate in vari periodi successivi intervallati dalla diffusione di quelle già intervenute e non da ulteriori spinte innovative), la sproporzione dei settori (soprattutto industriali: produzione di beni di produzione e di consumo, ecc.), la caduta tendenziale del saggio di profitto (tipica “ossessione” di ambienti marxistoidi, interessati al capitale come cosa, e quindi al rapporto tra capitale costante, investito in mezzi di produzione, e variabile, investito nel pagamento dei salari), ecc.

Come al solito, l’intuizione più congrua mi appare quella di Lenin che, pur mischiando in verità parecchie causalità (per mantenersi fedele ad una ortodossia marxista più che di Marx, cioè a quell’ortodossia fondata da Kautsky e preceduta da Engels), manifestò una qualche preferenza per la causa rappresentata dall’anarchia mercantile. Perché la ritengo la più utile intuizione in merito alla crisi? Per il semplice motivo che essa può essere abbastanza facilmente spinta a travalicare la gretta analisi economicistica – tipica di tutti gli economisti, e dei sociologi, sia nella formulazione di teorie dominanti e apologetiche sia in quella di teorie critiche del capitalismo – fino ad arrivare all’indagine della reale conflittualità strategica tra gruppi (e formazioni particolari) dominanti per la supremazia (nell’ambito di una società nazionale o in quello mondiale o comunque in un’area geografico-sociale di particolare ampiezza: tipo il “campo capitalistico” nel mondo bipolare del secondo dopoguerra).

Certamente, l’anarchia mercantile resta ancora, “ufficialmente”, sul terreno della sfera economica capitalistica, considerata la principale e decisiva pure dal marxismo. Tuttavia, dopo la “quarta caratteristica dell’imperialismo” – la lotta delle grandi imprese “monopolistiche” per la spartizione del mercato mondiale – Lenin indicò quella in realtà più rilevante, la lotta tra potenze (formazioni particolari assurte al predominio in date sfere d’influenza) per la preminenza su scala mondiale (regolamento dei conti “finale” per re-instaurare una condizione di relativo monocentrismo). Non vi è alcun dubbio, credo, che Lenin, malgrado la sua formale adesione all’ortodossia marxista della prevalenza dell’economia, basò la sua prassi rivoluzionaria sullo scontro politico (cioè conflittuale e strategico) tra gruppi dominanti; e in particolare su quello scontro che, nel momento cruciale del policentrismo più aperto, diventa appunto guerra (continuazione della lotta politica con mezzi più “definitivi”) tra potenze. Non basta però più il riferimento all’anarchia dei mercati, pur essa fenomeno derivato – rilevante (soprattutto empiricamente), non vi è dubbio, ma comunque derivato – e non causa principale.

 

4. Va manifestato il massimo disprezzo per come la crisi iniziata nel 2008 è stata trattata da sedicenti “esperti”, che hanno solo enfatizzato le crisi di Borsa, l’abominevole tema dello spread, al massimo criticando i “cattivi finanzieri”, magari per carenza di etica, ecc. Alcuni studiosi di economia più seri hanno affrontato il problema con altri strumenti e con una migliore conoscenza delle varie teorie sulla crisi formulate da autori ormai divenuti dei “classici”. Non ritengo inutile il lavoro di questi studiosi odierni, ma qui mi interessa, come ormai sottolineato più volte, la motivazione “profonda” e cogente delle crisi (di tipologia variabile), quella motivazione che non attiene alla pura economia, bensì alla politica nel suo significato già chiarito.

Da tale punto di vista, la recente crisi – e fin da subito, i lettori lo ricorderanno, la assimilai a quella di fine ‘800 – va considerata il segnale d’apertura di una nuova epoca di accentuato scontro multipolare, che comporta lo scoordinamento delle complessive relazioni tra le numerose formazioni particolari e dunque pure del cosiddetto mercato globale. Non si tratta in realtà affatto del semplice mercato, bensì di un riposizionamento delle formazioni in questione nei loro rapporti di forza in merito al controllo di determinate sfere d’influenza. Lo squilibrio – manifestatosi nel passaggio dal tendenziale monocentrismo Usa (1991-2001) al nuovo e più instabile (dis)ordine mondiale, ponendo in crescita di potenza nuovi agenti – potrebbe anche riportare infine nella posizione di supremazia gli Stati Uniti, nel qual caso assisteremmo al ritorno verso una configurazione di nuova centralità coordinatrice del paese ancor oggi più forte.

Tuttavia, propendo per la prosecuzione, sia pure non lineare bensì con andamenti a sbalzi, del suddetto multipolarismo (attualmente ancora molto imperfetto) in direzione dell’usuale policentrismo che annuncerà un periodo di acutizzazione del conflitto per il predominio mondiale; e non certo di tipo prevalentemente economico, bensì soprattutto politico e bellico. Ed è al servizio di quest’ultimo che funzionerà, in definitiva, l’economia di vari paesi in fase di trasformazione decisamente innovativa. Si verificheranno pure, soprattutto nei paesi in questione, modificazioni non indifferenti delle “strutture” sociali (delle forme dei rapporti tra gruppi sociali). La crisi, nel suo aspetto più “superficiale”, quello economico appunto, sarà lunga e tormentosa, strisciante e priva di impennate verso alti ritmi di crescita; nel contempo, non dovrebbe nemmeno condurre a catastrofici sprofondamenti. E’ probabile qualche crac finanziario, più difficilmente bruschi e autentici crolli nei settori della produzione; almeno per alcuni anni a venire. La sfera economica sarà però investita da mutamenti intersettoriali, da avanzamento di date branche (alcune anche nuove) con arretramento di altre.

Anche se, com’è stato sostenuto, è lo squilibrio, grazie al movimento incessante da esso indotto, a creare i suoi portatori soggettivi (gli “attori” in lotta), questi ultimi non sono tuttavia strettamente determinati, non sono privi di una qualche libertà di scelta. Vi è pur sempre un ventaglio, non ovviamente aperto a 360° (e nemmeno a 180°), di possibilità d’azione da parte dei “soggetti”. Inoltre, quando si fa riferimento al mono o policentrismo, al multipolarismo, ecc. balzano in evidenza, quali agenti (creati dal movimento squilibrante), le formazioni particolari: predominanti (le potenze), subdominanti o più nettamente subordinate. Tuttavia, in queste formazioni (paesi, nazioni, ecc.) sono presenti diversi raggruppamenti e gruppi sociali; e anche questi sono “creati” – con i vari nuclei dirigenti che di fatto li orientano, tali nuclei essendo dunque i più autentici agenti – dal flusso di conflitti generatosi nell’oscillazione vibratoria.

Ecco allora che il discorso sulla crisi apre in realtà la porta ad una ben più rilevante, e complicata, discussione sui vari tipi di conflitto (di “guerra” in senso lato) che si scatenano ai diversi livelli della formazione sociale nel suo aspetto generale (globale): scontro tra le sue partizioni di tipo geografico-sociale – le varie formazioni particolari (paesi, nazioni, ecc.) – per il predominio mondiale o quella che fu indicata a lungo come “lotta di classe”, cioè urti e frizioni tra gruppi sociali all’interno delle formazioni in questione. Non sono però tanto questi gruppi (le “masse in movimento”) a definire la prevalenza di uno o più d’essi (o le alleanze fra certi gruppi, talvolta definibili quali blocchi sociali) in ogni data formazione. Più decisiva è la discesa in campo di nuclei dirigenti in competizione più o meno acuta e più o meno capaci di conquistare il controllo della formazione (paese). I nuclei in questione – e non le sole “masse in movimento” (cioè i gruppi sociali) – sono gli autentici portatori soggettivi ultimi del movimento squilibrante e del conflitto da esso indotto; e il prevalere di questo o di quello di detti nuclei definisce la differente tipologia cui appartiene un determinato paese (pre o sub dominante, ecc.).

Lasciamo pure gli studiosi (quelli seri però, non quelli della crisi di Borsa, dello spread e di altri inganni “pagati” da gruppi subdominanti, i “cotonieri”) discorrere sulle varie cause economiche delle crisi, sulla loro periodicità e lunghezza, sui mezzi per contrastarle, quasi sempre con la convinzione che lo si possa fare e che solo manchi la “buona volontà” o si commettano errori “evitabili”, ecc.  Stiamo in realtà cercando un differente percorso (teorico) utile alla comprensione di ciò che è il “più generale” e cogente (la cosiddetta “legge”); del tipo dell’esempio fatto più volte, il “moto rettilineo uniforme”, che non credo esista mai nella realtà empirica, e tuttavia è servito da base per lo studio del movimento dei corpi. Non controllo la scienza fisica: credo comunque che anche il mutamento intervenuto con la relatività – mutamento da non assimilare certo a quello escogitato dal Nobel dell’Economia Simon, quando “scoprì” che la “razionalità” (dell’homo oeconomicus) è sempre limitata, a differenza di quanto supposto dalla scuola neoclassica tradizionale; “scoperta” che è per me sintomo di decadenza teorica e non di avanzamento nella conoscenza – non abbia introdotto alcun discorso intorno all’esistenza di attriti. Se non erro, la teoria einsteiniana ha invece spostato effettivamente il punto di vista quando ha indicato che il percorso non rettilineo di un mobile non dipende dalla gravità, intesa come forza attrattiva promanante dalla massa dei corpi, bensì dalla curvatura dello spazio/tempo, legata a massa ed energia. Da questo mutamento dipende l’uso delle geometrie non euclidee, di cui quella euclidea diventa un caso particolare, ecc. ecc.

In ogni caso, nelle ipotesi relative alla crisi, io parto dal principio che lo squilibrio genera il movimento; e quest’ultimo ha come effetto il conflitto e la formazione di “punti di condensazione” rappresentati dai portatori soggettivi, dagli “attori” che fra loro appaiono in lotta nella realtà più “visibile” (più “superficiale”, “di palcoscenico”, ecc.). Essendo quelli più visibili, li si osserva muovere, attribuendo loro e al loro modo d’agire la causa dello scontro e dei suoi effetti. Si sostiene allora la possibilità di invertire il loro comportamento, di realizzare accordi, sol che lo si voglia realmente, smorzando così il conflitto, forse giungendo un giorno alla piena cooperazione, creando infine un mondo senza più crisi di alcun genere: niente crac finanziari (con “bravi e virtuosi” finanzieri), niente scoordinamenti né la cosiddetta anarchia dei mercati o la sproporzione dei settori, ecc., e addirittura niente più guerre, e via dicendo. Resta, allora, soltanto la “saggezza religiosa” a ricordarci l’ineliminabilità della lotta tra bene e male; e almeno per questa via ci salva dalle peggiori sciocchezze del “buonismo” dei dominanti che devono far credere ai sottoposti molte fanfaluche nel tentativo di perpetrare il loro dominio.

 

5. Sul palcoscenico, una data opera va rappresentata seguendo il testo dell’autore; certamente, però, la regia introduce curvature particolari e gli attori, se capaci, mettono in piena luce determinati significati, che devono comunque essere quelli presenti nel testo in questione, altrimenti abbiamo a che fare con tutt’altra opera. Il “testo scritto” dal movimento squilibrante, generatore di conflitti, è quello che è; tuttavia, non si è passivi nella lotta e ci si deve impegnare nella “migliore rappresentazione” possibile. Nessuno sostiene che gli “attori” non possano apportare a quest’ultima variazioni anche significative. I portatori soggettivi non sono determinati nel loro agire fin nelle minime minuzie, essendo invece in possesso di qualche “grado di libertà”. L’importante è smetterla di credere che essi siano capaci di ottenere risultati contrari, opposti, a quelli indicati nel “testo”: già scritto da tempo immemorabile, dall’intera storia dell’umanità, delle varie formazioni sociali succedutesi. Sì, lo so, ci si rifiuta a questa “condanna”, si è spesso convinti che alla fine potrà trionfare la bontà, l’accordo, la pace.

Rifarò ancora in seguito, per l’ennesima volta, la storia del significato dell’opera di Marx relativamente al comunismo, interpretato “fantasiosamente” dai suoi seguaci. Marx aveva un’opinione assai amara degli individui umani, e Lenin ne aveva una anche peggiore. Il loro comunismo non aveva nulla di utopico come interpretato da alcuni, soprattutto filosofi, che dei due pensatori rivoluzionari hanno capito assai poco (direi nulla). Quel comunismo era invece basato sulla previsione di un movimento (tendenziale) del modo di produzione capitalistico (non del generico capitalismo), che si supponeva semplificasse la divisione in raggruppamenti (classi) sociali e conducesse verso la cooperazione tra produttori associati; non però tra uomini con le loro concrete individualità, non considerati dai due autori sopra citati come particolarmente buoni e disinteressati, non invidiosi, non ambiziosi, non animati da propositi di affermazione con vari metodi tutt’altro che commendevoli, ecc. In ogni caso, come ho mostrato “mille e una” volte ormai, le previsioni relative alla dinamica di quel sistema di rapporti si sono rivelate inesatte, ma non peccavano di mancanza di realismo, non erano fantasie di utopisti. Ci torneremo comunque.

La crisi iniziata da quattro anni ci accompagnerà a lungo. E’ una tipica crisi di scoordinamento legata all’incipiente multipolarismo. La vera differenza rispetto a quella, più volte ricordata, di fine secolo XIX è la deflazione dei prezzi verificatasi allora. Tuttavia, siamo appena all’inizio di una simile crisi e avremo probabilmente modo di assistere anche a quel fenomeno. Tuttavia, se abbandoniamo i paragoni effettuati soltanto in sede di andamento dei processi economici, riusciremo negli anni a venire ad afferrare meglio una serie di mutamenti maggiori che si realizzano in periodi storici simili a quello che prese avvio con la lunga crisi di depressione ottocentesca e che fu caratterizzato dal declino inglese. Non facciamoci però trarre in inganno ancora una volta: non fu quel declino il fenomeno più rilevante dell’epoca (detta imperialistica). Esso, fra l’altro, non era ineluttabile se non con il solito “senno di poi”. Si verificò allora soprattutto la fine del capitalismo quale si era formato in Inghilterra, e poi in Europa (e, inizialmente, pure negli Stati Uniti), il capitalismo borghese, che servì da modello per l’analisi marxiana e il cui tramonto fu pensato come inizio della rivoluzione proletaria mondiale, che avrebbe seppellito il capitalismo tout court.

La depressione di fine ‘800, durata circa un quarto di secolo, aprì la via alle vere grandi crisi, soprattutto belliche – con ulteriori riflessi economici critici in date contingenze, tipo quelli del 1907, “trascinatisi” di fatto fino alla prima guerra mondiale, e del 1929, anch’essi superati solo con la seconda – che hanno prodotto la radicale mutazione storico-sociale cui hanno assistito le generazioni del secondo dopoguerra. L’attuale crisi di relativa stagnazione verrà infine considerata fra un bel po’ di tempo (diciamo mezzo secolo?) come l’apertura di una nuova “grande trasformazione”. La “grande illusione” della lotta tra capitalismo e “socialismo”, tipica dell’epoca del mondo bipolare, ha completamente sviato l’attenzione degli studiosi, con l’incomprensione totale dell’avvenuto passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale (definizione da me escogitata provvisoriamente e che sono il primo a considerare non del tutto soddisfacente). Adesso siamo entrati in una nuova epoca di netti, probabilmente violenti, sconvolgimenti con ulteriori modificazioni della formazione sociale, che continuiamo a definire genericamente capitalistica in base all’esistenza degli apparati tipici della sfera economica: il mercato e le imprese, ecc. Stiamo accumulando ritardi su ritardi e ci impantaniamo nel chiacchiericcio inconcludente più che in autentiche analisi teoriche.

Ci dimostriamo anzi in possesso di scarse capacità d’indagine, tutti dediti al “momento presente”. La memoria del passato è continuamente ignorata; e, quando non lo è, ci si dedica “gioiosamente” al suo completo travisamento, a raccontarci una storia totalmente svisata e dunque incompresa. Il futuro è oggetto di stupide discussioni sull’ottimismo o invece il pessimismo, di fatue promesse tipiche di una “democrazia elettoralistica”, che ha creato “scimmioni” incapaci di pensare e problematizzare il proprio vivere per un periodo di tempo che superi qualche mese. L’abissale “idiozia dei tecnici”, degli “specialisti”, è l’autentica cifra della nostra fase storica, specialmente in questo “occidente” ormai “stramaturo”, marcio e sfatto.

Ritengo utile prendere intanto atto di una realtà che credo ci apparirà evidente entro qualche anno: la crisi attuale non è prevalentemente economica e difficilmente riaprirà la porta a prossimi nuovi boom. Essa ci farà galleggiare in una situazione depressiva (in molti sensi, probabilmente pure individuali) e andrà mutando in direzione di più netti sconvolgimenti di varia forma, ancora per larghi versi imprevedibili. Tuttavia, come già detto, gli agenti (i portatori soggettivi) dell’“oggettivo” movimento squilibrante, e generatore di conflitti, non sono del tutto passivi né tanto meno inerte preda di un improvvido Destino, poiché esistono invece per essi certi “gradi di libertà”. Sarà dunque utile cercare di afferrare le determinanti e le caratteristiche di massima dei prossimi conflitti. Un lavoro irto di difficoltà e complesso, che sconterà la lunga parentesi di paralisi della nostra ricerca.

Lasciando perdere gli inutili cantori della “libera individualità” nella sua interazione soprattutto mercantile – una concezione di una vecchiezza insopportabile e ormai ridotta a puro vaneggiamento – dobbiamo superare anche le stantie concezioni della “divisione in classi”. Tuttavia, è indubbio che funzionano ancora gruppi sociali (non ben conosciuti e soprattutto affastellati confusamente nella dizione di “ceti medi”) e si formano – spesso disfacendosi e riformandosi in periodi ravvicinati data la loro labilità e il loro pressapochismo – nuclei direttivi dotati di strategie raramente ben fissate e con obiettivi spesso labili e cangianti. In ogni modo, è in questa direzione che dobbiamo iniziare la nostra strada di analisi, perché qui incontriamo appunto gli “attori” che recitano la politica e i “registi” che mettono in scena il conflitto. Mi sembrano al presente molto scadenti e gli uni e gli altri; ma così sono e al loro comportamento ci si deve attenere. Sapendo però distinguere tra portatori soggettivi (sia pure dotati di una qualche libertà di scelta) e movimento squilibrante che rappresenta il vero regista d’ultima istanza del conflitto in via di acutizzazione.

Qui siamo e qui dobbiamo muoverci teoricamente.