STATI DI ECCEZIONE (di G. Gabellini)

Carl Schmitt scrisse che "Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione". E lo "stato di eccezione", si badi bene, descrive la presenza di un "vuoto", una situazione d'emergenza tale da richiedere la sospensione dei "normali" meccanismi procedurali resi "inadeguati" o "inefficaci" (o tutte e due le cose) dal verificarsi di straordinarie ed inaspettate circostanze.

Gli antichi giuristi romani furono i primi a rendersi conto della concretezza di questo argomento, e si presero la briga di fissare alcuni vincoli politici, giuridici e temporali atti a garantire la reversibilità della situazione, in modo tale che dallo "stato di eccezione" si tornasse alla "normalità", al regolare svolgimento preesistente. L'efficacia di tali vincoli fu puntualmente comprovata in occasione della Seconda Guerra Punica, quando il senato romano, preso atto della minaccia incarnata da Annibale e dell'evidente inadeguatezza della rigida prassi repubblicana, scelse di investire Quinto Fabio Massimo del ruolo di "dictator". A costui fu assegnato un incarico di assoluto potere regolato però da ferrei vincoli e soggetto a capillari controlli da parte del senato, che si riservò infatti il diritto di non rinnovargli il mandato quando ritenne inappropriata la sua strategia, giudicata eccessivamente cauta e attendista. Se il senato avesse perseverato nell'affrontare il pericolo cartaginese con gli spuntati strumenti che era in grado di fornire il sistema repubblicano e scelto di non nominare un "dictator", Roma sarebbe inesorabilmente caduta nelle mani di quel genio militare di Annibale. Le circostanze esigevano la presenza di un "accentratore" che sottraesse il potere decisionale alle fisiologiche lentezze repubblicane e lo concentrasse nelle proprie mani. Venute meno tali circostanze, cessava l'urgenza di tale accentramento, assieme alla rispettiva legittimazione giuridica. Non sempre, tuttavia, lo "stato di eccezione" è stato contenuto con simile efficacia. Adolf Hitler, ad esempio, fu l'assordante risposta ad un altro, urgentissimo "stato di eccezione". Il popolo tedesco versava effettivamente in condizioni disperate, frutto della sconsideratezza dei "vincitori" che si erano seduti al tavolo di Versailles all'indomani della Grande Guerra e, soprattutto, dell'avidità dei voraci strateghi del capitale angloamericani, bisognosi di investire in paesi in grado di garantire ampi margini di guadagno. Una Germania dilaniata dalla guerra, e quindi da ricostruire, piena zeppa di manodopera a basso costo rispondeva in pieno a questa "esigenza". I corrotti e parassitari parlamentari della Repubblica di Weimar aprirono immediatamente le frontiere al “libero mercato” al fine di agevolare il flusso di capitali internazionali, che piovvero improvvisamente sulla Germania e accolti dal popolo tedesco quasi si trattasse di manna dal cielo. La manodopera a basso costo stimolò orde di imprenditori ad approfittare della disponibilità mostrata da suddetti "investitori" per contrarre debiti al fine di "ammodernare" le proprie aziende. Grandi complessi industriali si sostituirono alle vecchie fabbriche, incoraggiando un vero e proprio esodo di massa verso le grandi città, che innescò un immediato boom edilizio, con le parallele ripercussioni, in termine di rincaro (si parla di qualcosa come il 600%), sui prezzi dei terreni edificabili. I weimariani abolirono cortesemente il calmieraggio degli affitti e del costo dei terreni, rimpinguando corposamente le tasche dei palazzinari a scapito di milioni di cittadini. La bolla speculativa legata all'edilizia e al valore dei terreni si gonfiò per diversi anni, per poi scoppiare con grande fragore, riportando tutti alla realtà. Da bravi capitalisti, gli imprenditori tedeschi avevano opposto ai segnali d'allarme che arrivavano continuamente le solite contromisure, che sono il licenziamento di massa e la riduzione dei salari, in ottemperanza alle direttive impartite dai padri del liberismo, secondo cui impoverendo la classe operaia si sarebbe alzata l’offerta di manodopera a basso costo, cosa che normalmente attrae gli investitori. Escogitando stratagemmi per razionalizzare la produzione, lorsignori non fecero altro che sfornare sempre più merci destinate a rimanere invendute, realtà che si materializza puntualmente ogni qualvolta si tende a varare misure atte a privilegiare sconsideratamente il capitale a discapito del lavoro. Harry Ford lo capì, a differenza degli imprenditori tedeschi, che tentarono di correre ai ripari diminuendo la produzione. I costi incomprimibili continuarono però a lievitare, ed andarono così a sommarsi all'inevitabile calo di profitti. L'inflazione galoppava, milioni di tedeschi si ritrovarono disoccupati e decine di banche fallirono a causa dell'insolvenza degli imprenditori cui avevano concesso credito. A beneficiare di questo sfacelo fu un pugno di proprietari terrieri, una manica di sciacalli "endogeni" in combutta con la grande finanza internazionale. Gli "utili idioti" che ancora oggi fingono di interrogarsi sull'"enigma del consenso", adducendo curiose motivazioni di natura antropologica e culturale per spiegare l'ascesa del nazismo, stanno in realtà facendo di tutto per occultare il fatto ineluttabile che è dalla devastazione organizzata a tavolino della Germania e dall'obbligato "stato di eccezione" successivamente instauratosi che è nato Adolf Hitler. Egli prese le redini di una nazione oberata dagli enormi debiti politici e commerciali, devastata dalla disoccupazione e a corto di riserve monetarie per portarla al benessere e alla piena occupazione in pochissimi anni. In quel caso, come è noto, lo "stato di eccezione" fu indetto (tacitamente, si capisce) in risposta ad esigenze di natura economica e politica, ma si tradusse effettivamente non nella "sospensione" delle "normali" procedure, ma nella loro revoca, e nel conseguente delineamento di un ordinamento inedito da protrarre a tempo indeterminato. Lo "stato di eccezione" si fece così "permanente", e si manifestò sul piano interno mediante la produzione artificiosa di una condizione di emergenza slegata da vincoli temporali, e su quello esterno prima come invasione degli stati limitrofi in funzione, ufficialmente, del consolidamento di uno “spazio vitale” per il popolo tedesco, poi come aggressione diretta di tutti i paesi europei non allineati al fine di fare del verbo nazista un nuovo “nomos della terra”, da imporre senza badare al sottile. In quel frangente, la gestione hitleriana dello “stato di eccezione” portò la Germania all’inevitabile annientamento. Anche Vladimir Putin, fustigato per le sue scarse “credenziali democratiche”, ha instaurato in Russia uno “stato di eccezione”,  accentrando il potere nelle proprie mani al fine di riportare sotto l’ala dello stato le gigantesche aziende russe (“Yukos” in primis) su cui avevano messo le mani quel pugno di oligarchi arricchitisi oscenamente grazie alle allegre privatizzazioni disposte da Boris El’cin. Una volta salito al potere, Putin ha immediatamente messo in guardia questi oligarchi, invitandoli a guardarsi bene dal l’interferire nelle decisioni che gli spettavano. Alcuni, come Roman Abramovich, ascoltarono il “consiglio”, e continuano beatamente a coltivare i propri interessi, mentre altri, come Boris Berezovskij e Mikhail Khodorkhovskij, fecero leva su un malrip
osto senso di onnipotenza per opporsi allo “zar”. Tutti sanno con quali esiti. Khodorkhovkij passerà presumibilmente il resto della vita in galera mentre Berezovkij non si azzarderà a rimetter piede in Russia finché Putin rimarrà al potere. Molte anime belle hanno inscenato isteriche e ipocrite alzate di scudi di fronte ai metodi utilizzati da Putin, evitando però di sottolineare il fatto che grazie ad essi la Russia è riuscita a risollevarsi. Sbarazzandosi dei parassitari e voraci oligarchi e piazzando arbitrariamente i propri fedelissimi nei ruoli chiave, Putin si è posto nelle condizioni di utilizzare le enormi riserve di idrocarburi con inedita aggressività, di riaffermare l’egemonia russa sulla (semi) intera costellazione di nazioni nate dalla disgregazione dell’Unione Sovietica e di aprire al gigante cinese pur mantenendo lo sguardo rivolto a ovest, verso l’Europa. Imbastendo fitte trame diplomatiche con i singoli paesi del Vecchio Continente, egli è riuscito a bypassare le parassitarie burocrazie di Bruxelles, rigorose portatrici degli interessi delle varie lobbies internazionali. Se Putin avesse scelto di rispettare la prassi democratica e le sue rispettive garanzie piuttosto che ricorrere a metodi tanto spicci e brutali, la Russia verserebbe in condizioni sicuramente peggiori rispetto a quelle che caratterizzarono la disastrosa era El’cin. Lo “stato di eccezione” si è dimostrato, in questo caso, la carta vincente, mentre negli USA, paese in cui lo “stato di eccezione” vige sostanzialmente dall’11 settembre 2001 e tecnicamente dall’applicazione del “patriot act”, quel pacchetto di leggi liberticide atte a “prevenire” e “debellare” lo spettro del fantomatico “terrorismo islamico” (senza che nessuno si azzardi ad avanzare dubbi sulle “credenziali democratiche” dello Zio Sam), si è rivelato un mezzo pericoloso e destabilizzante.  Come spesso accade, infatti, lo “stato di eccezione” interno è servito per aprirne uno esterno, che nello specifico si è tradotto con la continua ed arbitraria violazione del diritto internazionale, resa credibile da un meccanismo di “fictio juris” finalizzato a  dare "Forma legale di ciò che non può avere forma legale", come scrive l’egregio Giorgio Agamben. Da tutte queste vicende si evince chiaramente che instaurare uno “stato di eccezione” comporta inesorabilmente l’esporsi a grossi rischi, poiché significa gettare le basi di una situazione di limite le cui evoluzioni sono del tutto imprevedibili.  Esso rimane tuttavia una risorsa che, se gestita con cautela, può garantire ottimi risultati, mentre la democrazia è un sistema spesso inadatto a fronteggiare determinate situazioni. A volte, il pugno duro è una scelta doverosa, piaccia o no al pennivendolame politicamente corretto che nell’affrontare tematiche come questa ha fatto strame dell’intelligenza umana.