SPUNTI PER UNA NUOVA POLITICA CON UNA DIVERSA TEORIA di G. La Grassa

Viviamo una delle epoche più squallide della storia, e in uno dei paesi più meschini di quest’epoca. Ci aggiriamo ancora tra correnti politiche, e capetti delle stesse, che vivono del rinnegamento, ogni secondo giorno, del loro ormai sbiadito passato piciista o missino. Antifascismo e fascismo sono correnti che suscitano a questo punto soprattutto disgusto per la malafede – o forse la “demenza senile” – che contraddistingue i due campi; sono in genere abituato a pensare male e credo più alla sussistenza di schiere di imbroglioni e opportunisti che a errori. Del resto, fastidio e disprezzo provoca anche la commedia della “destra” e della “sinistra”, cui talvolta debbo adattarmi anch’io, per il fatto che gli zombi sono in effetti morti, eppur “viventi”.

Ho voluto fare una prova. Poiché ci sono dei fintoni che dicono di prendere in considerazione una parte di quanto vado sostenendo da tempo, ma di avere il cuore esulcerato quando vedono certe mie frasi riportate da siti di scriteriati fascisti sopravvissuti, ho affermato senza mezzi termini certe mie convinzioni – che non manifesto così per sport – nel mio pezzo intitolato “doppiopesismo ipocrita”. Nessuno di questi "addolorati" ha battuto un colpo, nemmeno dei mascalzoni (e una mascalzona) che mi hanno insultato nel mio sito personale, dandomi del “rappresentante e portavoce di Forza Nuova”. Mi basta aver appurato che si tratta di semplici provocatori, senza idee né onore (tanto meno un cervello per ragionare), e quindi passo oltre.

 

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Gli economisti, nella loro maggioranza, hanno un “bel modo” di procedere: estrapolano le tendenze degli ultimi anni (talvolta pochissimi, talvolta qualcuno in più) e le proiettano nel più lontano futuro; anzi per sempre. Quando scoppiò la crisi del ’29, questa durò ufficialmente fino al ’33, ma in realtà si protrasse con crescita stentata, saltellante e incerta fino alla seconda guerra mondiale; e oltre, tenuto conto delle immani distruzioni da quest’ultima provocate in tutti i paesi avanzati, ad eccezione degli Usa. Alcuni economisti di tendenza keynesiana (per tutti cito Alvin Hansen, ma ve ne furono tanti altri) estesero le concezioni del Maestro al lungo periodo e parlarono di tendenza ormai di fatto permanente del capitalismo alla stagnazione. Perfino Schumpeter, che fu un chiaro antikeynesiano, formulò le stesse previsioni per altra via: burocratizzazione della grande impresa con spegnimento di ogni carica innovativa, cui egli più di vent’anni prima, ne La teoria dello sviluppo economico, aveva affidato le “magnifiche sorti e progressive” della società del capitale.

Tutto sbagliato. Il dopoguerra vide uno sviluppo del capitalismo “occidentale” – dei funzionari del capitale, sotto la guida e impulso dei predominanti statunitensi – fra i più alti di tutta la sua storia. Fu inoltre spazzato via, nel giro di nemmeno mezzo secolo, il suo antagonista; anche se si è trattato in realtà di una semplice “illusione ottica” (ideologica), poiché non era per nulla in atto in certi paesi la “costruzione del socialismo”, bensì una transizione a nuove forme capitalistiche; e, in tal senso, il processo è alla fine riuscito, come si può constatare ai giorni nostri. Da oltre un anno è in corso una nuova crisi, dai contorni tutt’altro che precisi e dagli sbocchi ancora incerti per quanto concerne la sua gravità e gli sconquassi che potrà provocare. Perfino alcuni economisti dell’establishment affermano che sarà comunque la più pesante del dopoguerra, pur se mi permetto di dubitare che superi in gravità quella del ’29; e ho esplicitato più volte i motivi di tale dubbio, che discende dal mio netto antieconomicismo, per cui credo che a determinare la forza dei “terremoti di superficie” concorrano, in modo determinante, gli “scontri profondi tra falde tettoniche”, cioè i conflitti intercapitalistici tipici di un’epoca pienamente policentrica, che non si è ancora affermata pur se continuo a scommettere sul suo avvento entro pochi decenni.

Al di là però delle previsioni circa la portata effettiva della crisi, sta la mia netta contrarietà a pensare al crollo del capitalismo per crisi economica (finanziaria e reale). Ci sono i soliti credenti – incapaci di mettersi nell’ottica della vera rifondazione di una diversa politica anticapitalistica, poiché è più facile, soprattutto per gli intellettuali ben sistemati nelle Università del capitale, affidarsi all’“oggettività” delle loro demenziali formulette e tabelline “crolliste”; quanta fatica risparmiata! – che affermano: chi può escludere che questa crisi, pur se decine d’altre sono servite solo ad irrobustire il capitalismo, potrebbe essere quella “buona”? Un modo di pensare la cui illogicità fa perfino tenerezza. Perché la risposta è immediata: chi può escludere che tutto finirà come le altre volte, con tante sofferenze e impoverimenti di strati di popolazione, ma poi con una ripresa robusta e nuove forme del conflitto tra capitalisti? Hume diceva che non vi è alcuna prova sicura e definitiva che anche domattina sorgerà il Sole, ma noi continuiamo, se siamo sensati, a darlo per scontato preparandoci alla nuova giornata.

Certo, per quelli che si aspettano il buco nero dagli esperimenti a Ginevra, o che attendono entro pochi decenni lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento dei mari e la sommersione delle terre, l’inquinamento mortifero dell’atmosfera, ecc., è sollazzevole affidarsi all’idea dell’ultima crisi, finalmente quella del crollo del capitalismo. Mi è concesso di sospettare che il loro cervello si sia un po’ “ingrippato”? Discutere della fine o della prosecuzione (con trasformazione) del capitalismo è tutto sommato come discutere dell’esistenza o inesistenza di Dio. Non sono domande a cui si possa dare una risposta sicura e definitiva, non ci sono prove vere né in un senso né nell’altro. Limitiamoci quindi a discutere i problemi su cui è possibile raccogliere almeno un certo numero di indizi; alcuni privilegeranno quelli che indirizzano verso una soluzione, altri quelli che fanno pensare a soluzioni del tutto diverse. In genere, il tempo storico – non però i secoli e millenni futuri, per carità – segnalerà infine una tendenza prevalente.

E’ troppo chiedere di essere sensati? Vogliamo accettare l’idea che “domani sorgerà ancora il Sole” e azzardare qualche previsione – pur a grandi linee, all’ingrosso – su quel che potrebbe accadere? Magari formulandone di diverse, tutte possibili e realistiche, per prepararci a più alternative? Tanto, alla fine, saremo sempre sorpresi e dovremo riadattare velocemente i nostri comportamenti; intanto però, se almeno prendiamo atto che ci risveglieremo anche domani con il Sole che s’alza, curveremo la schiena, strizzeremo i nostri cervelli, adattandoci all’idea di un altro giorno di fatica, di qualche godimento e di tante “grane” da sopportare. In realtà, la stragrande maggioranza degli intellettuali, falliti “ultrarivoluzionari” sessantottini e settantasettini (con i loro ancor più intronati giovani seguaci) preferisce i finanziamenti – e gli onori dei media, ecc. – forniti dai subdominanti, quelli parassiti e subordinati allo straniero (cioè i peggiori e più reazionari), che si giovano del catastrofismo “a due lire al kilo”, utile a mascherare i loro sporchi giochi da “servitori” di altri predominanti. Non posso non provare disprezzo per questi intellettuali, fra i quali si trovano i “maggiori” maîtres à penser del Nulla; quelli eletti tali dagli organi di (in)formazione dei suddetti subdominanti.

Non è tuttavia del tutto negativo che questi ultimi così agiscano; perché in fondo non fanno altro che creare un humus melmoso e putrido, in cui loro stessi affondano sempre più. Se fossero autentici dominanti, saprebbero che è necessario creare, tramite egemonia, effettivi blocchi sociali in grado di sorreggere un reale sforzo di avanzamento e progresso; quando ci si dedica solo a spargere pessimismo e a istupidire i dominati per meglio renderli succubi, si crea nello stesso tempo un ambiente che, alla lunga, taglia l’erba sotto i piedi di chi non ha più progetti di ampio respiro, ma solo mezzucci per sopravvivere un altro po’ (ricordiamoci le acute osservazioni rivolte dal “Gattopardo” a Padre Pirrone in merito ai tentativi della nobiltà borbonica, ormai storicamente “morta”, di ritardare la sua completa decadenza e sparizione di un altro mezzo secolo, che per lei equivaleva all’“eternità”). E’ in fondo questo l’atteggiamento dei subdominanti italiani (quelli che denomino GFeID), oggi non a caso abbastanza scombiccherati e sempre più meschini e mediocri; pur se, appunto come gli zombi, morderanno ancora per qualche tempo (speriamo non per mezzo secolo! Francamente non credo ad un periodo così lungo; ma questi miserabili si accontenterebbero anche di 10-20 anni).

 

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Con pazienza infinita – senza alcuna previsione di crolli capitalistici, ma con la consapevolezza che un’epoca è finita storicamente, anche se i suoi effetti non spariranno di colpo; anzi! – perseveriamo nelle nostre critiche; non con la presuntuosa certezza di definire le questioni una volta per tutte, ma semplicemente tentando di dire qualcosa di più sensato, meno ipocrita e ideologico, di quanto affermato dai vari maîtres à penser, venditori di fumo presi per oracoli! Veri imbonitori invece, pagati profumatamente per mentire e pervertire la coscienza dei vari strati della popolazione, ivi compresi quelli ultraminoritari che sono assimilabili al lumpenproletariat disprezzato da Marx e trattato “ancor meglio” dopo il 1917 in Russia.

E’ un lavoro lungo, e anche ripetitivo. Qui mi limito intanto a qualche osservazione semplice semplice. Tutti quelli che si credono grandi economisti ed esperti tecnici – da destra e da sinistra (anche quella “estrema”, che ancora si fregia di “marxismo” e “comunismo”) – continuano a dare della crisi in atto, e in generale di ogni difficoltà via via incontrata dai paesi capitalistici, una interpretazione legata alla carenza di domanda. Per alcuni, e sono proprio i “più a sinistra”, si tratta di carenza di consumo a causa dei bassi salari e della redistribuzione (reale senz’altro) dal salario al profitto. Altri, almeno più correttamente, includono nella domanda complessiva anche quella di mezzi (o beni) di produzione, cioè gli investimenti. Sulla base di queste premesse, le forze politiche, economiche e sociali si dividono sui metodi per ovviare a tali carenze di domanda. C’è chi vuol l’aumento salariale e chi la diminuzione dell’imposizione fiscale (quasi che l’aumento di profitti si traducesse ipso facto in investimento). C’è chi punta a sollecitare gli animal spirits “privati” e chi crede nello Stato “taumaturgo” con la sua salvifica spesa; chi si accontenta che questa sia quasi totalmente di tipo “corrente” per pagare gli stipendi e chi propugna l’incremento degli investimenti “pubblici”, magari in infrastrutture. Qui sta in fondo ancora tutto il gioco tra “destra” e “sinistra”, qui esse sopravvivono a se stesse, alla loro ormai conclamata morte “storica”.

Diciamo intanto che sono particolarmente dannosi i “rappresentanti dei lavoratori” (sottinteso quelli dipendenti, quasi fossero gli unici a lavorare!), quelli che continuano a rimanere legati al vetusto e ormai ridicolo “conflitto capitale/lavoro”. In Italia soprattutto, ma certamente anche in tutti gli altri paesi capitalistici avanzati, è vasto il settore del lavoro detto “autonomo” (che non lo è per nulla), spesso identificato o quasi con il “ceto medio” (questo concetto-ripostiglio usato in tutte le salse); a questo aggiungasi la miriade di piccole e piccolo-medie imprese, ecc. Una quota notevolissima di tale settore sociale – soprattutto nell’attuale fase di crescenti difficoltà economiche (e non solo) – sta appena un po’ meglio del lavoro dipendente, e sta un po’ meglio solo perché riesce a evadere almeno in parte il fisco (altrimenti, non so se starebbe proprio meglio o invece peggio). Si tenga poi conto che è stupido considerare puro paravento ideologico il fatto che tale tipo di lavoro è esposto al “rischio” dell’intrapresa privata, non ha molte garanzie e, quando fallisce, va veramente in malora senza alcuna rete di protezione (gli “ammortizzatori sociali”). Se si vuole favorire il divide et impera, ben utilizzato dai nostri subdominanti, si continui a considerare nemici questi “evasori fiscali”, questi “padroncini”, e a inneggiare solo ai salariati, magari del settore pubblico, dove è stolto non valutare certe garanzie e certi ritmi “blandi” di lavoro che, malgrado la “faccia feroce” dell’attuale Governo, continueranno a vigere anche in futuro, approfondendo il solco tra i subordinati.

Se i “rappresentanti dei lavoratori” si comportano in modo così stolto è perché essi rappresentano soprattutto se stessi, in quanto apparati sindacali riconosciuti dallo Stato, cui sono assegnati molti privilegi e i cui funzionari sono tipici burocrati senza impegno né ingegno, vere mignatte che vivono alla giornata. Queste sono le organizzazioni che dovrebbero essere effettivamente “rifondate”, previa demolizione integrale di quelle esistenti, azzeramento istantaneo di ogni loro potere “contrattuale”. Ovviamente, compito impossibile perché non è nell’interesse di chi vuol tenere divisi i lavoratori (tutti quelli che lavorano realmente) e sollecitare i loro reciproci risentimenti e idiosincrasie. In ogni caso, non potrà essere superata questa astorica e reazionaria distinzione tra destra e sinistra, non sarà possibile tentare di costruire un blocco sociale di opposizione e trasformazione – che esige una nuova direzione, ma deve pure trovare elementi coagulanti alla base – se non viene sbaraccato questo insieme di antidiluviani apparati e non si arriva ad una sintesi, rispettosa certo delle innumerevoli differenziazioni, tra i settori medio-bassi del lavoro salariato e di quello “autonomo”.

In altra epoca, e in altre condizioni – di aperto scontro policentrico, ma anche di forte miseria di massa e di scollamento degli apparati di potere dei dominanti – fu possibile ai bolscevichi, ai leninisti, realizzare la sintesi tra una nettamente minoritaria “classe operaia” (detto meglio: tra i pochi lavoratori salariati dell’industria) e una gran massa di contadini “poveri e medi”. Il cosiddetto “ceto medio” è precisamente l’indice dell’innalzamento notevole del tenore di vita, che nei paesi capitalistici avanzati ha interessato anche le masse lavoratrici, determinando nel medesimo tempo il diffondersi di quella che Lenin indicò come mentalità tradunionistica degli operai; cioè, detto oggi con più precisione, la loro accettazione dei meccanismi di riproduzione e sviluppo (pur interrotto da crisi) del capitalismo. Quest’ultimo non va affatto incontro ad alcun “limite o barriera”, previsti dai marxisti e comunisti da centocinquant’anni a questa parte (non è un tempo sufficiente per buttare a mare certe previsioni, sciocchi catastrofisti ancora in servizio permanente?).    

E’ tuttavia impossibile arrivare, sia pure progressivamente e in un periodo di tempo non breve, alla formazione di un nuovo blocco sociale senza la presenza di una nuova forza di sintesi, che deve riflettere e analizzare in modo radicalmente diverso e innovatore la storia più lontana e più recente del nostro paese e dell’area capitalistica di cui fa parte; e ovviamente anche del “resto del mondo”. Non si compiono però nuove analisi (né s’interpreta diversamente una storia “costruita” puramente dai “vincitori”) se non si mutano le categorie teoriche in quanto strumenti con cui effettuarle. Non credo alle vetuste teorie dei dominanti né a quelle di coloro che vi si sono opposti per oltre un secolo, prima con successo e soprattutto con grande spinta ideale, in seguito per pura sclerosi e attaccamento fideistici o per subordinarsi, ben remunerati, ai dominanti al fine di meglio ingannare i dominati, celandosi ipocritamente dietro falsi e roboanti “radicalismi”.

Occorre una robusta rielaborazione teorica (e scientifica) che fuoriesca dal marxismo. Cosa significa questa affermazione? Che la nuova teoria, appunto, da lì deve uscire, non dal suo semplice rinnegamento e nemmeno dal suo completo travisamento, cui si dedicarono – voglio immaginare in perfetta buona fede, salvo pochi – i pensatori (creduti “marxisti”) di quella celata, ma oggi evidente, ripresa di temi sostanziali delle concezioni di Eugen Dühring e di Lassalle, contro cui si scatenarono sia Marx che Engels ben consci del pericolo da esse rappresentato per il nascente movimento operaio; concezioni che hanno provocato i loro guasti più nefasti nel corso del novecento, in particolare dagli anni ’60 in poi. E’ oggi necessario ripartire da Marx, ma non tanto dal concetto di modo di produzione, quanto da quello di formazione sociale globale formata dall’interrelazione di tante formazioni particolari in sviluppo ineguale e in conflitto permanente (per la supremazia), che tuttavia passa attraverso fasi storiche di mono e policentrismo. Tutti temi che sto sottoponendo a riflessione da tempo e nelle sedi più opportune (libri e sito).

 

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Alla tematica del conflitto capitale/lavoro, alle ricette per risolvere le “crisi” mediante incremento della domanda – ricette diverse a seconda che siano proposte dalla “destra” o dalla “sinistra”, tutte però formulate in termini puramente economicistici, nascondendo la centralità del politico – è dunque necessario contrapporre una tesi del tutto diversa, che prenda atto della necessità di un temporaneo (ma non breve) détour in merito alla contrapposizione tra dominati e dominanti; al fine di sfruttare la grande intuizione leniniana, secondo cui non si può tentare un’autentica trasformazione dei rapporti sociali se non nell’ambito del crollo politico-istituzionale (non meramente economico!) degli apparati del predominio di certi gruppi sociali in reciproca lotta; e non semplicemente all’interno di ogni singola formazione particolare, bensì nel loro scontro acuto per affermare la preminenza di date formazioni (paesi capitalistici) su altre in ambito mondiale.

Sarebbe vano e illusorio contrapporre alla presunta centralità della domanda quella della semplice produzione, affidandosi alla “virtuosa” concorrenza fondata sull’efficienza economica, sulla “competitività” in base a produttività e costi. Palliativi proposti da chi ha concezioni errate o consapevolmente vuol celare il nocciolo del problema. Bisogna svolgere una politica che sia innanzitutto basata sulla più decisa spinta al multipolarismo, cioè a una competizione sempre più netta tra diverse formazioni particolari; tenendo conto che in una data area mondiale del capitalismo – quella costituita da Usa, Europa e Giappone – si sono instaurati da molto tempo rapporti tra formazioni particolari che hanno al loro vertice gruppi di agenti (strategici) predominanti (negli Usa) e subdominanti (negli altri paesi dell’area in questione). In Italia – che è forse il paese dove i gruppi di subdominanti sono meno autonomi rispetto ai predominanti – una nuova forza, oltre alla prevalente politica tesa al multipolarismo, e come supporto alla stessa, dovrebbe svolgere, nella sfera più propriamente economica, una decisa azione sia di soggiogamento della finanza ai fini della (sotto)sfera produttiva sia di appoggio ai settori detti di punta, con concomitante “implementazione” della ricerca scientifico-tecnica più avanzata. Andrebbero combattuti senza pietà i ripiegamenti verso il passato, la semplice riedizione – perché di questo si tratta, “poche balle”! – del medievale “l’uomo non deve volare, infrange un limite naturale”.

I limiti sono fatti per essere infranti. E la politica di una nuova forza, nel suo necessario détour di cui detto sopra, deve fornire impulso al progresso e “tagliare” ogni testa rivolta all’indietro. Naturalmente, ben consci che, finché durerà questo tipo di società – e si cessi di predicarne la fine, che avverrà quando …… avverrà, senza metterci sull’avviso e senza, probabilmente, che noi nemmeno ce ne accorgiamo se non a trasformazione già avvenuta da un pezzo – ci saranno congiunture di pieno sviluppo e altre di crisi, più o meno durevole e pesante. In ogni congiuntura, però, nell’attuale situazione di détour, va perseguito sia l’appoggio al multipolarismo – sfruttando pure ogni ideologia che a questo miri, che lo renda ben accetto alle più larghe “masse” – sia l’impulso al progresso e alla ripresa dello sviluppo in un conflitto tra più formazioni particolari.

Basta con la menzogna che il marxismo critico degli anni ’60-70 era contro la teoria dello sviluppo. Anche su questo ho scritto un pezzo chiarissimo nel sito. Si criticava allora la tesi secondo cui lo sviluppo delle forze produttive conduceva – per via gradualistica e riformistica – alla trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici e alla transizione verso il socialismo. Si criticava cioè la tesi, dimostratasi infondata e ormai infantile dopo centocinquant’anni, per la quale i rapporti capitalistici sarebbero una sorta di involucro incapace di contenere le forze produttive oltre un certo livello di sviluppo delle stesse. Questa era la concezione contestata, e tale resta anche oggi per tutte le persone dotate di cervello. Non veniva, e non viene, messo in discussione lo sviluppo in sé, ma solo il suo essere portatore del superamento del capitalismo! Non lo è per nulla, è stato l’esatto contrario. Quindi, solo una nuova riflessione teorica, posta alla guida di una politica diversa da quella dei rimasugli della lotta passata, può reindirizzarci lungo una diversa via.

Dobbiamo tenere conto che l’Italia non è un “anello debole” con una classe dominante semifeudale, pochi operai ed una massa sterminata di contadini medio-poveri. Semmai è un po’ più simile all’Inghilterra di cent’anni fa, alla cui struttura sociale Lenin attribuì il tradunionismo degli operai. Non è però nemmeno il caso di ripetere quella teoria. Dobbiamo tutto ripensare, fuoriuscendo da Marx nel senso sopra indicato, allo scopo di elaborare una teoria in grado di capire l’articolazione della formazione capitalistica mondiale o globale con le sue partizioni in reciproco conflitto (con alterne fasi storiche di accentuazione policentrica e di preminenza monocentrica); ed è necessario capire che non si deve imboccare la via diretta del conflitto capitale/lavoro, come se esistesse realmente la mera lotta di classe contro classe (borghesia contro operai). Dobbiamo, piaccia o non piaccia, passare per una fase in cui dare il massimo rilievo, in un paese dell’area capitalistica più avanzata, ad una lotta per l’autonomia (se non vogliamo chiamarla indipendenza) nei confronti dei predominanti centrali, che non saranno affatto messi a terra dalla crisi in atto come sperano alcuni superficiali. Non possiamo quindi prescindere da una questione in qualche misura “nazionale” (o, se si preferisce, di sistema-paese, dizione che comunque è troppo asettica), con opportuna distinzione tra gruppi di agenti capitalistici dipendenti, non autonomi rispetto ai predominanti centrali, e altri gruppi che potrebbero invece dare un diversa direzione al nostro sviluppo, rendendolo più consono a quella politica di sostegno al multipolarismo, che dovrebbe essere la stella polare di una nuova forza attiva nella sfera della politica (e anche dell’egemonia al fine di costruire un blocco sociale ad essa più confacente).

Chi cerca di sfuggire a questi problemi per inebriarsi con la pura “lotta di classe” è o molto limitato o un opportunista in cerca di qualche “gruzzolo” di voti per ritrovare i suoi emolumenti e la sua più che dorata finta opposizione! Questi vassalli, imbroglioni a tutto tondo e meschini intrallazzatori “di periferia”, vanno combattuti senza remissione.